L'«arte» della caccia aristocratica e crudele di Paolo Monelli

L'«arte» della caccia aristocratica e crudele L'«arte» della caccia aristocratica e crudele « Il Politilo » di Milano inizia la nuova « Collana di classici italiani di scienze tecniche c arti », con una scelta di testi di falconeria, uccellagione e altre cacce (Arte della caccia, dal secolo XIII agli inizi del Seicento, a cura di Giuliano .Innamorati, volume primo in due tomi). Non dovrebbe stupire il fatto che una raccolta che intende portare alla luce un patrimonio ricchissimo, troppo a lungo negletto, di testimonianze del progresso di determinate scienze, tecniche ed arti, prenda le mosse da un'antologia di scritti sulla caccia. Indubbiamente l'esercizio della caccia è un'arte, se esista un'arte della guerra, un'arte dello, spettacolo, un'arte del passatempo (come in fondo è il cinematografo). Ed è anche tecnica; tante sono le abilità e le cognizioni che talune specie di cacce hanno richiesto nel passato e richiedono tuttora, dalla caccia con gli animali rapaci alla caccia grossa. Ed infine la caccia interessa numerose scienze che studiano i fenomeni naturali e la vita sociale dell'uomo, o addirittura, come il bracconaggio, il Codice Penale; e soprattutto la paleontologia e la paletnografìa. come essenziale impegno dei popoli primitivi nella conquista e nello sfruttamento del mondo naturale. Fra l'altro queste due ultime scienze ci rivelano che molte specie di animali oggi estinte, o faticosamente sopravviventi in territori molto ristretti, sono scomparse o stanno scomparendo non per naturale evoluzione, o mutate condizioni d'ambiente ma soltanto in conseguenza della spietata caccia loro fatta dall'uo. mo per nutrirsi, o per difendersi dalle più minacciose. Così i Mao ri della Nuova Zelanda hanno sterminato a furia di mangiarseli i Dinoris, grandi uccelli corridori, una specie di struzzi indigeni; cosi i tedeschi e i polacchi hanno distrutto l'uro (bos primigenius) e il bisonte, numerosi fino al secolo XVII nelle foreste lungo l'Oder e la Vistola. Avessimo lasciato fare ai cacciatori, non avremmo più un esemplare in Europa della capra ibex, stambecco delle Alpi; ed anche dopo che si è costituito il Parco nazionale del Gran Paradiso per assicurarne la conservazione, cacciatori di frodo continuano ad insidiarne i superstiti come augurandosene la totale estinzione. Si leggono spesso negli scritti raccolti in questa antologia le lodi della caccia come esercizio indispensabile, nei secoli dal Mille al Seicento, per la preparazione delle elette destinate al comando; e come necessaria alternativa nel tempo di pace al Principe che voglia serbarsi atto alla guerra. Scrive Francesco Carcano detto Sforzino, gentiluomo vicentino, nel proemio ai suoi « Tre libri degli uccelli da presa, ne' quali si contiene la vera cogitinone dell'arte de' struccieri (allevatori di falconi), et il modo di conoscere, ammaestrare, reggere et medicare tutti glt augelli di rapina » (156S), che la caccia « oltre l'utile e il diletto ch'ella reca a chiunque la eserciti, è appartenente ancora al Principe come de l'arte militare importantissimo membro; conciosia ch'ella a conoscere i siti et i paesi insegna, fa gli nomini arditi e pratichi a passare i torrenti e le rapidissime rivieret'...), rende patiente la persona et robusta, leva ogni diticatezza di vivere, e insomma l'esercita in gran parte in qtielle fatiche che fa il soldato ». Ma non è da tacere che la caccia è valsa spesso a far gli uomini più feroci, inducendoli a distruggere animali senza necessità alcuna e senza misura; e per contempcrare i ditirambi di certi autori con il dovuto biasimo degli aspetti più crudeli di questa attività proporrei che fosse accolto nell'imminente secondo volume di questa Arte della caccia il racconto di uno storico inglese, come cacciatori spietati sterminarono radicalmente una specie vivente fino ai primi decenni dell'Ottocento nell'isola di Newfoundland, o Terranuova, scoperta dal veneziano Caboto; una specie appartenente al genere t homo sapiens », una sottofamiglia degli indiani rossi, i Bithuk, descritti da Caboto e dai primi visitatori dell'isola come miti ed innocui: non avevano capi né gerarchie, conducevano una semplice e virtuosa vita familiare. Ehbene. nel corso di pò co più di due secoli furono uccisi fino all'ultimo dai coloni venuti dall'Europa, rigidi puritani, che « gli davano la caccia come fossero volpi, gli sparavano ad¬ dl«cpctddisprlctcstoqE a a o e a , e o o , e ¬ dosso senza motivo dovunque l'incontrassero » ( D. W. Prousc. «llistory o\ Nevjfoundland Il primo autore dell'antologia c Federico II di ,'vcvia, tanto appassionato della caccia col falco che subì una dura sconfitta sotto le mura di Parma da part. delle truppe della Lega lombarda; perche proprio quel giorno, invece di mettersi alla testa dei suoi