È morto a 85 anni Carlo Carrà uno dei più grandi pittori moderni di Marziano Bernardi

È morto a 85 anni Carlo Carrà uno dei più grandi pittori moderni Fu il primo artista che impose alTestero la pittura italiana del Novecento È morto a 85 anni Carlo Carrà uno dei più grandi pittori moderni Era nato a Quargnento, in provincia di Alessandria, nel 1881, aveva studiato a Brera con Cesare Tallone Dalla adesione al movimento futurista all'esperienza della «pittura metafisica» - La polemica con Giorgio De Chirico - Il ritorno alla natura, che ispirò la sua attività dal 1920 fino alla vigilia della morte CDal nostro corrispondente) Milano, 13 aprile. (g. m.l II pittore Carlo Carro) è morto alle 12,15 nella clinica Columbus, flore era entrato il giorno di Pasqua, in seguito a un peggioramento della sua bronchite cronica. Aveva 85 anni. Per due giorni, malgrado la febbre alta, il suo organismo aveva reagito alla malattia. Ma ieri mattina il pittore ha perduto completamente la conoscenza. L'agonia è durata oltre ventiquattr'ore. Al capezzale di Carrà sono stati costantemente la moglie Ines Minoia e il figlio Massimo. Appena la notizia si è sparsa in Milano, la salma composta nella camera 310 della clinica Columbus è stata meta di un lungo pellegrinaggio da parte di artisti, uomini di cultura e ammiratori. Telegrammi stanno giungendo ai familiari da ogni parte d'Italia e del mondo. Carrà aveva continuato a lavorare quasi fino alla vigilia della morte, lasciando varie tele incompiute. « Nell' ultima settimana — ha detto ai giornalisti il figlio Massimo — mio padre aveva lavorato a diversi quadri. Lui era fatto così: tanti cavalietti intomo, un tocco a questo quadro, un tocco a quello, una pennellata di qua e una di là. Ha lavorato, si può dire, anche con la febbre addosso, fino all'ultimo giorno in cui ha vissuto nella sua casa ». Per molti anni il nome di Carlo Carrà fu, con quello di De Chirico, l'unico a passare le Alpi, a varcare l'Atlantico come un segno in Europa e in America che esisteva una pittura italiana moderna; i pochissimi altri artisti nostri noti all'estero dovevano la loro rinomanza, del resto di solito modesta, al fatto di vivere a Parigi, d'essere conosciuti da Picasso, da Matisse, da Apollinaire o da Cocteau: per esempio Severini. Carrà e De Chirico invece, a parte che il primo aveva fatto parte del clan marinettiano, della rumo rosa banda futuristica, era no i rappresentanti massi mi di un ben definito aspet to dell'arte italiana con temporanea: e l'arte meta fisica era discussa negli am bienti intellettuali di punta parigini. Anche se nei suoi Echos Apollinaire il 20 lu glio 1918 faceva ampie riserve sugli scritti d'esteti ca di Carrà: «L'antico fu turista aderisce ormai ai punti di vista artistici di Giorgio De Chirico, parla di Raffaello, cita Leopardi e Baudelaire. Come i tempi sono cambiati! ». Sarebbero molto di più cambiati in seguito per il battagliero pittore piemontese (non dimentichiamo che Carrà, sempre considerato patriarca dei pittori milanesi, nacque l'il febbraio 1881 a Quargnento presso Alessandria), e intanto forse Apollinaire faceva un po' di confusione fra « metafisici » e « rondisti ». Ma per quanto riguarda la bandiera della pittura metafisica che si volle impugnata ora da De Chirico ora da Carrà, è ben noto il disprezzo del primo per il suo antico compagno d'ospedale a Ferrara nel 1916. « Ci trovammo più tardi in una specie di ospedale, 0 piuttosto di convalepjenziario che era sito a pochi chilometri da Ferrara. Io approfittai della relativa tranquillità del luogo per lavorare un po' di più... Quando Carrà mi vide fare 1 quadri metafisici andò a Ferrara a comprare tele e colori e si mise a rifare, ma alquanto stentatamente, gli stessi soggetti che facevo io, e tutto con una spudoratezza ed un sansgène veramente ammirevoli. Ottenuto poi un lungo periodo di convalescenza, Carlo Carrà si affrettò a tornare a Milano portando