Schweitzer è morto come un patriarca nell'alto silenzio della notte africana

Schweitzer è morto come un patriarca nell'alto silenzio della notte africana II ce Giwund Doeteiif* » si e sp&nto a novamt'unni a Ijahmbm$*&mé Schweitzer è morto come un patriarca nell'alto silenzio della notte africana Intorno a lui erano la figlia Rhena, i medici e gli infermieri dell'ospedale da lui fondato mezzo secolo fa - Il semplice funerale ieri pomeriggio, al canto delle nenie africane delle donne del Gabon - Una vita al servizio dell'umanità più reietta - L'improvvisa rivelazione del suo dovere, il giorno di Pentecoste del 1913 - Fra tanti riconoscimenti, qualche astiosa critica, che non lo amareggiò: egli sapeva di aver ragione - Nel 1952 ottenne il Premio Nobel per la pace - Ora riposa accanto alla moglie Helene, morta nel '57 e sepolta in terra d'Africa Per cinquantanni fu d'esempio all'umanità «Una volta qui si stava meglio, era più tranquillo. Adesso il mio ospedale è quasi diventato un centro turistico >. Albert Schweitzer era ormai da molti anni (almeno da quando, nel 1958, gli venne assegnato il Premio Nobel della pace) un mito e un punto di riferimento, E' difficile essere le due cose insieme. Un mito dovrebbe essere inavvicinabile, lontano, splendente nel mistero della sua perfezione; e invece molta gente è stata a Lambaréné negli ultimi anni, soprattutto giornalisti, scrittori, snobs di tutto il mondo. L'ospedale del dottor Schweitzer, il suo villaggio per i lebbrosi sulla collina a specchio dell'Ogouè sporco e immenso, i suoi medici e le sue infermiere poliglotte, venute dai più lontani e diversi Paesi della terra, le sue lezioni di teologia, di filosofia, di morale impartite ai bianchi che lavoravano con lui e che consumavano insieme con lui i pasti e pregavano e cantavano inni protestanti e ascoltavano i suoi brevi sermoni quotidiani: tutto questo era ormai diventato materia viva e reale per articoli, libri, radiocommedie. Lavorare per gli altri Egli era dunque un mito e insieme una realtà che bastava salire su un aereo dell'< Air France » per andare a contemplare in azione, a Lambaréné. Un mito che attirava giovani generosi i quali accettavano di lavorare con lui per almeno due anni, senza ricevere nessun compenso, come volontari della carità, sapendo di dover vivere in un ambiente spaventosamente caldo, insalubre, in mezzo ai negri che non sono una razza facile, dai quali sarebbe stato illogico e non cristiano attendersi gratitudine. Ciò avveniva per la forza di un esempio che durava ormai da mezzo secolo. Il dottor Schweitzer andò in Africa per la prima volta nel 1913 con la moglie Hélène Bresslau, appena laureato in medicina. Aveva allora trent'anni, e di colpo, il giorno di Pentecoste, aveva avuto la rivelazione del suo dovere su questa terra: lavorare per gli altri. Aveva compiuto novanta anni il 14 gennaio di quest'anno (Era nato a Kaisersberg, allora in Germania, il 14 gennaio 1874). Durante la prima guerra mondiale i francesi che possedevano il Gabon lo internarono . perché, alsaziano di nascita, era tedesco di nazionalità. Fu forse questo trattamento indelicato da parte dei bianchi che lo convinse a preferire definitivamente i negri? Non si sa. Tornò in Europa in poche occasioni; sempre per raccogliere fondi per il suo ospedale. Una volta andò in America per un giro di conferenze combinate da Einstein, il quale volle farlo conoscere agli americani presentandolo come «l'uomo più grande fra i nostri contemporanei >. La sua popolarità era comunque molto grande in Europa da tanti anni, soprattutto nella high life. Era un concertista d'organo molto dotato; aveva scritto libri di teologia e si era preparato a fare fi pastore protestante, seguendo l'esempio paterno, tanto da essere nominato (nel 1900) pro-vicario del tempio di San Nicola a Strasburgo; aveva composto un volume su Kant e aveva studiato profondamente lami- srica di S. Paolo. Spirito for- temente religioso, era tuttavia tenacemente