soldati in battaglia, aveva preferito andare a caccia col girifalco Scrisse l'imperatore nel arino grossolano del suo secolo (XIII) un trattato sulla caccia con gli uccelli. « De arte venandì curti avibusn, con impegno scientifico e umano; la caccia col falco per lui è contemplazione e arte purissima; vitupera chi esercita mosso dal desiderio di preda, unico scopo bello c utile sia quello di migliorare la qualità dei falconi (averne, diremmo oggi, una scuderia pregiata), acquistandosi così fama ed onore. E' noto che per essere sciolto da una scomunica condusse una Crociata in Tcrrasanta; il risultato di quell'impresa di cui più si compiacque fu quello di avere importato in Europa l'usanza di incappucciare il falci nel tempo dell'addomesticamento, come aveva veduto fare in Oriente dagli arabi. Anche il mitico r~ Dancus, di cui riproduce gli insegnamenti un'operetta anonima del Trecen to, « Trattato del governo dei falconi », pone la caccia col fai co sopra tigni altra virtuosa e nobile attività. « Dancus re si stava in suo palagio, et dinanzi a lui ri stavano ti suoi baroni, familiari et discipuli, e tenevano insieme rasone et parlamento di falconi astori e sparvieri, et pen savana come et in qual modo e guisa elli potesse avere li suoi uccelli sani, bene arditi, costu moti et nutriti... ». Ma riesce dif ficile immaginare come potesse allevare uccelli sani e arditi il sapiente re servendosi degli strani intrugli che consiglia per cu rame le malattie gli incomodi c i fastidi, o di semplici giacula torie. Per liberare il falco dei pidocchi, ammaestra il re, «prendi argento vivo in un bacino mortificalo con sputo d'omo et con cenere, mischialo con la su gna vecchia e ungi l'uccello sulla sommità del capo »; quando è unto devi legargli al collo un filo di lana: « Et fie guarito, e questa è molto ottima medicina ». Perche il falco attacchi senza paura l'aquila, basta dire questo verso: « V'mcìt leo de tribù Juda, radix David, Alleluia ». In un trattato d'agricoltura, « Liber ruralium commodonon » del bolognese Pietro De' Crescenzi (sec. XIII) la caccia esce dalle corti, non è più presentata come passatempo sontuoso di signori, ma come un necessario lavoro dell'uomo dei campi, fonte di reddito o distruzione di esseri nocivi. Anche il Crescenzi si rifà a re Danco parlando dela falconeria, ma per solo sfoggio di erudizione; dopo passa a descrivere i modi di cacciare che si addicono al villano, con e reti, col vischio, con la balestra, con l'arco, con le trappole, con i cani; e la preda si chiama gru, starne, anitre, nibbi, colombi, pernici, quaglie, volpi, lupi, orsi. Un poema latino di Piero Angeli da Barga (sec. XVI). che il Pascoli definì o elegante, vero, vivo, tutto odoroso di campagna e di selva» (« lxeuticon sive de aucupio »), è dedicato alla crudele caccia con le reti e con il vischio. E dove descrive la cattura nel roccolo dei tordi, attirati dal canto di tordi in gabbia, faccia attenzione i'ucccllatore, ammonisce, a quel tordo che cerchi di mettere in guardia i compagni liberi; ecco come deve comportarsi, nella limpida traduzione del Pascoli: «Ci i se alcun tordo acutamente strida, non esitare a frangergli il cervello, - poi ch'esso avverte di tirar di lungo - gli altri c cercare più sicura plaga, - il traditore! ». Strana moralità del cacciatore . Anche nel poema in ottave di Tito Giovanni Ganzarini di Scandiano manca ogni traccia di delicato sentimento per le creature vive che s'insegna a trucidare; celebra il poeta la mansuetudine dei cervi, delle cerbiatte semplicette che spesso hanno ministrato il latte a barn bini abbandonati nei boschi, ma poi freddamente invita il caccia tore a farne strage, anche se, come dice, la carne non è « tale che vada a genio all'uman i*w sto ». Molte cose piacevoli e curiose sono stipate in questi due tomi; e come intermezzo amorosi strambotti e alcuni sonetti dnndfsdduintucdTccmtfpgonèm di Folgore da San Gimignano. nei quali allegre cacce terminano in belle strippate e gagliarde bevute in cucina davanti del fuoco. Di Agostino Gallo, bresciano del XVI secolo, autore d'un libro sull'agricoltura, non dimenticherò più il ritratto di un cane da caccia il quale, se il suo padrone « faceva poca o ninna presa, rimaneva talmente tristo, come se fosse stato un uomo malinconico » Anche Michelangelo Biondo, veneziano del Seicento, ha un notevole Trattatello sui cani e sulla caccia; e afferma fra l'altro che il cane, specie se giovane, e facilmente vittima del malocchio, che traverso le pupille può arrivare fino al cuore ed ucciderlo: come prevenzione consiglia di mettergli al collo un ninnile di corallo, o cingergli la fronte di valeriana; ma il rimedio più certo, dice, è tenerlo lontano dalla vista dei malevoli. Paolo Monelli

Luoghi citati: Barga, Europa, L'aquila, Milano, Nuova Zelanda, Parma, San Gimignano, Scandiano