La Svizzera turbata dalla paura di essere diventata troppo ricca di Igor Man

La Svizzera turbata dalla paura di essere diventata troppo ricca UNA PREOCCUPAZIONE NUOVA: L'ANGOSCIA DEL BENESSERE La Svizzera turbata dalla paura di essere diventata troppo ricca Dopo la guerra la sua industria, uscita indenne dai bombardamenti, ha avuto un grande sviluppo per la domanda continua del mercato estero e poi di quello interno - La prosperità ha favorito l'afflusso di capitali e di manodopera straniera - I lavoratori di altri Paesi erano 100 mila nel 1949, e superavano i 700 mila (di cui 420 mila gli italiani) nel 1964 - Questo movimento ha creato gravi problemi sociali ed ha fatto salire i prezzi - Soprattutto si sono accorti che l'attuale benessere economico poggia sull'apporto straniero, mentre le strutture, rimaste vecchie, diventano inadeguate - Il governo chiede un momento di tregua per un'opera di aggiornamento che è indispensabile (Dal nostro inviato speciale) Zurigo, 18 luglio. Se il Belgio è *il grande malato dell'Europa », come ha scritto il « Financial Times », il malessere che angustia la Svizzera è il più singolare del mondo. Il Belgio soffre, di deperimento industriale, al contrario, la Svizzera è in piena espansione, ad affliggerla è semmai, una « supercongiuntura favorevole »: si produce troppo, si consuma troppo, si costruisce eccessivamente, ci sono troppi capitali esteri nelle banche della Confederazione, ci sono soprattutto troppi stranieri: un milione (di cui !,50.noo italiani) su cinque miiloni e mezzo di abitanti. Per anni gli svizzeri hanno continuato a produrre ricchezza, aumentando il proprio benessere, senza curarsi granché di quanto accadeva intorno a loro, nel cuore dell'Europa ma non con l'Europa, respingendo in nome di un conservatorismo che-si voleva saggio e collaudato ogni sollecitazione a rinnovarsi, a sintonizzarsi con la realtà europea in continuo processo evolutivo. D'improvviso si sono dovuti accorgere che anche lo splendido congegno della loro economia liberista non è esente da pecche, che non basta diventar sempre più ricchi per essere felici, che non è possibile mantenere la prosperità pretendendo di farne pagare il prezzo agli altri, che per poter fare ancora un passo avanti domani pub essere necessario farne due indietro oggi. Da qui il malessere più singolare del mondo in quanto frutto dell'abbondanza, giustappunto il « malessere elvetico », quello che qualcuno ha chiamato la nevrosi della prosperità, altri l'angoscia del benessere ma che, in definitiva, è una presa di coscienza esistenziale. Una crisi benefica poiché dovrà, prima o poi, sboccare in precise scelte di fondo, di cui oggi si pongono già le premèsse, sia pure non senza disagio. Contro le previsioni dei più, alla guerra, in Svizzera, non segui la crisi economica: l'industria si trovò invece a dover rispondere a una domanda fortissima: all'interno ma segnatamente all'estero. I paesi sconvolti dai bombardamenti abbisognavano d'ogni sorta di beni che l'industria svizzera, rimasta indenne, era in larga misura capace di fornire. Da principio l'aiuto americano, e, poi, via via, lo spirito di cooperazione economica tra i paesi dell'Europa Occidentale, la liberazione degli scambi, il ritorno alla convertibilità della moneta facevano sì che la domanda estera aumentasse, di conserva con la straordinaria espansione del commercio europeo. Di conseguenza l'economia svizzera finiva col raggiungere una espansione colossale che, peraltro, non sarebbe stata possibile senza una abbondante manodopera straniera e senza un copioso afflusso di capitali esteri. L'espansione dell'industria conseguita con il concorso dei lavoratori stranieri (italiani in massima parte) ha accresciuto la produttività elvetica ma, nello stesso tempo, ha determinato un forte aumento della domanda interna in beni di consumo e strumentali, alloggi, lavori pubblici e, conseguentemente, un sempre maggiore aumento dei prezzi in uno con un pesante disavanzo commerciale e il deterioramento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Più volte il governo fece appello al senso di responsabilità delle Banche, degli imprenditori perché disciplinassero l'impiego dei capitali, perché limitassero l'ingaggiò della manodopera straniera; ma la rinuncia agli operai che costano poco e rendono molto avrebbe costretto il patronato a una attività ridotta e a una costosa ristrutturazione degli impianti, così si continuò a preferire agli incerti della automazione