Le lettere ignote di Vittorio Emanuele II

Le lettere ignote di Vittorio Emanuele II Pubblicate per la prima volta le carie confidenziali del re Le lettere ignote di Vittorio Emanuele II L'epistolario, curato da Francesco Cognasso, raccoglie oltre 2200 scritti, dalle letterine del principe al precettore fino agli ultimi telegrammi dal Quirinale • Ne esce un ritratto autentico e vivo, talvolta sorprendente, del sovrano - Sono una rivelazione le tenere e scherzose lettere d'amore alla moglie Maria Adelaide, con un loro segreto «lessico familiare» - Le gelose confidenze nella corrispondenza alla figlia Clotilde - Gli scritti politici confermano le grandi qualità del re - Non amava il trono, pur avendo il gusto del potere («Ho un pessimo mestiere fra le mani ») • Da Novara alla morte agi con un forte senso del dovere e lucida coscienza della sua « missione italiana » In dieci anni di intenso lavoro Francesco Cognasso, presidente della Deputazione subalpina di storia patria, ha raccolto tutte le lettere oggi reperibili di Vittorio Emanuele II: duemiladuccentotrentuna, in massima parte inedite, dalla letterina che il duca di Savoia, di otto anni, scrisse al precettore abate Charvaz, fino al telegramma di cordoglio che il sovrano, quattro giorni prima della morte, indirizzò alla famiglia per la scomparsa dell'amico e collaboratore Alfonso Lamarmora. I due imponenti volumi editi dalla stessa Deputazione subalpina, di complessive 1700 pagine, non racchiudono tutti gli scritti, privati e politici, di Vittorio Emanuele: sono scomparsi gli archivi di Urbano Rattazzi, confidente del re, di Costantino Nigra, dei generali Cialdini, Menabrea e Della Rocca, della contessa di Mirafiori (la «bela Ròsin>); di molte lettere, ricordate o citate in vecchi libri, mancano gli originali. Ma l'epistolario è completissimo di tutti i documenti superstiti, fino alle minute dei telegrammi privati ed alle istruzioni del sovrano ai funzionari della sua Casa. Per la prima volta sono pubblicate le carte (tutte?) dell'Archivio reale trasportato da Umberto II a Cascais le lettere custodite a Parigi, Londra, Vienna, in Vaticano, presso famiglie patrizie o discendenti di ministri; e soprattutto gli straordinari documenti dell'* Archivio Napoleone > — centinaia di lettere del re alla principessa Clotilde, al genero «Plon-Plon>, alla moglie Maria Adelaide (come dono di nozze, la figlia prediletta ebbe da Vittorio Emanuele gli scritti che il padre e la madre si erano scambiati, dalle trattative per il fidanzamento sino alla morte prematura della regina). Grande « personaggio » snsdncdsmivMamtgltcsE' superfluo sottolineare l'importanza dell'epistolario per la < grande storia > del Risorgimento. Ma l'interesse più vivo e nuovo di tante lettere, soprattutto per il pubblico, sta nel ritratto completo ed autentico, senza deformazioni né agiografiche né polemiche, che esse disegnano di Vittorio Emanuele II, come uomo e come sovrano. E bisogna dire subito che il re esce bene da questa « prova della verità >. Per fortuna, Vittorio Emanuele non aveva preoccupazioni letterarie: perciò la sua corrispondenza, scritta con immediatezza ed abbandono, è tanto più rivelatrice; ed anche se grammatica e sintassi appaiono tutt'altro che impeccabili, molte lettere hanno forza, vivacità, rara efficacia. Scriveva, indifferentemente, in italiano ed in francese un po' piemontesizzando tutte e due le lingue, magari alternandole in una stessa lettera, ed in entrambe con un egual numero d'errori (« venghi >, < vadi », * dassero », < potiamo » s'incontrano spesso). Malgrado gli studi severi, pedanteschi voluti da Carlo Alberto, il re stesso conosceva i limiti della sua cultura e confessava una certa impaziente pigrizia: «Mi pare che ci potranno sgridare tutte e due — diceva alla figlia Clotilde — La scritturazione non è il nostro forte ». Ma aveva una personalità troppo ricca e robusta per « scrivere male ». Nelle lettere infantili ai familiari ed al precettore, il temperamento vero del duca di Savoia appare compresso dall'educazione religiosa spinta fino al bigottismo, dalla severa austerità e dal pesante controllo imposti da Carlo Alberto. Tra padre e figli non c'era né confidenza, né spontaneo slancio di affetti. Si scorge soltanto una passione già fortissima per i cavalli, la caccia, la libertà e la solitudine della montagna, l'esercizio fisico faticoso e violento: amori che dureranno tutta la vita. Forse non c'è lettera al cugino principe Eugenio in cui, magari tra un rapporto di guerra ed fen ordine per l'ammini cd strazione del Napoletano, il re non parli di cavalli da acquistare, provare o vendere. Quando una crisi politica lo tratteneva a lungo nella capitale, chiedeva ai custodi delle case di caccia notizie dei suoi camosci. Dodicenne, descriveva a mons. Charvaz