Ricordo di Francesco Cilea a cento anni dalla nascita

Ricordo di Francesco Cilea a cento anni dalla nascita Un musicista che amava cantare i sentimenti umani Ricordo di Francesco Cilea a cento anni dalla nascita La vecchiezza lo aveva risecchito, ancor più rimpicciolito, un poco curvato, e in due sensi colpito: nella vista, che un'operazione chirurgica gli ridonò Quasi intiera, e nell'udito, perdita lenta e irreparabile. E questa menomazione tristissima egli dissimulava nelle conversazioni: tentava di soverchiare le voci altrui e la propria, molto fioca, picchiando nervosamente il suolo con la punta dell'immancabile bastoncino dal manico antico. Garbato, semplice, cortese senza smancerie, mai trascurato, ancora un po' calabrese nella cadenza. Era nato a Palmi 11 26 luglio del 1866. Un vero signore, mai profittò dell'autorità dell'Accademia d'Italia per una spintarella alle s'ue opere meno fortunate, o, comunque, per pavoneggiarsi. Ma da quella istituzione accolse gratissimo l'incarico di approntare la prima stampa di alcune pagine di Bellini. Orgoglioso d'esser stato avviato agli studi musicali da Francesco Florimo, il biografo di Bellini, s'allietava di terminare l'operosità curando gli inediti appunto del Catanese. Smentiva, sdegnato, la malignità presto divulgata, dell'avversione di Mascagni alla sua carriera incipiente. Era fermo e probo nel dovere didattico, fino, come usa dire, alla pignoleria, nel metodo e nello scrupolo dell'inse gnamento, anche nell'osservan za della prescritta durata del le lezioni. Tale, nel primo grado, insegnante di pianoforte nel Conservatorio di San Pietro a Maiella; tale, nella cat tedra di armonia nel Cherubini a Firenze; infine nella direzione dei «Collegi» di Palermo e, ultimamente, di Napoli. Compiuti gli anni nel servi zio statale, si traslocò a Varazze, in una tranquilla villetta della carissima consor te, la buona e rasserenante signora Rosa. Riceveva la visita di qualche cordiale collega 0 allievo, di rado usciva Ma non rinunciava, quanto potè va, a una certa intrinsichezza con la musica. Seguendo talvolta una rappresentazione deduceva dal gesto del direttore e dall'azione scenica il corso, il momento, della com posizione; e toccando il pianoforte, di cui non percepiva 1 suoni, meccanicamente aiutava la memoria sonora col gioco delle dita. Tornava con austero diletto agli artisti che Paolo Serrao e Beniamino Cesi, 1 suoi maestri napoletani, gli avevan fatto primamente conoscere, i grandi, gli esemplari in ogni tempo, quelli che sintetizzarono nella compiutezza dell'opera d'arte gli elementi distinti da un'erronea convenzione tradizionale: di qua la vocalità, il canto, la melodia, dall'altra parte l'armonia, la strumentazione, infine la così detta scientificità. Malgrado tale stupido contrasto, favorito dall'incultura, i maggiori, grazie all'alta loro potenza artistica, eran pertanto riusciti a più d'un capolavoro, « composizione » cioè di tutti i mezzi sonori per l'espresBione drammatica di lirici stati d'animo L'operistica, per menzionare il meglio, del Cilea, mostra dal l'inizio alla fine l'adesione e il distacco dal concetto del melodramma all'italiana, nel Sette e nell'Ottocento, e la va riazione del gusto musicale italiano più frequente nel suo tempo. (Considerazioni di queste tradizioni e di queste proprietà artistiche, qui appena sfiorate, son da leggere nel l'ampio ed eccellente saggio sul Cilea di Gianandrea Gavazzeni nel recente libro dal titolo evidentemente malizioso I nemici della musica. Mila no, ed. All'insegna del pesce d'oro). Tornava dunque 11 Cilea, e con speciale predilezione nell'età matura, a Leonardo Leo, non tanto pel brio comico quanto per la densità dell'impeto appassionato; tornava alla prodigiosa varietà immaginosa di Domenico Scarlatti;, e anche a qualche sensibilità massenettiana, che più palese icheggiava nel Puccini. E per un altro verso si differenziava da Mascagni, da Giordano, da Leoncavallo, per l'aborrimento del cosi detto verismo, in quanto crudezza, violenza ed enfasi e grossolanità. Preferiva cantare, come avvenne nell'Adriano e nell'Artesiana, l'amore sofferto intimamente e non traboccante in esasperazione, anche l'amarezza delle delusioni, la nostalgia, e la grazia, la bontà, la gentilezza. Perfino l'esigente Hanslick, che nel '92 ebbe a giudicare a Vienna cinque fra i nostri giovani, Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Mugnone e Cilea, lodò nella Tilde l'elegante talento lirico e la maestria. In quell'esigua partitura, come in quelle che seguirono, il dramma non è la sostanza della composizione, né il motore d'ogni lirica espressione. Bisogna ascriver lui fra gli operisti d'ogni tempo, italiani e stranieri, che, non concependo il melodramma come unità artistica, ne sentivano intensamente alcuni episodi, e, non creando persone di gagliarda statura, ne rappresentavano alcuni tratti, e ne trasmutavano talvolta i sentimenti da psicologici in lirici. Questi erano i migliori momenti, le occasioni della romanza. E di lamenti, il Cilea ne formò con nobile vaghezza, come «Anch'io vorrei dormir così» nellArlesiana, come «Poveri fiori», o «L'anima è stanca» nell'Adriana Lecouvreur, espressioni d'un istante, le quali pertanto conferiscono al personaggio un'essenza vitale. E proprio nell'Adriana quell'essenza si irraggia in quasi tutte le scene e con la costanza stilistica ne fa quasi coerente la successione. Stando a Varazze, dispose nel testamento: l'assegnazione dei proventi di tutte le sue composizioni a favore della Casa di riposo verdiana a Mi lano, e la vendita d'un suo podere in Calabria per l'istituzione d'una borsa di studio nel Liceo Musicale di Reggio Calabria. Si spense il 20 no vembre 1950. Le ceneri furono trasportate a Palmi nel 1962. A. Della Corte