attaccato al principio della validità perenne della ragione e considerava il razionalismo «un aspetto necessario d'ogni vita spirituale normale». Arrivò anzi a scrivere nel libro Rispetto per la vita: «Solo quando subì l'influsso dell'Illuminismo, lo stesso Cristianesimo — che aveva gelosamente custodito per secoli il grande comandamento dell'amore, senza però ravvisare In esso una valida ragione per combattere la schia- vltù, la tortura, i processi delle streghe — fu spinto a partecipare alla lotta per l'umanità >. Una strana scena Naturalmente è difficile dire fino a che punto queste sue teorie fossero costruzioni del pensiero e non conseguenze della particolare conformazione del suo carattere, che lo portava a considerare il misticismo « la forma perfetta della visione del mondo > e, contemporaneamente, a giudicare come l'unica degna di essere vissuta una vita al servizio del prossimo, scelto fra l'umanità più umile, più povera, più selvaggia. Queste contraddizioni spiegano il fascino di Albert Schweitzer. Un giornalista che qualche anno fa trascorse cinque settimane a Lambaréné a lavorare con lui riferi una strana scena cui aveva assistito. Un giorno, subito dopo il pranzo, uno degli assistenti di Schweitzer convocò un gruppo di «garà°iens> (gli indigeni sani che accompagnano i congiunti malati al villaggio-ospedale e vi rimangono con l'unico impegno di guadagnarsi vitto e alloggio facendo legna nella giungla circostante) per il quotidiano turno di lavoro. L'assistente chiamava uno per uno i negri, mentre nel suo alloggio il dottor Schweitzer suonava, come tutti i sforni a quell'ora, un po' di Bach sul suo organo. Fu fatto invano due, tre, quattro volte il nome di uno dei negri, che stava benissimo, ma, appoggiato contro la parete di legno di una baracca, non voleva rispondere. Dopo un po' la musica s'interruppe, il dottor Schweitzer si affacciò sulla veranda di legno della stanza che gli fa da alloggio, afferrò un piccone e corse a grandi passi verso il negro, minacciando di colpirlo. Quello sì mise a correre verso la giungla. Il medico percorse una ventina di metri, poi smise di inseguire il fuggiasco; tornò indietro, accigliato. Il negro venne fuori dalla giungla e andò a mettersi in fila con gli altri. Il dottor Schweitzer non intendeva la carità come un semplice dono. Voleva che il popolo in mezzo al quale era andato a svolgere la sua missione, uno dei più arretrati della terra, erede di generazioni di cannibali, riconoscesse in lui e negli altri Manchi che lo avevano seguito nella foresta equatoriale un esempio di civiltà. Desiderava che questo esempio fruttificasse, si trasmettesse. Non curava soltanto i corpi (sessantamila sono stati i pazienti di Albert Schweitzer in mezzo secolo) ma anche lo spirito dei negri. «Voglio che mi considerino un loro fratello — diceva.—; ma un fratello maggiore >• Non c'era in questo atteggiamento una boria da colonialista, un pregiudizio razziale, ma l'esatto riconoscimento di una realtà che egli per primo intendeva correggere, migliorare, cancellare nei suoi aspetti peggiori. Mentalità nuova « Mi criticano — disse una volta — perché non adotto nel mio villaggio tutti i mezzi moderni, anche se me li offrono da molte parti. Per esèmpio so benissimo che qualche barca a motore renderebbe più agevole il trasporto di tronchi d'albero lungo il fiume, ' ài posto delle barche che 1 negri spingono cori Ié ■pajgalé a forza d! braccia. 