Per la Biennale di Venezia mutare statuto e programmi

Per la Biennale di Venezia mutare statuto e programmi UH PROBLEMA DI CULTURA E DI DEMOCRAZIA Per la Biennale di Venezia mutare statuto e programmi L'Ente, "autonomo" soltanto di nome, dipende dal potere esecutivo ed è diretto da funzionari statali - Il Parlamento controlla la concessione dei sussidi, ma non il loro utile impiego - Com'è impostata oggi, la Biennale non svolge una funzione culturale importante: occorre darle una nuova vitalità La corrispondenza da Venezia dell' amico Ghirotti sulla situazione di crisi della Biennale, così giusta nella sollecitudine di tutelare un interesse nazionale di cultura, presenta le tesi sostenute dall'ente, che non sono peraltro rispondenti alla realtà; e perciò appare debito ed opportuno — anche in vista delle prossime discussioni parlamentari — ristabilire gli esatti termini della questione. Si apprende che circa un mese fa il consiglio d'amministrazione dejla Biennale ha formulato un ultimatum al governo: o vengono erogati i contributi relativi al 1965 e al 1966, o gli organi direttivi dell'ente dimissionano, e non avranno luogo le manifestazioni artistiche, cinematografiche, teatrali e musicali previste dal calendario per l'anno in corso. Ed i contributi sono giunti. Qui c'è un grosso equivoco. L'ente denominato * Biennale di Venezia » è autonomo soltanto nominalmente. Il suo statuto, mai riformato, continua ad essere quello fascista del 1938, per cui la gestione dell'ente è affidata con pieni poteri a un presidente e a un consiglio d'amministrazione interamente nominati dal governo, o meglio dalle burocrazie, in forma esclusivamente amministra tiva. La differenza, dopo il 1945, sta nel fatto che contributi a tutti gli enti pubblici, compresi quelli di cultura e di cultura artisti ca, non sono erogati discrezionalmente e senza controllo dal potere esecutivo e dall'amministrazione, ma dal Parlamento, il solo competente per ogni spesa pubblica eseguita per un servizio pubblico. In realtà, quindi, gli organi dirigenti della Biennale di Venezia non premono sul governo di cui sono diretta ed esclusiva espressione, ma sul Parlamento. Il contrasto è tra governo ed amministrazione, e Parlamento. Ciò è provato, con sovrabbondanza, dalla storia tutt'altro che edificante della Biennale dopo la cessazione del regime fascista. Questa storia ha inizio nel 1946, vent'anni fa: e significa ricorrenti tentativi (del comune di Venezia, della cultura, di sindacati, di partiti democratici, di commissari all'ente) di costituzionalizzare, come del resto sarebbe necessario anche sullo stretto piano giuridicoamministrativo, lo statuto e la gestione della Biennale di Venezia, e significa insieme resistenza e blocco dei governi e dell'amministrazione per conservare l'ente come una dipendenza o longa manus d'ingerenza del potere esecutivo nelle cose dell'arte contemporanea, negando alla Biennale ogni concreta autonomia e responsabilità. Si citano i provvedimenti finanziari dal 1956 al 1963, lamentandone la precarietà. Ma sta di fatto che questi provvedimenti furono concessioni strappate dalla minaccia di interrompere le manifestazioni, e accordate sempre con la riserva esplicita di dare una sistemazione istituzionale e giuridica all'ente, conforme alla legalità repubblicana, e di bilanci più giustificati. Perché non si deve dimenticare che alcuni enti di mostre, in Italia, hanno il vantaggio di contributi statali per centinaia di milioni (a parte il saldo dei gravosi deficit di gestione), mentre è francamente difficile riconoscere alle loro attività periodiche una preminenza marcata od un significato maggiore rispetto ad altre iniziative di cultura artistica, spesso locali, che non godono degli stessi benefici. Comprensibile l'allarme delle amministrazioni veneziane e la loro preoccupazione per i possibili riflessi turistici negativi per una città, che ha come risorsa fondamentale il turismo e il richiamo rappresentato dalle mostre d'arte antica e contemporanea. Ma condividendo, come italiani, queste preoccupazioni, è anche lecito domandare perché, invece di prendere già due e tanti più anni fa la strada rtfsrslspmrtnf regia della riforma dell'ente e del suo statuto (come fecero invano anche i presidenti Ponti e Siciliano), rassicurando il Parlamento sulla funzione nazionale della mostra, mediante rigorose garanzie oggettive, si è preferito lasciare le cose come stavano, quasiché fossero soddisfacenti. Ora si è preparata un'altra mostra, a scatola chiusa, in regime di discrezionalità fortemente marcato dalla dipendenza amministrativa (si ricordi che l'ente « autonomo » è diretto da funzionari statali di carriera, in maggioranza, nel consiglio d'amministrazione, e che la stessa organizzazione artistica è affidata a funzionari statali). Come negli anni passati, dopo la conclusione del commissariato Ponti. La cultura artistica era stata invitata a solidalizzare con questa situazione abnorme, per la paura che non si facesse la Biennale del 1966. Può darsi che una parte di questa cultura accetti per varie e pratiche ragioni qualsiasi situazione, per i vantaggi che comunque può recare la « promozione » veneziana per il « mercato di produzione » (osservo a Ghirotti che è però dubbio che una rassegna artistica per il pubbli¬ co debba avere questa funzione corporativa e mercantile, anziché di pubblica educazione). Definita con chiarezza la situazione, nei termini che ho esposto, è evidente che la cultura autentica è veramente poco interessata al conflitto tra governo e una amministrazione da lui nominata e delegata. Due cose occorre dire. La prima è che la pervicacia di sfida alla più autorevole cultura italiana (ricordiamo il convegno veneziano del 1958 promosso dalle amministrazioni civiche veneziane), per il mantenimento di un regime autoritario e cooperativo dell'ente, è soverchia, e provoca netta disapprovazione. La seconda è che non bisogna abusare del « deterrent ». Se la Biennale del 1966 non avesse avuto luogo — a parte le sfavorevoli, ma solo presuntive ripercussioni sul turismo veneziano — non sarebbe successo proprio niente. Non si può certo attribuire alle mostre dopo il '50 una rilevante e tanto meno condizionale importanza per la cultura (e ciò senza voler negare indubbi pregi parziali od occasionali). Ho sott'occhio una lista di manifestazioni italiane che, secondo ogni probabilità, avranno significato e incentivo maggiore della Biennale, se questa sarà composta giusta il modello consueto e convenzionale, da ristretti gruppi. E queste manifestazioni non sono privilegiate dal denaro dello Stato. In ultimo: le istituzioni possono continuare ed operare se si adeguano alle esigenze nuove e più originali della cultura, e si strumentano in modi conformi. In Francia c'è ancora il Salon ufficiale, ed altri residuali. La Biennale di Venezia, ed altri enti pubblici di cultura artistica, superato il provincialismo, tendono da anni ad una sopravvivenza che solo un profondo, radicale rinnovamento può vitalizzare. Per cui — sia pure troppo tardi, come dobbiamo continuare a dire da quasi vent'anni — il primo problema è quello, per il Parlamento, di stanziare fondi pubblici dopoché abbia accertato la funzione dell'ente, programmi e garanzie e forme di gestione, rispetto all'interesse di cultura pubblica servito con competenza aperta. E se no, si aggiunga questa carrozza alle altre dell'amministrazione: ci sarà almeno qualcuno che ne risponde'in proprio. Carlo L. Ragghiatiti

Persone citate: Carlo L., Ghirotti, Siciliano

Luoghi citati: Francia, Italia, Venezia