Il "delitto d'onore" c'è venuto di Spagna di Paolo Monelli

Il "delitto d'onore" c'è venuto di Spagna Non appartiene, tutt'altro!, alla tradizione italiana Il "delitto d'onore" c'è venuto di Spagna Dai commenti, non tutti favorevoli alle recenti dichiarazioni del ministro Reale, che egli intende proporre al Consiglio dei ministri l'abolizione dell'art. 587 del codice penale, appare che ancora una buona parte degli italiani ritiene per fermo che l'onore familiare sia riposto nell'integrità fisica delle figlie o delle sorelle nubili, e nella fedeltà al marito delle donne sposate; e che il padre disonorato perché la figlia sia stata sedotta, il marito divenuto zimbello del prossimo perche la moglie abbia un amante, e cosi il fratello di una zitella ingannata, possano recuperare il perduto onore con un particolare rito cruento, consacrato dal citato articolo 587. Questa concezione ha suscitato acerbe critiche o considerazioni ironiche da parte di scrittori, di sociologi, di giuristi, non solo nel nostro tempo. Si è parlato della sopravvivenza di sentimenti ciechi ad ogni luce di civiltà, di pregiudizi che risalgono all'oscuro Medioevo. E scriveva Stendhal: « Opinione pubblica del 1S22: un uomo di trentanni seduce una fanciulla di quindici, e disonorata è la fanciulla ». (Nel caso del marito tradito, la conclusione è da capovolgere: « Una moglie manca al suo dovere coniugale, e disonorato è il marito »). Ritengo che in questa configurazione di un onore familiare minacciato dai capricci o dall'incontinenza delle donne, vivo tuttora da noi e addirittura codificato, il Medioevo non c'entri affatto. Già sotto Augusto si erano attenuati i principi atavici che lasciavano mano libera aJ padre e al marito di punire a loro arbitrio la figlia o la moglie colpevole; la legge d'Augusto riconosce ancora al padre il diritto di far giustizia sommaria della figlia sorpresa in flagrante adulterio, ma lo nega al marito; il quale, per l'uccisione della moglie, era condannato alla relegazione (un esilio in paesi remoti che durava spesso tutta la vita) se di famiglia patrizia, e ai lavori forzati se di più bassa condizione. L'impunità del marito che avesse ucciso la moglie nell'iwpetus doloris della sorpresa era stabilita in qualche legge roma no-barbarica dei primi secoli del la nostra èra; e così concedevano le antiche costituzioni sicule; ma se la punizione tardava, al marito era permesso soltanto di tagliare il naso all'infedele. • Ma già nel XIII e XIV secolo queste cose si consideravano con maggiore indulgenza. Le novelle del Boccaccio e del Sacchetti narrano di mariti traditi che si adattano facilmente alla loro sventura, o ne prendono spasso sa vendetta; e spesso si ripiglia no in casa la donna quando ti seduttore è scomparso. Con l'ingentilirsi dei costumi, verso la fine del Medioevo, si cominciò a considerare con molta simpa ria l'infedeltà coniugale, anzi ad dirittura a citarla ad esempio quando il marito fosse vecchio o poco vigoroso e la donna giovane e ardente. Alla simpatia per la donna infedele si accompagnava il dileggio del marito tradito. Le espressioni « mettere le corna », 0 portare le corna », si ritrovano già nella lirica popolare del sec. XIII. negli scrittori della prima metà del sec. XIV, e così nel Boccaccio; ma non vi è craccia in queste scritture della necessità di riscattare col sangue della colpevole o del suo complice l'offesa alla fede coniugale. Non si faceva questione di onore; ma poiché quelli erano tempi che vigeva il principio dell'incondizionato dominio dell'uomo sulla donna, la moglie ingannando il marito ledeva uno dei diritti più importanti di questo; ed era vituperoso per il marito di essersi lasciato spogliare per beffa o per inganno di una sua antica prerogativa. In quei tempi, come si rileva dal Cortegiano di Baldassarre Castiglione, si aveva della donna l'idea che fosse costituzionalmente incapace di resistenza di fronte a qualsiasi forma di seduzione. Il giudizio che se ne dava alla Corte del Duca d'Urbino agli inizi del sec. XVI era pur sempre questo, che è un animale imperfettissimo, di poca o nessuna dignità a rispetto degli uomini, per cui bisognava, poiché da sé non era capace di alcun atto virtuoso, che fosse obbligata alla continenza con la vergogna e il timore dell'infamia; e sopratutto tenendola sempre d'occhio. Il tradimento della moglie, durante l'assenza del marito e il rilasciarsi della sorveglianza, era un caso di forza maggiore, di fronte al quale la cosa più saggia era fare buon viso a cattiva sorte; e se il dolore della sorpresa era forte, non per questo era dovere ricorrere ad una vendetta privata. Questa malintesa concezione dell'onore si deve ad un certo mutamento di costumi inter-enuto nella penisola per opera degli spagnoli dal sec. XVI in poi, specialmente in quelle regioni che più a lungo no subirono il dominio. Come scrive Benedetto Croce nel suo studio La Spagna nella vita italiana dui-ante la Rinascenza (ma l'indagine si estende fino al sec. XVIII) il dispotismo spagnolo in Italia * penetrando come veleno in tutto l'organismo nazionale corruppe la vita della Nazione velie sue stesse sorgenti, ne adulterò lo spirito in tutte le sue manifestazioni, guastò l'antico e schietto stampo del carattere italiano. Onde milizie, uffici, istituzioni, usi, opinioni, vesti si foggiarono alla spagnola. (...) Il putito d'onore alla spagnola e i duelli parvero prove di dignità di vigore; alla spagnola si configurava il costume degli uomini e delle donne, queste tenute nell'ignoranza e appartate dalla vita sociale, con lode che, così facendo, si mantenesse l'austerità nelle famiglie ». Il passaggio dall'antica tolleranza all'intransigente concetto che l'essere fatto becco dalla moglie sia intollerabile offesa che chiede sanguinosa vendetta è evidente in un libro recente di Uguccionc Ranieri di Sorbello, (La bella in mano al boia, Rizzoli, Milano, 1.