Vita di giornalista di Paolo Monelli

Vita di giornalista RICORDO DI PIAN GASPARE NAPOLITANO Vita di giornalista E' un mese che Gian Gaspare Napolitano se ne andato, e l'ultima volta che l'ho veduto stava bene in salute, o almeno così credevo, ed era allegro, ma forse già sapeva che male lo minacciava; era contento di partire per Parigi per una serie di articoli su quegli ambienti letterari, così remoti dai suoi argomenti preferiti, gente voci aspetti di paesi d'oltre oceano descritti con la naturalezza di chi ci si sentiva di casa, Messico o Africa Equatoriale o isole del Pacifico. E alla notizia improvvisa della sua morte non volevo credere; com'era possibile che fosse scomparso un così attivo e curioso osservatore del nostro tempo, che vestiva di raffinata pigrizia una sua irrequietezza perpetua e multiforme; che si fosse lasciato cogliere a tradimento, ancor giovane, da una morte subdola, borghese, dopo tanti rischi di guerra e d'avventure spensieratamente cercati? Ancora ne risento la presenza fisica, ho il senso che un giorno o l'altro mi telefoni, come quando mi dicevano che era tornato da un viaggio, o ne ero tornato io, e sapevo che una sera o l'altra ci saremmo accordati per passare la sera insieme, una sera che si prolungava poi nella notte fino a poco prima dell'alba. Insieme, noi due soli, al banco d'un bar; il più spesso silenziosi, accomunati dagli stessi ricordi, isolati dalla gente come dentro una nuvola di cui avevamo grata coscienza; e dalla sua grande persona pigra e cordiale si irradiava un calore che era fraterno e paterno insieme (gli piaceva chiamarmi zio, ostentando i suoi pochi anni a confronto dei miei; ma quando ci si rivedeva dopo una lunga assenza mi abbracciava come un mio fratello maggiore). Mi sono trovato con lui in servizio in vari paesi. In Etiopia. In Portogallo in tempo di guerra fra i mercanti d'armi e le spie e le avventuriere che frequentavano il Casino di Estoril, e s'incontrava sempre qualcuno che lui chiamava per nome, e gli parlava in spagnolo o in inglese, che aveva conosciuto al Canada o nell'America del Sud o Tahiti; ed in cui mi pareva sempre di riconoscere un personaggio d'uno dei suoi racconti, il comandante d'un barco a ruote su un fiume africano, il medico missionario febbricitante di malaria fra i colpiti dalla malattia del sonno, il fallito cercatore d'oro, un beacheomber, un insabbiato della Polinesia, che la guerra riportava a galla. E l'anno seguente in Marmarica, al campo dei corrispondenti di guerra, orgoglioso di essere semplice soldato fra noi richiamati con il grado di ufficiali; e un giorno lui e un altro collega, anche questo soldato semplice o borghese addirittura, si vestirono da turisti con un cappellaccio spavaldo sulle ventitré e la giacchetta di tweed e si misero in una « mimetica » per visitare un reparto in prima linea, come ammonendoci che per fare il corrispondente di guerra non occorrono tanti galloni; ma poche ore dopo li vedemmo tornare al campo, mogi, accompagnati dai carabinieri che li avevano presi per spie. Lo avevamo relegato, con la sua tenda, duecento metri più a valle per via del suo sonoro russare; e qualche volta pur di così lontano ci destava dal sonno, e non capivamo sulle prime se era lui che ronfava o le squadriglie che ci passavano sul capo per andare a bombardare le retrovie o le linee di El Alamein. C'era sempre quel rischio dove avevamo messo le tende, lungo le dune marine, di essete sorpresi da un commando inglese che venisse dal mare; ma lui dormi va il sonno del giusto, nudo e ciccioso con solo un paio di mutandine, avvolto in una zanzariera rosa, che pareva un enorme bruco benefico. Chi l'avesse conosciuto questi ultimi anni, incontrandolo a Roma o a Venezia ai festival del cinema, vedendolo a tavola, gran mangiatore e bevitore inesausto, e non sapesse del suo passato, non avrebbe potuto im¬ maginare che questo epicureo dal tenerissimo sorriso si era messo per le vie del mondo a vent'anni, aveva navigato con le carrette più sgangherate