gli animali che incontrava o allevava; sovrano, volle avere un suo « zoo > alla Mandria e tentò di crearne un altro a Boboli. Certe lettere ai ministri dalle <.sue care montagne», o dopo un'esaltante giornata di caccia, confermano l'esatta osservazione dello scultore Marrocchetti: * Ha qualcosa di selvaggio, di pittoresco, che ricorda un re barbaro», t Il re innamorato é a o , Un' Vittorio Emanuele tutto diverso, — tenero, scherzoso e appassionato, — forse inatteso, appare dalla corrispondenza prima con la moglie, poi con la figlia Clotilde. Sposò l'arciduchessa austriaca Maria Adelaide per ragion di Stato e per consuetudine di famiglia — ed infatti le lettere tra i fidanzati sono banali componimenti d'occasione; ma nel matrimonio scopri l'amore. Gli scritti dai campi di battaglia del 1848, rivelano forti sentimenti anche per il loro lessico segreto. Vittorio si rivolge alla sua Lufette, alla sua Poucette, firmando €ton Luf», <ton Louzzi», « ton Fufi Victor ». Le scrive da Pastrengo: « Cara Pouzzi, sono disperato di saperti ammalata, e tanto piango ma sempre mi nascondo perché nessuno dei miei ufficiali mi vedano? lo, povero diavolo, partire così contento che Lufette era guarita, e poi questo, o povero mei Ti ringrazio tanto dei tuoi sigari, come sei buona! M'hai fatto piangere». Le racconta, con un linguaggio di crudo e scherzoso realismo, le avventure dei suoi ufficiali, e non le nasconde le tentazioni cui cercava di resistere. Nelle pause delle operazioni militari, non osando chiedere al padre qualche'giorno di permesso, organizza complicate fuge a Torino per incontrare clandestinamente la moglie: < Potrò arrivare a mezzanotte. Cambia di posto i domestici non sicuri, manda Clerico ad aspettarmi dal giardiniere passando dalla scala a chiocciola. C'è un passaggio in cima alla scala della Regina, dove posso passare senza attraversare la camera dei valletti; entrerò nella stanza di mio fratello, dove Clerico mi avrà prima aperto una porta... Pouzzi buona, ti amo infinitamente. Mi faccio una festa immensa, di vederti». Con i figli aveva certo rapporti più affettuosi e spontanei di Carlo Alberto; se pur contenuti, quelli con i maschi, da un distacco e da un formalismo che alla nostra sensibilità sembrano innaturali (non volle assistere alla morte del ventenne principe Oddone, fragile e deforme). Tutta la sua tenerezza si riversava su Clotilde, sacrificata alla necessità dell'alleanza francese, e seguita sempre con sollecitudine, ammirazione e piena confidenza. Comunicandole la nascita di un nipotino — il primogenito della sedicenne Maria Pia, regina del Portogallo, dice: < Ora, cara Ciò, che la povera Maria che è anche essa una piccina viene di farne anche essa un altro piccino, o povero mi, che brutto uomo che io diventai Tutte le mie figlie fanno pie cini; sono sicuro che anche questo sarà tutto rotondo ». Una vera confessione Accetta dalla figlia, religiosissima, un chiaro rimprovero per il suo lungo legame con la « bela Rósin », e si giustifica e le spiega l'invincibile forza di questo legame, con un abbandono confidenziale certamente unico: « Mi faccio un gran coraggio e mi metto a scrìverti.., Mi dici di non gennarmi con la Keìnna e che essa mi vuol bene; ciò mi da coraggio ed io mi metto all'opra fidandomi sulla tua bontà...». (Riproduciamo, qui a fianco, questa lettera eccezionale). Alla principessa Clotilde, ab- bfnllpsglntcfcdc l o i - bandonando per una volta la ferma convinzione che le donne debbano occuparsi solo della famiglia e della casa, e restar lontane dalla politica « che non possono capire », spiega e giustifica il conflitto tra Italia e Santa Sede. Forse perché conosceva l'intensa, apprensiva religiosità della figlia, o perché sapeva quanto il suo infelice matrimonio avesse giovato all'Italia (l'epistolario conferma che il principe Gerolamo Napoleone fu il- più appassionato e autorevole patrono della nostra causa nazionale a Parigi), affronta a fondo questo problema centrale del Risorgimento; e ne dà la chiara e nobile sintesi che si può vedere nella lettera da noi intitolata « Stato e Chiesa ». Orgoglio e sacrificio npvdlsSvuE? una lettera rivelatrice dello spirito del re: in Vittorio Emanuele erano saldissimi il senso del dovere e la certezza di una missione, di fronte all'Italia e a Dio. L'orgoglio dinastico, l'alta coscienza della dignità regale (« Mi pare che lei conoscendomi, quando io le mando una lettera, deve già sapere che va bene, non parlo poi da sovrano, perché come tale non devo render conto a nessuno di quel che faccio », scrisse seccamente nel '52 a Massimo d'Azeglio), il gusto del potere personale e persino dell'intrigo non sarebbero bastati, senza la ferma convinzione di un dovere da compiere, a farne un protagonista primario del Risorgimento. « Credo che Ella voglia