IL PIEMONTE di Filippo Burzio

IL PIEMONTE Ritratti di Torino e della sua terra IL PIEMONTE Ho un gran debito personale con Filippo Burzio. Tanti, tanti anni fa i suoi elzeviri su terre 0 uomini del Piemonte, su personaggi dcll'Ancicn Regime e del Risorgimento, su fatti, aspetti e antiche voci di Torino, che leggevo su La Stampa senza saper nulla dell'autore, mi diedero a poco a poco la consapevolezza « critica » di essere piemontese e mi insegnarono a vedere la mia città. Ho conservato per molto tempo quei ritagli ingialliti: gli articoli « piemontesi » di Burzio, quantunque ben noti c due volte ristampati, non erano facilmente reperibili. Essi ricompaiono ora nell'elegante raccolta di scritti burziani, edita in due volumi dalla Teca. Uno, II demiurgo, con un'acuta (e indispensabile) introduzione chiarificatrice di Norberto Bobbio, comprende i più importanti saggi teorici c politici: suggestiva testimonianza e interessante contributo alla letteratura sulla « crisi della civiltà » fra le due guerre. L'altro, illustrato con schietta fedeltà dalle tavole di Marcello Boglionc, riproduce tutti gli scritti sul Piemonte. Sono le cose più belle, senza alcun segno degli anni: Burzio resterà soprattutto come ritrattista della sua regione. Il ritratto che ne delinca in trecentocinquanta pagine, può sembrare frammentario, quasi disperso, improvvisato seguendo l'estro di una libera fantasia; ms. l'unità di ispirazione lo rende comparto, rigoroso, a suo modo completo. E' un quadro che. naturalmente, può dirsi anche l'autoritratto dell'autore: riflette t suoi interessi « professionali » (Burzio era docente all'Accademia militare), la vocazione di conservatore illuminato, il disagio di fronte alle tendenze rivoluzionarie, l'affettuosa ammirazione per il Piemonte aristocratico e guerriero del '700, aperto alle conquiste della scienza ma sospettoso delle nuove « dottrine ». Ricordo che, alla prima lettura, questa difesa dell'Ancien Regime, questa apologia del mondo sabaudo-militare mi infastidivano (erano gli anni della rcttorica fascista). Col passare degli anni, ho avvertito quale carica polemica contro il regime ci fosse nell'elogio del Piemonte settecentesco, e soprattutto ho capito che c'è una continuità tra lo spinto di quel mondo ed il Risorgimento. Gli ufficiali fedeli a Sua (Maestà sarda, spesso mediocri e reazionari, accettarono anche contro le proprie convinzioni, senza tradire né dimettersi, di fare l'Italia e di «usurpare» le terre della Chiesa. 1 « cento battaglioni pieni, rapidi, gagliardi » dell'Assietta e della battaglia di 1 orino diedero, alle guerre di indipendenza, la stessa lealtà e lo stesso coraggio. Burzio vede negli onesti sovrani, nei severi generali, nei politici prudenti, negli scienziati con i piedi in terra del '700, le stesse virtù « piemontesi » di Cavour e di Giolitti: « la volontà attiva, la serietà costruttiva, il gusto del reale, un senso del dovere commisto al piacere dell'utile; nessun furore ideologico, nessun abbandono lirico, nessun eroismo ascetico ». Egli indica nei bei forti settecenteschi i simboli più completi del Piemonte: « Militari, come la storia e l'ardua situazione geografica esigono; ma la bella, razionale e sapiente architettura attesta il calcolo e l'ingegneria, severe discipline, care al re, buone per il pratico ingegno subalpino». Fortezze create per giusto amore di indipendenza da uno Stato altamente civile, dove la burocrazia ha la passione dell'onesto servizio, i cittadini rispettano la legge, e popolo e principe sono legati da reciproca fedeltà. C'è molta nostalgia e forse una certa idealizzazione nel ritratto che Burzio traccia dell'antico Piemonte. Ma oltre ogni possibile riserva politica (altri metteranno in luce piuttosto gli spiriti inquieti e ribelli del '700 piemontese), con il suo giudizio concordano istintivamente tutti i veri piemontesi: che sentono acutamente il fascino delle cose passate, ne deplorano la scomparsa, c guardano al Settecento con particolare interesse, quasi avvertendo un'affinità profonda. Forse perché in quel secolo ci' Piemonte, prima di sommergersi nell'Italia, ebbe un'essenza propria», la sua età dell'oro; o forse, più semplicemente, perché hanno una forte impronta settecentesca le città ed i paesi, le tradizioni, i riti, l'ambiente in cui i piemontesi (almeno quelli nati nell'anteguerra) sono cresciuti. Nei suoi saggi, Burzio ricerca il passato di Torino dal 1400 a Gozzano; ma le immagini più vive, affettuose e splendide di suggestione, sono quelle dedicate alla Torino settecentesca: la Cittadella di Pietro Micca e del principe Eugenio, le caserme vaste austere solenni di «via dei Quartieri», il decoro severo e silenzioso dell'Accademia delle Scienze... Queste pagine sono una guida ideale per entrare nello spirito e nel clima della vecchia città, c quindi per capire il Piemonte. Il miglior suggerimento che si potrebbe dare ad un forestiero curioso c paziente, sarebbe di leggere i brevi capitoli di Burzio, e poi mettersi a girare per quelle strade con l'aiuto di Marziano Bernardi, che ha ripubblicato dai Fratelli Pozzo la sua Torino, Guida storica e artistica della città e dintorni, in terza edizione arricchita e riveduta. E' una guida vera, pratica, utile al turista; ma insieme una opera di cultura, quale poteva scrivere nella piena maturità un esperto rigoroso e innamorato rie&j città. Una guida che i torino possono « leggere » con gusto, c-vnc un libro di divulgazione storica. Con quelle indicazioni chiarificatrici, le vie, le case, le chiese tra cui ogni giorno passiamo distratti, acquistano individualità e rilievo, raccontano la loro vita; ogni pietra ha una sua vicenda; di pagina in pagina — attraverso migliaia di dati asciutti, di secchi particolari cronistici — si dipana davanti a noi la storia della comunità torinese, da quand'era un accampamento romano alla metropoli industriale d'oggi. Ed in ogni minimo fatto s'avverte l'influsso, lontano ma decisivo, della grande storia europea. Questa guida sarebbe piaciuta a Filippo Burzio; gli avrebbe suggerito altre esplorazioni, ricerche, divagazioni. Il suo ritratto del Piemonte è l'apologia di una stagione che gli appariva ideale, un impegno politico, l'affermazione polemica di alcune virtù «piemontesi» ed universali. Ma è anche un itinerario sentimentale per Torino, con uno spirito tra fantastico ed elegiaco, suggerito dal caldo ricordo di emozioni infantili. Non a caso la pagina più bella, nel giudizio di molti, è il ricordo della notte della Consolata: col « pio incendio » che nella notte estiva fa brillare di luci tremolanti le scure vie del vecchio centro e la ressa festosa nel tempio « splendente e olezzante ». A rileggere quella pagina, ogni vecchio torinese risente tutta la tenerezza dell'infanzia. Carlo Casalegno