dell'oceano, aveva avuto avventure nelle foreste brasiliane, nel Congo malfido, era stato corrispondente di guerra e di rivoluzioni; e anche negli ultimi anni sempre pronto a partire, ad accontentarsi di una tenda o di un carrozzone da zingari, sempre curioso di un'umanità diversa e uguale insieme («Abitiamo in un mondo solo — mi disse una volta — anzi in una sola stanza, dannati tutti, consapevoli o no, ad una sorte comune»). Gente a cui subito portava affetto e di cui gradiva l'intimità, fossero i minuscoli pigmei cannibali della Polinesia o i meschini Baluba della foresta africana, o gli innumerevoli italiani sparsi per il mondo, miserabili o potenti, rassegnati o ribelli, dai quali si faceva raccontare nell'idioma corrotto le vicende e le disgrazie; ed era contento se poteva barattare l'albergo di lusso con la baracca di un povero emigrato ospitale. Questi ultimi tempi, in quegli incontri silenziosi, mi pareva di scoprire in lui una malinconia rassegnata, fatta forse di nostalgia delle terre corse nella giovinezza, il Congo dietro il ricordo di suo padre che vi aveva fatto quattro anni di servizio militare, il Canada invernale con deserti infiniti di neve spazzati dal mortale Blizsarà, che sui nostri monti chiamiamo tormenta; ma fatta anche dell'impazienza di non avere ancora compiute tutte le esperienze che lo allettavano; l'attirava il cinematografo, e aveva diretto alcuni documentari esemplari (Lettera dall'Africa, Magia verde, Tarn tam Mayumbe), aveva la giustificata ambizione di essere narratore, autore di opere di fantasia, sulla quale gli piaceva a volte scherzare, come nel romanzo breve La volpe, d'argento. « "Libri1." esclamò Ellen con scherno. " Libri! E' il sogno dì tutti i giornalisti, dì tutti questi scrittori mancati" ». Questo romanzo breve, nel volume La marìposa, rievoca una storia vera, la morte in Spagna durante la guerra civile del giornalista americano Neil che era stato prima corrispon dente di guerra in Etiopia, amico di tutti noi, e morì di granata accorrendo da Valladolid verso Teruel perché era corsa la voce che i franchisti avessero espugnata quella città; ma a battaglia durava ancora, i difensori resistevano dentro le mura e battevano con Vaniglie ria la strada di Valladolid. Sono andato a rileggermi le bel lissime pagine in cui Napoli tano racconta come Neil, an sioso di accertare come stavano le cose prima di telegrafare al suo giornale, s'era spinto fino a tre chilometri dalla città, e una granata cadde nella sua macchina e gli amputò netta una gamba, e tre giorni dopo morì dissanguato; lo descrive sereno all'ospedale, con un sor riso gentile, cercando di battere parole sulla macchina da scrivere, Neil dalla grande chioma biondo-cinerea, e per questo lo chiamavano la volpe di argento, che odiava la guerra, tutte le guerre («.Ma se non avesse viste le guerre non le avrebbe odiate » ), morto per un irresistibile senso del dovere. Questa è la morte che Gian Gaspare avrebbe voluto avere; che concede fino all'ultimo la speranza di sopravvivere, « e un giorno raccontare queste cose ». Ha scritto dunque racconti romanzi brevi, i più sullo sfondo di quei là bas che gli erano familiari e rendeva con uno stile asciutto e lieve, con quella verità dei particolari e quella verisimiglianza dei per sonaggi che è arte grande. Ma non se ne accorsero, salve pohe eccezioni, i nostri provinciali ed angusti critici. Ho parato di una sua segreta malinconia; che era forse scontentezza perché le cose non andavano come voleva. Ma in tanti anni non l'ho mai sentito, non dico criticare l'uno o l'altro o quello con quella petulante sicurezza che ostentiamo tutti, noi patiti di questo nostro mestieraccio; ma nemmeno esprimere giudizi men che cortesi. Una bontà indulgente era la sua virtù più perspicua, gli brillava negli occhi piccoli e incredibilmente azzurri, minuscole pietre preziose che bastavano ad alleggerire la sua grande persona. Paolo Monelli

Persone citate: Gaspare Napolitano Vita, Gian Gaspare, Gian Gaspare Napolitano