Incanto antico delle C di Guido Piovene

Incanto antico delle C Incanto antico delle C Manarola è, con Vcrnazza, il più bello dei porticcioli tra Riomaggiore e Monterosso su quel tratto di costa ligure che è detta delle Cinqucterre; o almeno è quello, con Vcrnazza, che conserva di più l'aspetto originario. La strada automobilistica si ferma a Monterosso da un lato, e a Riomaggiore dall'altro, ma non li unisce ancora; cosi rimane in mezzo un tratto senza strada, nel quale si coltivano tra le rupi le famose vigne, e le migliori sono quelle più prossime al mare. Tra le vigne e le rupi sorgono le cantine, case minime in cui i piccoli proprietari portano l'uva delle vigne sparse nella montagna per pigiarla e per fare il vino; sono anche abitazioni dove, secondo l'uso antico, si va durante la vendemmia a riposare e a bere. Ho raccontato questo l'anno passato; ora vorrei fermarmi su uno dei tre villaggi, che sono Manarola, Vernazza e Corniglia, in cui si vive abitualmente, e poi su un animale marino. A Manarola si può andare da Riomaggiore a piedi in venti minuti, su una stradina piana che segue la costa, ma bastano quei venti minuti per cambiare mondo, finché potrà durare. Paese e porticciolo, chiusi in una morsa di roccia, non si vedono prima d'esserci arrivati dentro; il paese è poi quasi tutto raccolto in una sola via che finisce nel porto, raccolta come un palcoscenico, variopinta, di case bianche, rosse, arancione. Questi villaggi liguri, i pochi che rimangono quasi intatti grazie anche alla ristrettezza del suolo in cui si potrebbero espandere, conservano le speciali ragioni di bellezza dell'abitato antico, fosse villaggio o anche città; e proprio perché sono piccoli, ne danno una figura immediatamente palese, come uno schema elementare di organismi più complicati. La loro attrattiva è di essere simili a un organismo umano o animale. Il porto, per esempio, di Manarola, tanto piccolo che vi stanno dentro solo tre o quattro barche per andare a pesca, e le altre vanno e vengono da un piazzale più alto, calate e riportate su con le corde, serrato tra due speroni di roccia, è la bocca del corpo vivo che gli sta dietro; una bocca con le mascelle aperte; e proprio al centro un torrentello ci versa acqua col rumore che fa un liquido nella gola. Da per tutto del resto si ha la sensazione di vivere in un corpo animale che ci assomiglia, e quasi di camminare tra i suoi organi, scomposti e dislocati secondo la conformazione del suolo, ma ricomponibile sempre nel suo giusto disegno con un minimo d'astrazione. Questi centri abitati, simili ad organismi umani o animali, coprirono un tempo la terra, e corrispondevano alle figure umane ed animali che gli uomini scorgevano nelle costellazioni o sulla faccia della luna; adesso, nel tempo di Einstein, città e villaggi prendono un altro aspetto. Ho ricordato a Manarola che Berenson definì Siena uno stupendo scheletro d'animale rimasto integro; e che anche la città dove sono nato, una volta, vista dall'alto, somigliava ad uno scorpione, con le branche aperte da una parte, dall'altra la coda uncinata. Questa forma esatta, che era una ragione di bellezza urbanistica, ora è scomparsa nel groviglio delle case nuove; ma in un paese piccolo e stretto tra le rupi dura di più un'idea e un'immagine dello spazio che non è più la nostra. Torniamo a ritroso del tempo nel campione di un diverso spazio di quello dissolto e centrifugo che lasciamo alle spalle; nello spazio, oggi favoloso, di un mondo tutto antropomorfo. Per quanto poi la forma delle vie e delle case sembri determinata dalle condizioni ambientali, vi è anche il capriccio imprevedibile dell'organismo vivo. Come spesso negli abitati liguri, le case addossate alla roccia, sovrapposte una all'altra, sebbene con ingresso a vario livello, sembrano fare una sola muraglia. Due persone si parlano attraverso la via centrale sedute una in faccia all'altra al