La guerra di liberazione (un milione di morti) non ha lascialo in Algeria rancori anti-francesi

La guerra di liberazione (un milione di morti) non ha lascialo in Algeria rancori anti-francesi La guerra di liberazione (un milione di morti) non ha lascialo in Algeria rancori anti-francesi La riconciliazione è stata resa più facile dall'esodo dei « pieds noirs», i colonizzatori europei che si erano stabiliti nelle fattorie - Anche il rispetto di De Gaulle, che parla di «nemici che ci hanno teso la mano», ha contribuito alla comprensione reciproca - In realtà, l'Algeria ha bisogno della Francia - Oggi si può quasi dire che è l'occupazione francese ad avere «creato» la nazione algerina: un terzo degli abitanti non conosce l'arabo, per secoli non si ebbero tradizioni unitarie né dinastie indigene - Soltanto l'islamismo (e la lotta contro i bianchi) hanno dato individualità al Paese - E le stesse credenze musulmane che uniscono la popolazione ostacolano un moderno sviluppo civile (Dal nostro inviato speciale) Algeri, marzo. La guerra d'indipendenza è finita da appena cinque anni; nessun paese coloniale ha conquistato la libertà con tanta lotta e sofferenza come l'Algeria: un milione di morti, mezzo milione di vedove, il terrorismo forsennato dell'Oas, tutte le crudeltà dei conflitti civili. Eppure otto anni di combattimenti non sembrano aver lasciato tracce evidenti, né un'eredità di rancori. Sono scomparsi dalle strade i nomi dei generali francesi (non dei poeti) e sparite dalle piazze le statue dei conquistatori; si incontra un gran numero di mutilati; i ricordi della guerra sono celebrati nei discorsi ufficiali e suscitano un'appassionata solidarietà con i movimenti anticolonialisti. Ma i danni sono quasi dovunque riparati, e la riconciliazione con la Francia è completa. Indubbiamente la fuga dei « pieds noirs » ha reso più facile la distensione: se fosse rimasto nel paese quel milione di europei, abituati a posizioni di comando o di privilegio, la convivenza provocherebbe conflitti ed attri- ti. Comunque la nuova amicizia franco-algerina, pur fondala su una base ben concreta di reciproci interessi, à un fatto positivo, al quale hanno contribuito lealmente tutte e due le parti. De Gaulle vede nell'Algeria il pilastro della presenza francese in Africa; ma ha un sincero, cavalleresco rispetto per il coraggio dimostrato dagli algerini e tratta « i nemici che ci hanno teso la mano » con un'indulgenza, che non ebbe mai verso la Tunisia. E gli algerini «hanno perdonato, se non dimenticato ». Anche nell'immediato dopoguerra il periodo delle vendette fu breve (forse duemila francesi vennero rapiti ed uccisi), e represso con estrema fermezza da Ben Bella; ora i centomila europei (fra cui restano quindicimila « pieds noirs >) incontrano gli ostacoli consueti nei paesi di recente indipendenza, dovuti soprattutto alla suscettibilità ed all'impreparazione dei nuovi dirigenti, ma nulla più. Molti algerini continuano a « pensare in arabo ed esprimersi In francese» anche fra loro; teatro, cinema, letteratura di Francia suscitano un immutato interesse; la Francia è la terra preferita dagli emigranti e dagli universitari con borse di studio. La coesistenza è serena anche tra musulmani e cattolici, e sottolineata da gesti ufficiali di chiaro significato: le autorità cattoliche hanno restituito agli arabi la cattedrale di Algeri, moschea che i conquistatori avevano trasformato in chiesa, e Bumedien ha regalato un terreno nel centro di Algeri per costruirvi una nuova cattedrale. Di questa amichevole fiducia ha molto merito il cardinale Duval, nominato arcivescovo di Algeri pochi mesi prima della rivolta nazionalista, che con fermo coraggio predicò sempre la collaborazione tra arabi ed europei e si oppose alla violenza: i « pieds noirs » l'avevano soprannominato « Mohammed Duval » ed i terroristi dell'Oas adoperarono il plastico contro la Curia. Ma persino nelle zone più remote della guerriglia i musulmani rispettaro- a e a n a e n a e a a l a ea no i sacerdoti, i « padri bianchi » delle missioni, le suore maestre ed infermiere. La guerra di indipendenza non divenne mai guerra di religione: fatto tanto più rilevante, in quanto tutti e soli gli europei erano cattolici (nei paesi musulmani praticamente non ci sono conversioni), e l'islamismo rappresentò per gli indigeni, in centotrent'anni di governo straniero, una difesa ed una barriera. Si identificò con la coscienza nazionale, fu il solo vincolo unitario: come dice il preambolo della Costituzione repubblicana,: fu «una forza di resistenza efficace