La lezione di libertà di Montale umanista

La lezione di libertà di Montale umanista Il giudizio di un poeta sulla cultura La lezione di libertà di Montale umanista « In Italia non esiste (...) una letteratura civile, colta e popolare insieme (...) si dovrà antique lavorare in solitudine ». « Lo stile ci verrà dal buon costume ». « Tutto si deve tentare per mettere in salvo (...) i tre o quattro punti d'intesa che rischiano di essere scancellati e sconvolti». Non sono chvvero molte, in tutta la letteratura rlel nostro Novecento, le sentenze come queste — così lucide c disincantate e ricche di impietosa vitalità — che si .'egano a un momento preciso della cronaca, vi affondano le radici sino al magma fluttuante che esploderà dal vulcano della storia, restano documento di passioni non addomesticate dal giuoco effimero delle convenienze. E il momento preciso, calendario alla mano, si fissa in una data memorabile: gennaio 19:5. Il luogo, anch'esso indimenticabile, è la rivista torinese // Bareni. L'autore, infine, Montale: Eugenio Montale poco più che ventottenne, alla vigilia dell'uscita del suo primo libro di poesie, Ossi di Seppia. Ma l'esordio poetico vorrebbe tutt'altro discorso, troppo lungo per quanto ora abbiamo da ricordare. Bastano le citazioni di quella voce ferma; e il ricordo degli avvenimenti: fine, proprio in quei giorni, delle ultime partenze di libertà sotto la baldanzosa valanga della dittatura mussoliniana; calvario, nel giro di pochi mesi, del fondatore e direttore di quella rivista: Piero Gobetti, denunciato per vii burocratica come testa da mettere in condizioni di non pensare, come individuo cui la nuova ragion di Stato suggeriva di render « la vita impossibile »; e perciò bastonato, offerto a bersaglio di intraprendenti criminali, vilipeso dall'analfabetismo dei mandatari e dal semianalfabetismo del loro mandante, costretto a morire in Francia l'anno dopo. Cominciava, insomma, la lunga notte cesarea. Ma restava qualcosa di giusto, di umano, detto sull'orlo della catastrofe come una promessa e un atto di fede « lo stile ci verrà dal buon costume». Ed ora che Montale — poeta « laureato », compagno di strada dell'Italia migliore nelle lunghe bufere di tanti anni — celebra il suo settantesimo compleanno raccogliendo sotto il titolo di Auto da fé i suoi scritti di argomento morale e civile, trovare quell'articolo del 1925 al primo posto è un avvenimento che basta non solo per rinnovare l'antica lezione — o per rinfrescare gli allori di una trascurata nobiltà —: c'è di mezzo, più alta e solenne l'assidua presenza di un uomo aperto alla vita, superiore alle occasionali divergenze delle nostre passioni — perfino al logoro dilemma fascismo antifascismo —, ribelle ai miti e alle vanità delle mode con una intransigenza che piacerà a qualche balordo e frettoloso conservatore incapace di riconoscervi la radice più autentica. La radice, cioè, di un gelosissimo e severo amore per il tempo presente. Ecco, infatti, quanto egli ci dice sui nostri giorni: aio li amo appassionatamente, e appunto per questo ne scopro la caducità ». Di qui ia gran polemica, temperata con un sorriso ricordando nelle poche righe introduttive il doppio senso del titolo e offrendo ogni comprensione al lettore che lo intendesse come « rogo per gli eretici » (:« licenziando queste cronache ho l'impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre»). Polemica, soprattutto, contro la falsa cultura, contrabbandata come futile ornamento e inconsistente decoro dei parvenus: alienazione e fenomenologia, ripudio dei sentimenti e snobistica negazione del passato in blocco, musica postdodecafonica c narrativa dell'école du regard, pittura informale e arte industrializzata, prima ancora che miti del gusto (cattivo gusto) corrente, sono per Montale balocchi già logori in partenza. Né importa che siano più o meno ingegnosi; importa, e rattrista, l'umanità che continua a trastullarsene pur avendo raggiunto — all'anagrafe .— l'età ■ della ragione. Tutto, d'altra parte, confluisce nel calderone di un ambiguo velleitarismo. C'è in giro un gran bisogno di correre — a co sto di incespicare, di battere il capo nei pali della luce — perché camminare è più difficile. E le tiritere sconnesse, con la lingua inceppata dall'ubbriachezza, sono un comodo surrogato per chi non sa discorrere. Infat ti: < le avanguardie tanto più sono borghesi quanto più sono avanguardistiche »; e la smania del pubblico di acquistar paten ti di spregiudicatezza tuffandosi nei mulinelli del nuovo ha un fondo di neghittosa idolatria: « l'aggiornamento è una delle facce dell'odierno conformismo». Attenzione, però: cercare . Montale su un'ipotetica cattedra di corrucciata saggezza, aspettarlo al varco — sempre scivoloso — dei predicatori" col dito alzato e lo sguardo piamente rivolto a, un Olimpo di perfette virtù, sarebbe come leggerne le poesie per ammazzare la noia. Egli non predica mai, né ammonisce, né minaccia castighi per le leggerezze del mondo. Non giùdice, ma testimone e confessore dei comuni smarrimenti, egli se mai cerca quale sia la via di fuga dall'aridità, e quale zattera offra un. appiglio per galleggiare nella tempesta. E la trova riscoprendo la dignità della cultura: « Poiché non è in poter riostro di modificare le condizioni in cui ci ha posto il progresso, il dovere di noi, dei cosìdetti intellettuali, è .di far sì che una parte del miglior passato possa sopravvivere». Ancora una lezione, dunque. Una lunga lesione di libertà, cominciata non a caso quando stavano franando anche le altre libertà di vivere da uomini civili, senza bruciare incensi su tripodi littorii per conservare il posto e far carriera. Ferdinando Gian nessi

Persone citate: Eugenio Montale, Ferdinando Gian, Montale, Piero Gobetti, Seppia

Luoghi citati: Francia, Italia