Africa al bivio di Alberto Ronchey

Africa al bivio IL CONGO, CHIAVE DEL CONTINENTE Africa al bivio In soli tre mesi, fra la fine del '65 e l'inizio del '66, l'Africa nera ha avuto sci colpi di Stato militari: prima il Congo, quindi il Dahomey, la Repubblica centroafricana, l'Alto Volta, la Nigeria, e infine il Ghana, dove il potere è sfuggito a Kwame Nkrumah, il massimo leader panafricano già ispiratore di Lumumba. Dal 1960, che fu definito « l'anno dell'Africa » poiché allora la maggior parte delle colonie nere ottenne l'indipendenza, il continente non ha trovato ancora un assetto. Per quali ragioni? E che cosa e davvero l'Africa? S'intende quella vera dei bantu, non l'Africa degli immigrati arabi al Nord o quella dei segregazionisti bianchi al Sud. Il travaglio di questo mondo oltre i deserti non s'è certo concluso con l'ondata dei colpi di Stato, ma entra in una nuova fase: e s'impone più che mai la necessità di conoscere davvero, senza pregiudizi e semplificazioni, i complessi motivi che ne determinano gli eventi. Uno dei più seri contributi a tale conoscenza è il racconto di Giovanni Giovannini {Congo nel cuore delle tenebre, editore Mursia, 1966) che unisce insieme lo studio d'una vasta bibliografia e l'osservazione diretta, i frutti d'una lun^ra meditazione e dati e cronache di prima mano. Il Congo in sé è un paese affascinante, ma sfuggente quasi del tutto agli schemi razionai' di chi ne osservi le vicende dall'esterno. La sua importanza è enorme, nel cuore dell'Africa. E' geograficamente il più grande Stato del continente (ottanta volte il Belgio che ne fu padrone fino al giugno 1960). Era stato l'ultima arca grigia delle mappe africane: il celebre incontro fra Livingstone e Stanley avveniva solo nel 1871, l'esplorazione di Stanley si concludeva appena nel 1884. Prima era stato una « miniera di schiavi » per gli arabi e i portoghesi (i congolesi tradotti in ceppi oltremare furono da 13 a 14 milioni fino allo sca dere del secolo scorso). Poi, in ottant'anni, ha dato vita a gi gantesche forze economiche come « miniera di minerali »: t allora con le risorse del sotto suolo ha pesato sul destino del mondo più che ogni altro pae se. Basta ricordare che l'età atomica, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, è nata dall'uranio delle miniere katanghesi. Delle crisi del Congo, dopo l'indipendenza, si può dire che Giovannini non ne ha mancata una: è stato laggiù in ogni momento decisivo. E tuttavia come accade a chi conosce davvero un problema, egli esita a ricavare conclusioni perentorie dalla sua analisi, non cede alla tentazione di elaborare una teoria: una di quelle teorie che spesso risultano d'effetto, perché affiancando una serie di dati mostrano che ogni conto torna alla luce d'una certa tesi, ma scartano in realtà la gran parte dei dati effettivi, non flessibili alla chiave d'interpretazione. Invece la tecnica del libro e. aperto », nutrito di osservazioni che non sforzano i fatti, evita il rischio di offrire una spiegazione semplice (assimilabile all'una o all'altra «ideologia»), ma purtroppo unilaterale e non vera. E così, ecco un libro « aperto » di cui ci si può finalmente fidare, proprio perché non è semplice. Questo riepilogo sul Congo non trascura di illustrare che cosa fu in realtà il regime coloniale, il « castello kafkiano » di Leopoldo II, dal dispotismo assoluto delle società minerarie a quello delle piantagioni. Né dopo i primi capitoli, Giovannini cessa di segnalare in qual senso si muovessero nei giorni dell' indipendenza gì' interessi « neo-coloniali » arroccati nel Katanga. Ma nello stesso tempo non trascura di chiarire in quali condizioni i nazionalisti congolesi pretesero di anticipare l'indipendenza. Giovannini è contro il razzismo, come dev'essere ogni persona informata sulle conclusioni della scienza muderna in materia di «razza»; ma non ignora la storia del Congo così come essa è, l'indole contraddittoria e incontrollabile delle moltitudini e dei loro capi in una fase di svi luppo che è appena agli inizi. E dunque, gli eventi successi vi non si spiegano solo con una parola (« imperialismo » o « colonialismo »). Sono le lotte tri bali che provocano le mosse' dei gruppi d'interessi nilisbamprprnidebamlitmopcolucoetrcrdounrasemaldelumdidicrStininsctanaamledceHleladpesdree tutoilcoiefrssbcnzsbspdtpsilrtgecdcievpsalmrcnrvvddds«dueilAbv« neo-colo-1 a , e . a i niali », oppure è il neo-colonia-1 mismo che suscita le lotte tri- pobali? L'uno e l'altro: e insie- lagme intervengono nel Congo la propaganda, le ideologie e le|to pressioni straniere, le