con sé i quadri " metafisici " dipinti al convalescenziario di Ferrara ed a Milano si affrettò a organizzare una mostra di questi quadri, probabilmente con la speranza di persuadere i suoi contemporanei che egli era il solo ed unico inventore della pittura metafisica ed io, caso mai, un suo oscuro e modesto imitatore. Tutte queste manovre erano naturalmente d'un'incredibile ingenuità poiché si sapeva che i quadri metafisici io li avevo dipinti a Parigi parecchi anni prima ed erano saidLdigSlgurGsdsdMtMerdcir1vcadde i a e d o e e a i o stati esposti, riprodotti ed acquistati ». Così si legge in Memorie della mia vita, di De Chirico. Dal canto suo Carrà, in La mia vita, ha ricordato, del tempo ferrarese, « gli incontri casuali con Ravegnani, Govoni, De Chirico, Savinio, De Pisis », che per lui « erano momenti di gioia », il suo ricovero « in un nevrocomio fuori di Ferrara », dove dal direttore Gaetano Boschi gli fu assegnata una cameretta per dipingere in pace. « In questa camera dipinsi: Solitudine, La camera incantata, Madre e figlio, La musa metafisica », quadri esposti a Milano nella galleria Chini, e divenuti poi celeberrimi. Sono i quadri che segnarono il distacco definitivo di Carrà dal Futurismo, di cui aveva firmato, convinto, il famoso Manifesto pittorico - tecnico dell'll aprile 1910, e che gli fecero scrivere : « Mi formai il convincimento che il naturalismo aveva cancellato dalla pittura quella atmosfera spirituale che si trova gagliardamente espressa nei suddetti artisti (Paolo Uccello e Piero della Francesca), la bellezza delle cui opere non consiste tanto nei punti di rapporto e di proporzione col reale, quanto in quella forma tutta particolare al l'indole lirica del trascen dentalismo plastico. Dal che fui indotto a dichiararmi contro " l'arte verosimile " e a ricordare le parole di Raffaello: "Io mi servo di una certa idea che mi viene alla mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d'arte io non so; ben m'affatico d'averla ", e continuavo con le parole di Baudelaire: " Tous les bons et vrais dessinateurs dessinent d'après l'image écrite dans leur cerveau, et non d'après la nature " ». Erano appunto questi ri ferimenti che impensierivano Apollinaire, il quale in essi scorgeva un'involuzione spirituale dell'antico rivoluzionario (che avrebbe poi ancora molto progredito sulla via di un « ritorno all'ordine», se così vogliamo chia mario). Ma per restare nella stagione metafisica e al diverbio De Chirico-Carrà lrmgapossiamo riferirci al lucido giudizio di Roberto Longhi: «II De Chirico, cresciuto in una tradizione per nulla italiana, evocava la pittura antica in una mera scenografia nostalgica, e vi muoveva dentro i mostri preterintenzionali del cubismo, trasponendoli realisticamente e non senza ironia nei manichini degli studi... Ma Carrà s'era già scelta un'altra strada. Destinato a servire le ragioni proprie della pittura, e assai più convinto che non il De Chirico della portata spirituale insita nelle forme italiane, egli ci presentava in questi anni una serie di acrostici sibillini, che trovano tuttavia in se stessi la forza del- la soluzione. Si può narrare un quadro di De Chirico; ma in Carrà la favola, meglio che dalle intitolazioni ambigue, si spreme proprio dagli incastri dei colori fulgidi e torvi, dall'infeltrirsi magico degl'impasti, dai duri incontri degli spazi segmentati entro le canterelle primitive ». Ed accennando ad un rinverdimento della « lezione antica » il Longhi pronunziava i nomi di Giotto e di Masaccio. Si gettava così un ponte per il passaggio di Carrà — passaggio che sarebbe avvenuto verso il 1921 con il Pino sul mare — dalla fase metafisica alla sua nuova visione dell'almo parens, la Natura. Già il pittore, che per tutta la vita alternò lo scrivere al dipingere, la teoria alla pratica artistica, esercitando per lunghi anni la critica d'arte su L'Ambrosiano ed altri giornali e periodici, dedicandosi con