'Ctosf conte mi rirriproverano di non accettare i trattori e i " buUdozers " per spianare il terreno della giungla che faccio abbattere per ricavare spazio per nuovi edifici dell'ospedale. « So che anche i negri di qui e dei villaggi vicini mi criticano per questo. Ma io voglio che essi imparino a lavorare, che capiscano come il progresso non debba essere considerato un diritto e tanto meno un regalo, ma debba essere conquistato cambiando innanzitutto la mentalità, abbandonando il vezzo di pensare che tutto sia dovuto. Noi li curiamo, li strappiamo alla lebbra e alla malattia del sonno, alla fame e alla morte di parto, ma perché da soli non ci riuscirebbero: ma lavorare possono, le braccia le hanno ». Idee di questo genere sono tipiche dei missionari, e appartengono a quella dottrina del «rispetto per la vita» che è stata la molla spirituale di tutta l'esistenza del dottor Schweitzer. La dignità d'uomo si conquista consapevolmente, con il sacrificio, l'impegno e il sudore della fronte. Per questo il villaggio di Lambaréné era regolato da una disciplina che molti visitatori hanno definito « tedesca». Tedesco dì nascita, luterano di religione, educato studiando materie serie come la musica di Bach e la filosofia kantiana, l'imperativo morale era in lui un tratto essenziale. Non concedeva nulla al mondo, non aveva rispetto umano: viaggiò da Strasburgo a Londra, dove doveva essere ricevuto dalla regina Elisabetta che gli avrebbe conferito la medaglia al merito, la più alta onorificenza inglese, in terza classe. Dava giudizi sferzanti sul colo- nialismo bianco e scrisse una drammàtica €lettera aperta» ai governanti dell'America, della Russia e dell'Inghilterra perché mettessero fine agli esperimenti nucleari. Non rinnegò mai la civiltà bianca, ma ne considerò e ne condannò tutti i difetti senza esitazioni; e arrivò a superare anche la forza di attrazione del mito del progresso scientifico, in nome della spontaneità e della sincerità dei costumi degli indigeni fra i quali era andato a vivere. Avrebbe potuto avere un ospedale asettico, perfetto dal punto di vista igienicosanltario, e invece preferì — scoprendo con il proprio intuito che così doveva fare — uno stile ospedaliero <africano», cioè uno stile che non mettesse in stato di soggezione e di inferiorità psicologica esseri umani appena affacciatisi dalla foresta equatoriale alla civiltà del ventesimo secolo. A un medico che lavorò qualche tempo con lui confessò: «Nel mio villaggio-ospedale il malato viene curato in un certo senso a domicilio, gode dell'assistenza dei suoi famigliari e, soprattutto, si trova perfettamente a suo agio, spoglio di ogni diffidenza e libero di quelle primitive forme di orgasmo e di angoscia cosi facili a riemergere da inesplorate regioni dell'animo dei negri. Cè un cimitero per i musulmani che i malati di quella religione attraversano entrando nel villaggio; toccando terra consacrata si immunizzano contro l'influenza dello spirito maligno; è la loro fede, non c'è ragiono di turbarla,, né c'è ragione per rinunciare, ai fini terapeutici, ad una favorevole disposizione psicologica del malato ». Ecco il razionalista che non si lascia contaminare e fuorviare dalle tentazioni della «civiltà d'assalto », a ogni costo. L'antico debito Negli ultimi anni è anche capitato che un giornale del Gabon abbiascritta {Schweitzer se ne vada, perché è un bianco ». Non si è amareggiato per questa frase. Egli ha amato per tutta la vita i negri, fino a morire in mezzo a loro dopo averli curati, dopo averi» aiutati a venire al mondo (per convincere le partorienti a ricorrere al suo ospedale anziché alle pratiche stregonesche delle «santone» tribali introdusse la pratica di regalare ad ogni donna, per ogni bambino nato nella 3ua clinica ostetrica, una camiciola e una aufftetta), senza eccessi sentimentali, senza errori di giudizio. Sapeva di dover fare quello che ha fatto « per pagare un antico debito dei bianchi » verso gli uomini di pelle scura; ha voluto dunque fare del bene anche a noi. E non si sa se la sua lezione sia stata più valida per i negri — cui voleva inoculare insieme al glucosio sulfonato per la lebbra anche la voglia di lavorare e la dignità umana — o per noi, i bianchi, cìie egli voleva riscattare agli occhi di un continente in cui abbiamo fatto versare talvolta più gocce di sangue che lacrime di gratitudine e di affetto. Giuseppe Del Colle Il dott. Schweitzer dinanzi alle baracche del suo villaggio-ospedale, nel cuore della foresta equatoriale