-65); una storia vera condotta sulla scorta di due manoscritti, l'uno del tutto inedito, che l'autore ha ritrovato nella biblioteca di casa Sofbello. E' la dolorosa storia d'amore di due amanti perugini, che finiscono sulla forca insieme a due loro ingenui amici e a tre devoti famigli, travolti da vicende più grandi di loro. Una damigella di nobile famiglia, Porzia Corradi, è maritata quindicenne ad un capitanacelo di trent'anni più vecchio, Dionigio Dionigi uomo d'armi al servizio del cardinale Aldobrandino nipote di Clemente Vili. « Porzia diede poche sodisfazioni a! grande uomo barbuto piovuto dalla capitale, — scrive il Ranieri — e ancora meno, certo, lui a lei. A Roma tornò l'imprudente lasciando la sposa a Perugia nella casa del fratello, Corrado Corradi. " Diamo tempo al tempo — avrà pensato il Dionigi —, che intanto si maturi e si faccia donna sul serio" ». E rapidamente maturò la derelitta fanciulla, innamorandosi di un giovane cavaliere, Roberto Valeriani; che una notte di luna piena penetra in casa dell'amata lasciando fuori di guardia un suo fidato amico, Astorre Coppoli. L'amico nella attesa s'addormenta, gli arriva addosso nel buio del vicolo un tizio che rincasava, svegliato di soprassalto punta l'archibugio, spara, il tizio stramazza a terra morto. Da questo incidente di poco conto, dati i tempi, nasce e si sviluppa fino alla catastrofe in pochi mesi una fatale vicenda che parve incredibile anche ai contemporanei. I tre giovani, i.ial consigliati da un altro loro amico Ercole Anastagi, scappano in Toscana, in Maremma ove il Coppoli ha una fattoria, si collocano sotto la protezione del granduca, e si danno spensieratamente bel tempo anche dopo aver saputo che capitan Dionigi li sta cercando alla testa di una banda di qua ranta armati a cavallo. Cacciano tutto il giorno, vegliano la sera attorno al fuoco, e uno dei tre servi che si sono portati addie tro, detto Serbellone, che ha do ti di istrione, li fa sganasciare dalle risa parodiando capitan Dionigi, ormai detto « Beccacelo » e lo stesso papa Clemente Quando il granduca li consiglia di lasciar la Maremma e cercare un rifugio più sicuro, riparano a Orbetello, porto e fortezza di Filippo III re di Spagna che non ama Clemente VIII. Ma ahimé, in questo modo « sì è messa in moto una macchina di Stato, anzi di rapporti fra gli Stati, la quale azionata dall'orgoglio ferito di un uomo non si fermerà mai più ». Dionigi infatti rinunzia alla vendetta personale, giudicando che sarà tanto più aspra se eseguita dal Pontefice, al quale ha raccontato che i fuggiaschi stan¬ no in giolito tutte le sere godendosi i lazzi di un loro servo, che ha il sacrilego ardire di impersonare il Papa stesso. E davvero Clemente Vili si infuria, ottiene dall'ambasciatore di Spagna che il comandante della rocca d'Orbetello arresti i suoi ospiti perugini; ed offre al re di Spagna, che non vuole altro, di metter? al rogo Giordano Bruno rinchiuso da sette anni nelle carceri del Sant'Uffizio in cambio della consegna degli arrestati di Orbetello a capitan Dionigi creatosi carceriere e giustiziere. « // Dionigi era spinto, sostenuto, invasato da un solo pensiero: quello di purgare l'offesa, riconquistare l'onore,, cose che velia sua testa erano purgabili e riconquistabili solo con la morte della sua donna stessa e del suo amante ». Così scrive il Ranieri; e aggiunge: n £' un modo di pensare che noi chiameremtno secentesco se non ci tornasse in niente che esso è vivo ancora oggi in milioni di nostri connazionali ». Il lettore vede con angoscia avvicinarsi la fine tragica dei quattro giovani, illusi fino all'ultimo che se la sarebbero cavata come andavano le cose allora; Porzia sarebbe finita per qualche tempo in clausura nel convento delle Malmaritate,-gli amici gli avrebbero carcerati in fortezza, i Papa non sono eterni, col nuovo Papa si sarebbe avuto un perdono generale. Ma il terribile Dionigi affretta il viaggio dei carcerati a Perugia, tien desto il rancore a Roma, induce il governatore di Perugia a rinunciare ad ogni forma di processo; il ;i febbraio la mannaia scende sul collo di Astone Coppoli e di Ercole Anastagi. sono appiccati alla forca Porzia e Roberto e il Serbellone e altri due servi. Capitan Dionigi torna do po pochi anni ricco e potente | a Perugia, sposato ad una nuo-j va donna. Come dice il poeta.! bell'onore si acquista in far ven- detta. Paolo Monelli