Una sorda «lotta di classe » divide i giocatori di calcio di Gigi Ghirotti

Una sorda «lotta di classe » divide i giocatori di calcio INCHIESTA NEL PIÙ' RICCO DEGLI SPORT ITALIANI Una sorda «lotta di classe » divide i giocatori di calcio Tra il «divo» coperto di milioni e la comparsa, pur ben pagata, nascono accese rivalità che guastano il gioco - Gli abbracci generali dopo ogni «goal» danno una falsa immagine di fraternità - Anche gli assi privilegiati sono un po' come i cavalli di una scuderia da corsa: ben trattati, ma oggetto di un mercato che toglie un vero senso di responsabilità (Dal nostro inviato speciale) Milano, settembre. Giorni fa gli arbitri di calcio italiani, riuniti a San Pellegrino per il loro convegno annuale d'aggiornamento, si sono scambiati impressioni e propositi che dovrebbero interessare chi è impaziente di vedere in campo anche gli atleti della serie A. Un pezzo di conferenza, ascoltato furtivamente (il convegno era strettamente riservato) potrei riassumerlo così : « Non è vero che siano i giocatori a faticare di più durante un incontro; i veri cirenei della partita siamo noi, dannati a inseguire, fischietto alle labbra, il gioco dove corre, attenti a salvaguardare i preziosi stinchi dei campioni dall'insidia del " gioco pesante " ovvero " atletico " come oggi si preferisce chiamarlo. E se un calciatore, ahimé, vien colpito, o ha l'impressione di esserlo, guai: si rotola in terra, il pubblico urla, pretende il rigore, il calcio d'angolo, l'ammonizione al reo. Così, abbiamo partite frantumate in centinaia di piccole azioni, tutte sbocconcellate. Mai un gioco che fili via dal principio alla fine. E poi, per ricompensa, ci chiamano ancora " venduti"! ». Morale: da quest'anno, avremo arbitri meno fischiettanti, inclini a riguardare la « marcatura » come un normale evento sportivo. Chi la può fare, s'accomodi, senza tanti complimenti; e chi non riesce, pazienza, cambi mestiere. Anche gli allenatori sono orientati a prescegliere per questo campionato giocatori di grossa taglia e di robuste prestazioni. Siamo al « si salvi chi può ». Nelle inter pretazioni correnti, il succo della lezione dei campionati del mondo è tutto qui. Dove ci porterà questa « svolta », lo sapremo probabilmente da domenica prossima, telefonando al reparto ortopedico. Il fatto è che nei campi di gioco sono entrati clamorosamente criteri validi nel cinema e nel teatro. S'è detto e ripetuto che i calciatori sono troppo ben pagati: è vero. Se le trentotto squadre della serie A e della serie B possono, tutte insieme, segnare al loro passivo più d'un miliardo di soli interessi pagati annualmente alle banche, la spiegazione è nelle spese folli per arraffarsi i giocatori di grido. Ma nell'interno delle squadre c'è la lotta di classe: pagato a peso d'oro è solo il campione, agli altri gli spiccioli. E senza tante storie: nei loro ritiri, i giocatori sono tiranneggiati da allenatori, che non han occhi che per il goal, per il successo, timorosi di perder l'impiego se la squadra non farà contento il pubblico, e massimo il presidente. Ci sono presidenti che nelle loro aziende non si sognerebbero mai d'allungare una gratifica, all'uno o all'altro dei collaboratori, per la preoccupazione d'accendere rivalità insensate nell'equipe. Nel calcio avviene il contrario: la rivalità è stimolata, riattizzata a suon di palanche in ogni occasione. Se nasce un figlio al « divo », arriva di gran corsa il regalo del presidente: una bella fuori-serie, oppure l'assegno di un milione. Se nasce un figlio all'oscuro terzino, il signor Bonaventura si limita al biglietto d'au guri. Mi raccontava un giocatore gli squallidi retroscena d'una gara: il bel pallone passato a Tizio, e non a Caio, perché l'uno ti è ami co e l'altro no; il pallone de liberatamente sprecato, per far fallire l'azione d'un