ambizioni di altri Stati africani. I ritratti dei principali leaders, da Kasa Vubu a Lumumba, a Ciombe e a Mobutu, formano una galleria di.personaità a momenti generose e a momenti tortuose, di uomini oppressi da una realtà che non controllano e d'incendiari, illusi e cinici insieme. Fra le colpe dei vecchi padroni e quele dei nuovi leaders è un intreccio insolubile di torti: e la crisi, nella storia, non è quando si scontrano una ragione e un torto, ma più torti (o più ragioni). II Congo divenne così il paese degli orrori: dall'ammutinamento della Force publiqtte alle secessioni del Katanga e del Kasai e alle stragi dei baluba, dall'assassinio di Lumumba alla misteriosa morte di Hammarskjoeld, dalla sedizione di Gizenga al massacro di Kindu c a quello di Stanleyville. Scatenate le tribù in rivolta, ubriache di canapa indiana (una specie di hascisc), ma sanguinari e spietati anche gli aflreux, i mercenari d'origine europea. Degli ammutinati, degli « uomini leopardo » e dei simba può dirsi almeno che erano « innocenti », nel senso indicato da Hegel nel capitolo africano del le sue lezioni sulla filosofia del la storia, ossia non coscienti del bene e del male, inconsapevoli di sé. Questo non può essere detto degli affreux, né di numerosi leaders congolesi responsabili per tali vicende. Sei anni di stragi, o quasi e in questo periodo pressoché tutti, nel Congo, hanno avuto torto. Guardiamo ai fatti, che il libro di Giovannini espone con la più attenta imparziaità. I belgi (governo e potestà economiche) hanno oscillato fra il simbolico imbarazzo di re Baldovino, quando si lasciò strappare la spada da uno sconosciuto sul Boulevard Albert di Léopoldvillc, e i calcoli più miopi. Nel '57, il piano Van Bilsen per l'emancipazione del Congo fu accolto con scherno a Bruxelles. Kasa Vubu, all'inizio di quel costante scambio di parti che fu la lotta politica fra i leaders congolesi, disse almeno una verità profetica, rivolgendosi ai belgi poco prima dell'indipendenza: « Ci si insegni alla svelta a guidare il carro. Se no sarà l'avventura, dalla quale usciremo male tutti ». Ma i belgi non inse gnarono a guidare il carro, elargirono un'indipendenza non credibile e i leaders popolari del Congo si limitarono a lanciarsi tutti insieme sul carro, in competizione fra loro. I russi commisero il tragico j errore, nel Congo come altrove nel « Terzo mondo », di puntare sulle discordie. Kruscev spediva aerei e agenti, e all'assemblea dell'Onu agitava la sua scarpa contro Hammarskjoeld. Accusò il segretario generale dell'Onu persino come responsabile dell'uccisione di Lumumba, come fiduciario del neo-colonialismo: e invece Hammarskjoeld perse la vita mentre conduceva a nome dell'Onu la lotta per l'unità del Congo, contro la secessione del Katanga. Mosca negò il suo tributo finanziario alla « Operazione - Congo » diretta da Thant, immaginando che una volta eliminati fra Ciombe e i ribelli lumumbisti i terzi incomodi (i «caschi blu» dell'Onu, sostenitori del moderato Adoula a Léopoldvillc) avrebbe prevalso la guerriglia. E invece, una volta partito l'ultimo « casco blu », non furono Sumialot, Olenga, Mulele, Gbe nye a ottenere il potere sull'in tero Congo, bensì Ciombe. L'Egitto aiutò per lungo tempo i ribelli estremisti con armi c munizioni: ma alla fine, nel settembre del '64, chiuse la partita con la decisione di espellere dal Cairo tutti i capi insorti rifugiati, che Nasser aveva protetto così a lungo, accusandoli di bere e uccidersi fra loro. E' fallita nel Congo anche la guerriglia d'ispirazione cinese. I ribelli organizzati da Pierre Mulele, il lumumbista che ritornò da Pechino con un « codice » di 27 punti ricavato dagli scritti di Mao Tsc sulla guerriglia, si comportarono nella maniera opposta a astripspdotriceStsososoprCoocdeesdideeffpliiiSss«ccgaridcgSMdmnblo-1 quella consigliata dai cinesi: [ massacri atroci e rituali fra le popolazioni, saccheggio dei vii laggi. Nel Congo, non hanno molto senso gli stessi principi astratti della democrazia pluripartitica: dove sopravvive lo spirito tribale, i partiti coincidono inevitabilmente con le tribù, sono additivi alle forze centrifughe che distruggono lo Stato. E il marxismo? Che senso ha lo stesso marxismo in una società nella quale fino al 1935 solo 600 mila uomini vivevano presso le città? Le tribù del Congo, come le caste indiane, occupano anche lo « spazio » delle classi sociali. Ogni idea estranea, gettata fra moltitudini « alle soglie della storia del mondo », può tradursi in effetti opposti allo scopo o semplicemente distruttivi Alberto Ronchey