Verdi e Boito di Arrigo Benedetti

Verdi e Boito LA NUOVA FORTUNA DEL MELODRAMMA Verdi e Boito Verdi contemplò Manzoni ma quando espresse nel 1874 con la « Messa da requiem » il sentimento ricavatone, si trovò a sua volta ad essere contemplato. Arrigo Boito — ventinove anni di differenza — s'accorse d'essere affascinato da un genio. Dapprima, bisognoso di ammirare superuomini, si era dedicato a Wagner, un coetaneo di Verdi, quasi per accertare quali legami profondi c tenebrosi possano darsi fra un'arte e un popolo. Ora scopriva che l'anima italiana aveva da molti decenni un interprete limpido, idoneo a intenderla e a eccitarla. Si stabilì una nuova parentela culturale, che, attraverso le concatenazioni dell'affinità poetica, sarebbe giunta fino ai nostri tempi. Forse bisogna insistere col linguaggio freudiano, accettabile purché si tenga conto delle semplificazioni fatali in una nota giornalistica. Boito aveva ritrovato un padre fino ad allora non capito. E non era solo. Accanto gli erano due fratelli minori, Alfredo Catalani e Arturo Toscanini, i quali sebbene d'origine diversa — uno lucchese, l'altro parmense — appartenevano alla medesima famiglia spirituale. Dei tre, almeno Boito e Toscanini saranno il legame fra Verdi e il secolo futuro. (Catalani, incantato dai miti renani, scomparirà troppo presto per poter chiarire la sua posizione nei confronti del maggior operista italiano). Certo, furono tre epigoni. Potremmo ripetere, per giudicarli insieme, ciò che Croce scrisse appunto sull'autore del Nerone, del Re Orso e di tanti racconti e liriche ingegnosi, nella Letteratura della Nuova Italia: che cioè il romanticismo t come visione sconvolta, straziata e antitetica della vita, non ha avuto un poeta in Italia se non dopo il 1860, e in Arrigo Boito... » Egli, seguita Croce, guarda alla vita « come tragicità, in cui sono oltrapossenti le forze distruttrici, la passione, il peccato, il delitto, la morte, e hanno di fronte, deboli fiori spezzati e portati via dall'uragano, docili Desdemone, l'amore, la bontà, la dolcezza... In quella tragicità, egli scopre lo stravagante, il grottesco, il buffo ». Giudizio fin troppo positivo che ci aiuta a misurare il contributo che Boito dette a Verdi. E' indubbio che la visione tragica della vita, col corredo di forze irresistibili che distruggono la vita, era già in tutte le opere composte dal 1842 in poi. Un empito di passione e la capacità di prendere lo spettatore-ascoltatore per i capelli costringendolo, fatto nuovo in Italia, a guardare nell'abisso. Verdi è davvero il grande figlio del primo esile romanticismo italiano. Attinge a zone recondite, chiarisce aspirazioni collettive. Boito semmai lo rende cosciente della sua tragicità, e gli insegna (se si può dire così, giacché il miglior chiarimento a Verdi venne dalla lunga esperienza degli anni) a scorgere quanto c'è di buffo nell'esistenza. Una comicità che non esclude però la tragedia, e che non diminuisce la serietà morale. Dopo l'avversione giovanile, Arrigo Boito, insieme al suo amico Franco Faccio, grandissimo direttore d'orchestra, si soffermano a studiare un autore che il loro wagnerismo gli aveva fatto fraintendere. S'accorgono che il musicista di Lipsia e quello di Busseto non sono inconciliabili. Forse, sognano una specie di simbiosi, a vantaggio dell'italiano, non fosse altro perché di lì a pochi anni Wagner morirà (1883). Intuiscono che per Verdi comincia una di quelle vecchiaie prodigiose in cui la vita smette d'essere un fatto biologico, offrendo anzi occasioni per una creatività senza fine. La vec chiaia in questi casi pone l'uomo su un'altura, gli schiude un orizzonte più vasto e gli permette di contemplare con maggiore fermezza la realtà. In quegli anni Catalani, Puccini erano già al lavoro, Mascagni aveva avuto il suo successo precoce, ma si trattava di coetanei o quasi, e di rado un artista si sacrifica per sostenere un contemporaneo. Superata la diffidenza del misantropo di Sant'Agata, Boito sembra accingersi a un sacrificio. O almeno questa è la tesi generalmente accettata. E' certo che offrì a Verdi una collaborazione totale, ristabilendo fra lui e la vita, così com'era andata sviluppandosi nella seconda metà del secolo, quei legami che di solito vengono garantiti dai figli veri. Boito rivive l'epopea verdiana, rivede vecchi testi, per esempio il