compagno di squadra che mi naccia di farsi troppo ono re; le alleanze, le congiure alle spalle del « divo », e il sottile inquinamento che di sgrega ogni compagine: l'adulazione, l'omertà; il pia cere di giocare insieme con taminato, sconvolto ogni sentimento di solidarietà e di operosa colleganza fra atleti d'una stessa maglia. Quando un giocatore se gna un goal, tutti gli corro no attorno, lo baciano, lo toccano, gli passano — félicitante e propiziatoria — una grattatina sulla nuca Le folle esultano; è uno dei piaceri delle domeniche sportive veder questa festa comune di chi ha gareggiato insieme. Ci duole dare una delusione ai tifosi sentimentali: quella scena non è un rito di fraternità atletica, ma un balletto di circostanza, frutto di un'accorta regìa, animato dal pensiero del premio di partita. Non c'è nulla, o quasi nulla, di più. La fraternità è stata sostituita dal produttivismo, si fa per dire. Quasi tutte le squadre sono uscite, dal recente mercato calcistico, svoltosi a Milano nello scorso luglio, letteralmente spennate. A parte il costo delle operazioni di compravendita (è stato il boom delle quotazioni, da che è incominciata l'allegra abitudine di mercanteggiarsi gli uomini come fossero animali da sella o da tiro), alcune squadre si sono trovate con quattro o cinque centravanti e nessu¬ na ala. Ciò significa, per l'appunto, che la corsa era non ad assicurarsi l'atleta che mancava a comporre il mosaico, ma la primadonna, il giocatore che dà spettacolo. L'ideale d'una compagine del nostro campionato sembra ormai quello d'allineare in campo una mezza dozzina di Lollobrigide, e qualche comparsa tanto per riempire la scena. Allenatori pieni di boria dettan legge nelle società; mediatori di campioni e sensali di partite cedute sottobanco girano impuniti e, anzi, rispettati e richiestissimi, a tutti i livelli dell'organizzazione calcistica. Si dà il caso di giocatori che leggono sul giornale d'essere stati « venduti » a loro insaputa (anzi, mentre si trovavano a gareggiare, e talvolta anche bene) ad altre squadre; altri che diventano proprietà personale del presidente, il quale li mette o non li mette in cam¬ po, a seconda dei suoi umori; altri che pagano con l'oscurità perenne oppure con l'estromissione dalla squadra lo scotto d'una libera critica avanzata in tema di gioco. Ai giocatori è vietato esprimere in sede d'intervista qualsiasi opinione sulla partita o sui dirigenti. Sono degl'infelici, cui è stata strappata la radice prima della virtù umana: il piacere e la sofferenza della responsabilità. Sono i protagonisti del gioco, ma senza voce in capitolo: solo piedi e stinchi. Uno dei più astuti e fortunati allenatori della serie A, Helenio Herrera, s'è reso conto che non bastano undici bravi giocatori a formare una buona squadra: sgretolata dalle invidie, potrebbe riuscire malissimo alla prova. Perciò, un quarto d'ora prima che la partita incominci, raduna i suoi calciatori negli spogliatoi e, a porte chiuse, li sottopone a un rito di meditazione: tutti insieme, la mano nella mano, se ne restano in raccoglimento silenzioso, concentrati nel pensiero del goal da segnare e del compito che a ciascuno è stato assegnato. Poi, con un cenno, il « mago » scioglie la seduta e la squadra scatta verso l'urlo dello stadio. Purtroppo nemmeno quest'espediente da stregone è stato sperimentato con gli « azzurri » negli ultimi campionati. Se undici « formiconi » della Corea del Nord han battuto i nostri ben pagati «signorini» del bel pie', la questione non è nei piedi. Nemmeno nei portafogli. La Federazione pensa che il male passerà facendo dei sodalizi sportivi una vasta « Anonima » da goal. Ma ci vuol altro, per risanare lo sport del calcio, se di sport è ancora lecito parlare. Gigi Ghirotti

Persone citate: Helenio Herrera

Luoghi citati: Corea Del Nord, Milano