contro il tentativo di spersonalizzazione degli algerini da parte del regime coloniale ». Né la geografia né la storia avevano creato una nazione algerina. L'invasione araba portò in tutto il paese l'islamismo, ma non riuscì a realizzare l'unità linguistica: un terzo degli algerini parla dialetti berberi; ed i berberi della Cabilia — i più poveri, i più colpiti dalla guerra — sospettano ancora del governo centrale, aspirano all'autonomia: appena due anni fa scoppiò nelle loro montagne una rivolta armata. Per secoli l'Algeria non ebbe una precisa individualità, né tradizioni unitarie, né dinastie indigene. Nella ricerca di glorie passate, si celebra ora il famoso ammiraglio-pirata Barbarossa, che al principio del '500 osò sfidare Carlo V e creò un principato algerino; ma era un turco di origine greca, com'erano spesso cristiani rinnegati quei capi corsari, che fino all'età napoleonica arricchirono la città facendo razzie e catturando schiavi tra l'Italia, la Corsica e la Spagna. Prima di diventare colonia francese, l'Algeria fu protettorato turco, sotto il governo di « Dey » che non lasciarono grande memoria di sé; il palazzo dell'ultimo principe, trasformato in museo, raccoglie belle collezioni folkloristiche, ma nessuna testimonianza di una storia nazionale. Ai francesi, nell'estate del ISSO, bastarono un corpo di sbarco di trentamila uomini e due settimane di operazioni per impadronirsi di Algeri; il <Dey> fuggi abbandonando ai vincitori anche il suo harem, d'una settantina di donne, «venti già avanzate in età, pingui e sfigurate; venti giovani e belle, more o abissine; e trenta georgiane e greche con qualche italiana e spagnola, rapite da bambine dai corsari e allevate per 11 principe». E' uno scrittore-patriota toscano. Teonetto Cipriano a descriverle così: iiuando le vide aveva diciott'anni, era nipote del capo di Stato maggiore francese. Quel capitolo della sua autobiografia è un documento curioso della vita nel Mediterraneo al principio dell'altro secolo, ed una straordi noria storia d'amore. Le donne bianche e belle furono docile preda degli ufficiali francesi; Leonetto svelse una giovanissima italiana, nata schiava da genitori ra¬ piti durante il viaggio da Genova a Malaga, e la portò con sé, clandestinamente, nel ritorno in patria. L'avrebbe sposata; ma il padre scoprì il legame e, come il padre di Alfredo nella « Traviata », chiese alla fanciulla di sacrificarsi per il bene di suo figlio. La bella schiava, commossa, lasciò all'amante un biglietto: « Ti rivedrò in cielo » ed una treccia di capelli, e si gettò nel mare di Livorno. Ora il tempo degli harem è favolosamente lontano, come la pirateria ed il mercato degli schiavi. La poliga¬ mia resiste in qualche distretto dell'interno, tra gli arabi piuttosto che tra i berberi, ma rappresenta un'eccezione sempre più rara (forse una famiglia su quaranta); una delle prime leggi dopo l'indipendenza ha proibito i matrimoni infantili e stabilito a sedici anni l'età minima nuziale per le ragazze. Ma l'eguaglianza e l'emancipazione delle donne sono tuttora ostacolate dal costume, dai pregiudizi, dalla tradizione religiosa. Negli anni di guerra, quando città e villaggi erano vuoti di uomini (tra combattenti, prigionieri e profughi, almeno due milioni avevano abbandonato le proprie case), le donne uscirono per la prima volta dalla secolare reclusione ed inferiorità, allevando da sole i figli, lavorando, sostenendo una parte diretta nella lotta; eppure gli uomini, tornati dal « maguis » o dai campi di concentramento, ristabilirono in ■ famiglia la vecchia disciplina, incoraggiati dalle potenti organizzazioni religiose. Come in tutti i paesi arabi, anche in Algeria l'Islam rimane religione di Stato; potente vincolo unitario, è anche un ostacolo alle riforme. Nemmeno Ben Bella ebbe il coraggio di sfidare gli « ulema » con una politica come quella imposta trent'anni fa alla Turchia da Kemal Ataturk, che faceva tagliare le teste con il fez e strappare dai poliziotti il velo delle donne. E del resto anche in Turchia si assiste ad un risveglio dell'ortodossia islamica: solo la scuola e l'industrializzazione possono trasformare i costumi di un paese. Carlo Casalegno L'Algeria ha 11 milioni di abitanti su una superficie di 2.275.000 kmq, circa otto volte l'Italia. Soltanto la fascia costiera è fertile. Quasi 2 milioni di kmq sono una distesa di deserto, ricco tuttavia di petrolio, minerali di ferro e manganese scoperti di recente

Persone citate: Barbarossa, Ben Bella, Carlo Casalegno, Carlo V, De Gaulle, Duval, Kemal Ataturk, Mohammed Duval