balcone, mentre la gente passa sotto; ma se alzano gli occhi vedono altri, su balconi «IfJMimi d'altre case, che sporgono la testa tra i vasi dei gerani. L'entrata in una casa è sempre come una ispezione in un organo interno e segreto; così la casa che mi ospita qualche ora. E' incorporata nelle case vicine ili cui ha la stessa altezza e lo. stesso intonaco, è nata con le proporzioni di oggi, è stata costruita apposta così, ma potrebbe essere collocata nella tromba di un ascensore; la scala ne occupa la metà, e lascia posto solo per una stanzetta ad ognuno dei quattro piani. Al primo piano si cucina, al secondo si mangia, al terzo si dorme, al quarto vi è uno studiolo; se vi sono ospiti numerosi, la scala è la sala da pranzo. Potrebbe essere la casa di un animale delle favole, piccolo e personalizzato. Ma essendo la casa, comprata per capriccio, di uno scienziato che si occupa anche degli affari di questo luogo, seduto su quegli scalini, ho ascoltato la storia del dattero di mare. Le zuppe di questo mollusco bivalve, che quando e chiuso e cresciuto a grandezza giusta somiglia al frutto della palma, e che qui prosperava tra Lerici, Portovencre, la Paimaria, il Tino e il Tinetto, oltre che sulla diga frangiflutto che sbarra, lunga oltre due chilometri, il golfo della Spezia, con intervalli per dare passaggio alle navi, vanno facendosi più rare. Il corpo che riempie quelle due valve non è, come sembra vedendolo, un grumo molle indifferenziato di carne, color arancione o grigiastro, ma una struttura complicata che sfugge allo sguardo distratto; dentro la quale l'acqua con le sostanze nutritive entra ed esce veloce tra una bocca d'entrata e una bocca di spurgo, il sangue circola nel sistema venoso, per lo più incolore ma in qualche specie anche rosso o bluastro. I datteri hanno un apparato digerente, circolatorio, respiratorio; organi di escrezione c di secrezione; una muscolatura e un sistema nervoso; perciò una bocca, un esofago, uno stomaco, un intestino, un fegato, un cuore, una aorta, reni, organi sessuali che emettono, nel maschio, la sostanza fecondatrice portata poi dalle acque alle femmine, le quali diventano gialle-arancione nei mesi caldi, non si capisce bene per attirare chi, giacché tutti stanno fermi inchiodati sulla stessa roccia. Infatti i datteri si attaccano alla roccia calcarea, quella nera venata di giallo chiamata portoro, e quella d'un giallo uniforme. Ma chi li ha incontrati nuotando sa che non è possibile staccarli con le dita. Questi animali perforanti si scavano un buco nella roccia, non però con mezzi meccanici, trapanando la roccia col piede come altri molluschi, ma chimicamente, emettendo una sostanza acida che corrode la pietra, finché si sono bene infissi; „„ ,„„„ iiiiiiiiiniiiiiiiiiiiniii e per questo prendono anni, come prendono quindici o vent'anni per raggiungere la lunghezza di sei centimetri, adatta per alimentarsene. Per questo non è conveniente fare coltivazioni, e bisogna rimettersi all'opera della natura. Per estrarli occorre staccare e issare sulla barca tutta la roccia sforacchiata, portandola dove si può romperla in superficie. La necessità, a quanto sembra, di asportare le rocce, che raramente sono riportate o sostituite, è una delle cause della loro crescente rarefazione sul mercato; mentre però ne è carica la diga del golfo, dove stanno al sicuro i datteri mai disturbati e forse di grandezza doppia, perché è vietato asportarne le abitazioni. Devo queste notizie, oltre che alla conversazione, a un opuscolo stampato da queste parti, che parla appunto con allarme della rarefazione dei datteri di mare nel golfo della Spezia, e ne suggerisce i rimedi. Nel suo nome latino, ìithodomus Lithofagus, questo animale molle è insieme domiciliato nella pietra e mangiatore della pietra. Guido Piovene

Persone citate: Berenson, Corniglia, Einstein

Luoghi citati: Lerici, Manarola, Monterosso, Riomaggiore, Siena