passione alla saggistica, e raccogliendo poi in volumi i suoi scritti, aveva nel 1916 pubblicato la « Parlata su Giotto » nella Voce di Giuseppe De Robertis : « Nel silenzio magico delle forme di Giotto la nostra contemplazione si riposa: l'estasi germoglia, e a poco a poco si risolve nell'anima schiarita». Un passo stupendo, che ci dà per intero Assisi, gli Scrovegni, Santa Croce. Ma — udite!, udite! — contemplazione, estasi, schiarimento animistico... Dov'è il «dinamismo universale » da rendere « come sensazione dinamica » sotto scritto nel Manifesto futu rista? Come si conciliano contemplazione ed estasi con le « tele che squillano fanfare assordanti e trionfali»? Non sono passati dieci anni, e già abbiamo un altro Carrà. Probabilmente il Carrà che ripensava al povero ragazzo che decorando stanze per guadagnarsi duramente la vita prima di riuscire a entrare all'Accademia di Brera a studiare sotto Cesare Tallone, aveva vagheggiato la pittura d'un maestro che gli sarebbe rimaste sempre nel cuore: Antonio Fontanesi. Il ragazzo che « uscito da Brera desideroso di lavorare e pieno di speranze », intuendo « la necessità di tentar qualcosa che valesse a ridestare a nuova vita l'arte nella metropoli lombarda», venuto nel febbraio 1909, insieme con Boccioni e Russolo a contatto con Marinetti, s'era lasciato incantare dal programma futurista. Insistiamo sul verbo «incantare», non per mettere in dubbio la sincerità del giovane nel dar la sua adesione alla poetica futurista, ma per sottolineare che cinque anni sono pochi per una convinzione assoluta. Il fatto è che Carrà era nato pittore, ed era, del gruppo, quello che aveva un'idea più precisa di ciò che sia la pittura: e lo provano i suoi stessi quadri futuristici. Che l'esperienza gli sia giovata •— come quella successiva metafisica —■ non v'è dubbio. Ma che si possa scorgere un sol punto di contatto fra la sua pittura futurista e metafisica con quella che comincia coi capolavori del Cinquale (1926), del Meriggio (1927), dell'Estate (1931), dei Nuotatori (1932), del Meriggio di settembre (1941), e dura, attraverso centinaia di quadri fin verso il 1950-55, è assolutamente da escludere. Come è da escludere che soltanto attraverso la fase futurista e metafisica, Carrà abbia potuto giungere alla situazione che Roberto Longhi già nel 1937 così definiva: « In effetto, fra i molti paesi dell'ultimo decennio son pochi quelli che non mostrino di voler durare o per i quali non abbia a prevedersi a scadenza non lontana la classificazione ingrata ma efficacemente popolare di capolavori: ed è soltanto per discrezione che noi non ce ne serviamo ancora ». Oggi che Carrà ci ha lasciati pensiamo che di questa discrezione si possa fare a meno. Resta tuttavia la domanda, un poco conturbante, e diciamo pure alquanto sconfortante. Senza i clamori che accompagnarono la polemica futurista; senza il mondiale rilancio critico-mercantile che del Futurismo oggi si va facendo presentandolo come una delle voci più conformi alla spiritualità contemporanea ; senza le discussioni suscitate dall'arte metafisica di cui Carrà fu con De Chirico protagonista; i quadri naturalistici del grande pittore che abbiamo perduto — cioè i quadri in cui egli ha veramente confessato la genuinità del suo sentire, trasfuso intera la sua commozione di poeta — sarebbero disputati a suon di milioni dai collezionisti? E perché le sue opere futuristiche e metafisiche, quelle ch'egli stesso, benché non rinnegandole, considerava come episodiche nel corso della sua esperienza artistica, devono nei musei e nelle raccolte private prevalere su quelle che meglio rispondono alla sua « verità » di creatore d'immagini? La risposta potrebbe coincidere con la replica che Ingres dava a chi gli rimproverava di non uniformarsi al gusto del suo tempo : « E se il mio tempo avesse torto? >. Marziano Bernardi « Meriggio », dipinto nel 1927, opera del periodo naturalistico di Carlo Carrà