le braccia sicure ed economiche dei lavoratori importati,^ in maggioranza italiani ' del Sud. Nel febbraio 1949 i lavoratori stranieri non superavano i centomila, nell'estate del 1964 toccarono la punta massima di 720.000, di cui 474.OOO italiani. Con i centomila professionisti e con le famiglie dei lavoratori, si arrivava a oltre un mfZtone di stranieri. Tale massiccia pre- senza umana non costituiva soltanto un fattore di produzione ma ovviamente influiva anche sulla domanda, implicando la creazione di nuovi posti di lavoro con il conseguente impiego di capitali e di una considerevole manodopera. Occorreva dunque ricorrere sempre più ai capitali esteri, e reclutare ancora nuovi contingenti di lavoratori. Un circolo vizioso. Deciso a spezzarlo, il governo federale si vide costretto « per ragioni sociali, demografiche, politiche ed economiche » a impedire il progressivo inserimento del capitale estero sul mercato svizzero e a limitare l'afflusso della manodopera straniera, emanando due « leggi di emergenza» ai primi del 1964. Il 28 febbraio 19BS il popolo svizzero, chiamato a referendum, le approvò con la maggioranza dei due terzi. Sono due leggi impopolari perché frenano l'espansione economica, urtando una somma di interessi potenti, una secolare tradizione Ziberisf-ica, Ze gelose autonomie locali. Approvandole, gli svizzeri han dato prova di grande maturità, di altissimo civismo ma l'emanazione delle due leggi e la loro riconosciuta giustezza hanno effettivamente messo in discussione tutto il sistema di vita elvetico incentrato sulla assoluta libertà della iniziativa privata, su di un calcolato realismo empirico. Non senza sgomento ci si è accorti, in Svizzera, di non disporre, in tanta abbondanza, degli strumenti moderni con cui gli altri paesi europei misurano e controllano la realtà economica. Ci si è accorti di essere un-, paese < sottosviluppato in fatto di statistiche» (la-definizione è del vice presidente della Banca Nazionale), e solo all'apparenza economicamente robusto dal momento che per muovere la macchina è necessario rivolgersi al capitale, alla manodopera stranieri. Il celebrata buon senso antico, la tradizione non hanno retto alla prova, occorre aggiornarsi e presto. Aggiornarsi significherà innanzitutto conferire allo Stato gli strumenti necessari per condurre una politica di congiuntura flessibile ed efficace. In una confederazione come l'elvetica, dove i Cantoni sono sovrani in materia di leggi, il compito si presenta estremamente difficile. La Svizzera è una democrazia diretta e liberista dove non tutti sono disposti ad ammettere che « in economia come in politica l'esercizio pieno della libertà implica U dover accettare determinate regole intese precisamente ad assicurare questa libertà ». Nel giugno scorso sono state presentate al Parlamento due mozioni per raccomandare studi preliminari per una prossima revisione totale della costituzione vecchia di cent'anni. Il ministro della giustizia nell'accettarle a nome del governo ha prospettato l'urgenza di rivedere, intanto, almeno tre articoli nell'intento di introdurre il suffragio femminile, l'abolizione delle eccezioni a carico dei gesuiti e dei conventi, la possibilità di legiferare in materia di diritto fondiario (il che, in teoria, aprirebbe la strada alle municipalizzazioni, addirittura alle nazionalizzazioni). La presenza massiccia degli stranieri ha portato benessere a anche sgufZibri ma ha soprattutto mosso le acque: oggi in Svizzera tutto viene posto in discussione, si guarda all'Europa con maggiore umiZtà e interesse, si considera seriamente la possibilità di entrare all'Onu. Spira un soffio d'aria nuova che stimola ma che tuttavia sconcerta. Non sono pochi infatti quelli che non sapendo rassegnarsi all'idea di dover rinunciare al « buon sistema antico », garanzia di una esistenza « ammortizzabile come un mutuo », sfogano sui lavoratori stranieri il proprio malumore, lo sgomento e la frustrazione. Scambiando rozzamente causa ed effetto, il lavoratore straniero venuto in Svizzera perché la Svizzera aveva bisogno di lui, è ora indicato come il responsabile del fatto che la struttura sociale del paese non abbia saputo tenere il passo con lo straordinario sviluppo economico. Nasce così un problema delle minoranze con tutto ciò ch'esso comporta (discriminazione, sfruttamento, razzismo) e a farne le spese sono naturalmente gli italiani che dei lavoratori stranieri costituiscono la parte più numerosa e più appariscente. Igor Man