canzonare un semplice mortale, che servendo fedelmente il suo paese ha però fatto un mestiere che gli Ha sempre piaciuto poco », scriveva nel 1871 a Giovanni Lanza, con indubbia se pur parziale sincerità. Era appassionato al mestiere delle armi, e convinto delle sue capacità di condottiero; ma non aveva desiderato le responsabilità della Corona. Nel maggio 1848 confidava alla moglie: « // Re parla continuamente di abdicare ed ho paura che uno di questi giorni lo faccia. Sarò allora molto infelice e la ma carriera militare sarebbe quasi distrutta; perché ti prometto che se tuo marito continua nella carriera di generale, spera non solo per il suo valore ma per i suoi talenti militari di far -parlare di lui nel mondo e di essere degno della sua Lufette ». Accettò il trono dopo il disastro di Novara con spirito di sacrificio, e con la ferma decisione non di salvare soltanto il suo regno piemontese, ma di affrontare qualunque rischio per condurre a termi¬ ne l'impresa nazionale. <Sono pronto, sempre a sacrificare mia vita se ciò è necessario pel bene del mio paese, pel bene dell'Italia tutta — dichiarò poche settimane dopo all'Azeglio —. Speriamo che più senno, più virtù ed esperienza .facciano un giorno diventare realtà ciò che? nopy fu, disgraziatamente, che crudele illusione e duro soffrire ». Tenne fede a questo programma e, come disse Minghetti, < fondò la nazione mediante la libertà». L'epistolario conferma quanto tenace fosse in Vittorio Emanuele l'attac¬ camento alla c piccola patria > piemontese, forte l'orgoglio di « monarca per grazia di Dio », risoluta la volontà di controllare la diplomazia e l'esercito. Ma la testimonianza insospettabile delle lettere familiari rivela anche la sua profonda passione italiana: iNon ho ambizioni di sorta, non ho che un desiderio che è di vedere felice e ricolma dì gloria questa mia cara patria e di portare molto alta la nostra bandiera », diceva a Clotilde nel gennaio del 1864. Carte ufficiali e private, dimostrano come sostanzialmente sentisse ed accettasse i limiti fìssati dallo Statuto al suo potere, ed in genere rispettasse dignità e prerogative di ministri, parlamentari, generali. Se poi talvolta esaltava l'importanza della sua politica personale e segreta, non aveva completamente torto. L'audace alleanza tra Corona e partito d'azione, che fece l'Italia, era dovuta in molta parte al suo coraggio ed al suo prestigio. Migliore della Corte Nato in una delle Corti più reazionarie d'Europa, educato nella soffocante Torino carlalbertina, cresciuto nella consuetudine di un'aristocrazia militare onesta e mediocrissima, Vittorio Emanuele II era — anche queste lettere lo dimostrano — molto superiore al suo mondo. Dei generali del padre, come dei suoi, fu critico lucido e severo (« Dobbiamo ciecamente obbedire — aveva detto nella prima guerra d'indipendenza — a coloro che ciecamente ci comandano»). Fu avido di gloria militare, ma con una pietà affettuosa e sollecita per i soldati. Preoccupato- dell'ordine - pubblico e del rispetto della legge, sconsigliò l'eccesso nelle repressioni. Nemico della < canaglia repubblicana » fin dalla rivolta antisabauda di Milano nel '48 (iParto con la vendetta nel cuore ed un odio implacabile per questa indegna città», scrisse alla moglie), sospettoso di democratici e mazziniani, accettò tuttavia il < connubio » cavourriano e la caduta della destra nel 1876. Con i garibaldini fu più aperto dei suoi ministri e generali: rimproverò a Lamarmora l'incomprensione per i volontari, ed a Fanti la stolida, astiosa svalutazione delle «camicie rosse»: Trattava questi infelici con sovrano disprezzo, come cani; l'ho visto maltrattare dei mutilati che chiedevano l'elemosina... Ne ho sofferto immensamente ». Regnò « fra due secoli », per ricorrere al verso manzoniano, cioè nel passaggio fra assolutismo e monarchia liberale, fra il vecchio legittimismo e la vittoria delle nazionalità; nella svolta tragica e decisiva del '49 scelse la « rivoluzione », e non mancò agli impegni — di sovrano costituzionale e di patriota italiano — assunti a Novara, anche, se talvolta gli ponevano problemi di coscienza od urtavano le tradizioni della sua famiglia. Dopo l'arresto di Luigi Fransoni, arcivescovo di Torino, scriveva al conte Ponza di San Martino: « La notizia di Monsignore è veramente un poco funesta e fra breve va attirarmi procelle di famìglia; ma, cosa farcì, ho un pessimo mestiere fra le mani; ma la giustizia prima di tutto: a ciascheduno quello che si merita ». E' una fra le molte citazioni possibili: proprio perché rivolta ad un confidente senza posizione ufficiale, tanto più indicativa.. Carlo Casalegrio Vtriorto Emanuele II con la moglie morganatica, contessa Rosa Vercellana di Mirafiori. Dopo un lungo legame, il re sposò la donna nota come la «.bela Rósin»