Simon Boccone già, dando a Verdi l'occasione d'approfondirne certe parti musicali. E provoca un nuovo incontro con Shakespeare. Ce n'era stato uno con Macbeth, su libretto di F. M. Piave, musicato nel 1847, e di cui si era avuta una rielaborazione per il « Théàtre Lyrique t di Parigi nel 1865; mentre ora lo scontro aveva l'aria d'essere meno occasionale: Verdi e Boito rielaborano un terribile testo shakespeariano, danno la loro versione d'Otello, non solitario eroe della gelosia ma posto fra il satanico Jago e la pura Desdemona. Verdi ha ormai settantaquattro anni. Ipocondriaco sempre, ha quasi l'aria di volersi arrendere dopo un tardivo e inatteso succèsso. 11 suo Manzoni, il suo Garibaldi, il suo Cavour sono morti da tempo. Sa che i motivi che glieli avevano fatti sentire vicini in paternità o fratellanza, ormai non hanno alcun valore. L'Italia, che mezzo secolo prima era un'idea astratta, esiste e delude. Meglio appartarsi. Boito però l'assilla, lo riporta a Milano, gli rida il gusto della vita. Non è un rapporto affettuoso, confidenziale. Verdi rimane guardingo, incoraggia cautamente lo scolaro. Pudore e diffidenza si mescolano e non si distinguono. Una relazione difficile, che però nella sfera arcana dell'arte diventa sempre più stretta, fino a dare .frutti meravigliosi che non possono dirsi fuori stagione. Dopo tanti anni ci si domanda se però non fu Verdi a soccorrere Boito. Il miglior talento — o uno dei migliori — della Scapigliatura lombarda non si dà gratis. Verdi, diventa un alibi per staccarsi dall'attività poetica e musicale che non soddisfa. Dopo Al e fis tof eie, Boito sa di non poter essere il nuovo grande del melodramma italiano. Accetta Verdi come Rimbaud l'Africa. Arriva a identificarsi con un essere che diffonde intorno a sé l'illusione dell'eternità e legge Shakespeare coi suoi occhi. Insomma, l'accompagna fino a quel 9 febbraio del 1893. Ormai, gli anni parevano avere sciolto il vecchio maestro. La Scala era diventato il teatro ch'egli aveva quasi supposto impossibile in Italia; cedeva ai suoi comandi, come Bayreuth aveva obbedito a Wagner. Gli stessi wagneriani disarmarono. Hans von Bùlow, primo marito di Cosima, che i wagneriani italiani avevano voluto a Bologna non fosse altro per il giudizio sprezzante espresso su Trovatore e Traviata, e perfino sulla Messa, si | ricrede. Milano è diventata gradevole. Verdi si sente arricchito dalla vita. Non lo confortano solo il denaro e la fama; ha l'impressione che si diceva: d'essere salito tanto in alto da guardare il creato con una curiosità nuova. Sa di poter disporre d'una gamma musicale più ricca. Accanto alla melodia e alla rabbia, il sarcasmo; al posto dei suoi famosi cori, egli costruisce duetti, terzetti, quartetti vocali, per i quali Boito gli prepara versi arditi, a cui manca la genialità del canto. Verdi avverte di custodire motivi demoniaci. QueW'Amen, quello scherzare fra il Salvagli l'addomine e il Fallo punito, Domine da un lato rivela alcune caratteristiche della Scapigliatura lombarda — ava di Carlo Emilio Gadda — e dall'altro prelude alle , parodie d'un grande scrittore nutrito di musica melodrammatica. Introibo ad altare Dei intona Buck Mulligan, solenne e paffuto, levando alto il bacile pieno di schiuma « su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio » all'inizio òeWUlis ■se. Sono le prime righe d'un poema in prosa dedicato a una città melodrammatica, verdiana, come Dublino. I legami con la cultura si rinnovano. Verdi, dopo avere avuto come mediatore Manzoni, ora si vale d'un poeta minore; non il maggiore dei suoi tempi come dicono certi: Carducci, Pascoli esistevano già. Una vecchiaia che parve michelangiolesca, con in più una nota sarcastica. Verdi resta a Milano fino alla terza replica di Fu/staff. Il saccheggio della realtà è finito, bisogna tacere, cogliere i primi echi d'una posterità grandiosa. La parabola è perfetta: all'impegno risorgimentale c seguito il disimpegno quasi sperimentale. Non più passioni corali, ma studio d'individui; dopo Otello e lago, il meraviglioso pancione di Windsor. Addio ai piaceri, alla gloria, senza rimpianto: « Tutto il mondo c burla. — L'uomo è nato burlone, — La fede in cor gli ciurla, — Gli ciurla la ragione ». Versi che Boito non aveva scritto traendoli dalla propria amarezza, o almeno non soltanto da quella. Arrigo Benedetti