Un potato e sognante film indiano conclude la XXVII rassegna del Lido

Un potato e sognante film indiano conclude la XXVII rassegna del Lido Questa sera l'assegnazione del "Leone d'oro,, Un potato e sognante film indiano conclude la XXVII rassegna del Lido E' « Il fuggiasco », un'opera poetica che presenta buone qualità di stile ma richiede anche, dallo spettatore, una pazienza alla quale non siamo avvezzi - Troppe complicazioni, per il protagonista, causate da due donne-bambine - Viva attesa per le premiazioni -1 favori del pronostico divisi fra tre pellicole: «Alla ventura Balthazar», «La battaglia di Algeri» e «Fahrenheit 451» (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 9 settembre. Si può dire che il meglio del cinema indiano discenda spiritualmente da Padre Tagore, al quale si rifà in presa diretta il quarantenne regista Tapan Sinha, che con Atithi ovvero II fuggiasco, tratto appunto da un racconto del poeta-filosofo, ha riportato l'India sullo schermo del Lido. E' noto che i film indiani esigono una certa pazienza nello spettatore: aggirano, non travolgono. Chi l'ha avuta, ha potuto sincerarsi che l'operetta di Sinha ha buone qualità di stile. La regìa si distende per quiete linee orizzontali, sposa il paesaggio indiano sottolineandone il senso liquido e musicale. Il che importerebbe pochissimo se codesto stile non facesse tutt'uno con l'anima del racconto e del suo piccolo protagonista, che anch'esso attraversa il film per il lungo, in un'inesausta sete di spazio. Tarapada è un ragazzo bramino, simpatico e ben voluto dalla gente del villaggio. Lui ricambia; ma più bene vuole al suo piffero, compagno delle sue gite nei campi. Queste gite prendono il carattere d'una fuga, del tutto innocente, da ogni forma di costrizione sociale, dal villaggio, dalla famiglia stessa. Per seguire una compagnia di guitti si porta molto lontano; ricondotto a casa con dolce fermezza dal fratello maggiore, scappa un'altra volta in obbedienza a un istinto più forte di lui. Chi lo terrà legato questo benedetto ragazzo, che da una semplice barca, da una farfalla come da un elefante, trae motivo di distrazione e spinta? Non ci riuscirà nemmeno, coi suoi agi, una ricca famiglia che lo ospita, e che presa da simpatia per lui vorrebbe dargli in moglie la figlia Charu, gelosa della tenera amicizia del ragazzo per la povera Motibabu, una vedova bambina. Le trattative di matrimonio, tessute a distanza fra le due famiglie, si lacerano per un nuovo scatto dell' incorreggibile errabondo verso l'infinita libertà. Film come questo, affidati a un motivo lirico, non saranno mai abbastanza puri, abbastanza poveri di complicazioni. Il fuggiasco si disunisce un po' nell'eccesso di tenuta e nel romanzo delle due donnine. Ma ha pagine di poetica freschezza e, complessivamente, la grazia dei film poveri. Sorride bene, sebbene troppo, il piccolo protagonista. Smontate le « tavole ro tonde », conclusa la retro spettiva « America allo specchio », prossima a concludersi l'informativa con un « omaggio » a Buster Keaton (Buster Keaton corre ancora, del canadese John Spotton, che ha pateticamente ripreso l'attore mentre girava il suo ultimo cortometraggio), avutasi la « giornata » di Godard (con Les carabiniers, Bande à part, Le petit soldat, inediti per .l'Italia, e con il documentario sul regista francese di Bazin e Labarthe), anche la rassegna grande è giunta al termine appunto col film indiano. Possiamo dunque stenderne un piccolo bilancio. Non abbiamo aspettato quest'anno per dire che la linea tuttora difesa Cè la parola, tante sono state le battaglie) dal direttore Luigi Chiarini ci pare sostanzialmente giusta, se si vuole che la Mostra d'arte cinematografica di Venezia (un'insegna, è bene ricordarlo, vincolante) non si perda e svanisca nella ressa dei concorrenti. Tutti sanno ormai in che consiste: ripudiare quei film magari benissimo fatti e senza difetti, che risentono dello standard produttivo, che non disturbano minimamente le abitudini dello spettatore, in favore di altri, che magari sbilenchi o anche sbagliati affatto, diano però il senso che il cinema si muove. Con la sola eccezione della Curée, ci pare che anche quest'anno la rassegna del Lido abbia infilato la cruna di quel criterio, anteponendo il « significativo » al « consuetudinario ». E che lo stesso spagnolo La ricer¬ ca, che figurò come il pove-[ ro della compagnia, per una sua pallida nobiltà uscisse dal concetto di produzione in serie (più ci propendeva, se mai, l'americano Gli angeli selvaggi, nel cui sbatacchio era però qualche nota originale). Sappiamo bene che il termine « significativo » è elastico: può comprendere anche James Bond. E allora diciamo: film che avessero o baleni di poesia (lo stesso Giochi di notte non ne era privo, e tanto meno il maceratissimo Uomo a metà di De Seta) o elementi atti a configurare una prospettiva critico-cultur-'e del cinema contemporaneo, o, molto meglio, le due cose insieme. Le tre cime, del resto pronosticate, della Venezia 1966 sono state Alla ventura, Balthazar di Robert Bresson, La battaglia d'Algeri di Gillo Pontecorvo e Fahrenheit J/.51 di Francois Truffaut: esempio il primo d'un cinema ascetico, di fedeltà a se stesso, totalmente alieno da lusinghe spettacolari; il secondo e il terzo di un intelligente conciliare tra gli interessi dell'autore e quelli del pubblico. A mezza costa, l'americano Chappaqua, il tedesco La ragazza senza storia e, un po' più in basso, il sovietico Il primo maestro col film indiano di oggi, sono risultati qualcosa di più che quattro promettenti opere prime: per il giovane Rooks e più ancora per Alexander Kluge si può parlare di sicure affermazioni', quali, dice Chiarini, soltanto in una mostra condotta con questi criteri di spregiudicata caccia all'ingegno, si potevano avere. In quanto alle C'reature della Varda, vale il già detto: meglio la sbandata dell'artista intelligente che il trionfo del mediocre. Finalmente il beckettiano Commedia servi da provocazione. Con questo non si nega che correndo annate migliori, alleviando Venezia dal disagio di venire buon ultima al raccolto col darle i mezzi per rovistare più a fondo, non si possa e debba far meglio. Nella scarsa misura in cui si può dire che i 14. film specchino l'anda- {mento del cinema, si è no-|tato nella tematica un rece- dere di motivi civili e so- ciali a favore di quelli d'in-\dagine psicologica e spesso ! patologica. Di fronte a cer-|,. ,. 6 .. . , , . Iti disperati grovigli (da ri-\cordare, molto timidamente, | quelli della vicina Bienna-ile), è lecito parlare di crisi, senza tuttavia mettere in questa parola l'acre pessimismo dei filistei. L'arte tutta si è fatta sulle crisi. Domani sera, la proclamazione dei vincitori, seguita dalla proiezione, fuori concorso, del film che Roberto Rossellini ha girato per la televisione francese: La presa del potere da parte di Luigi XIV. Leo Pestelli La giovane attrice italiana Lorella De Luca ieri in spiaggia al Lido (Telefoto)

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