La lezione di Einaudi di A. Galante Garrone

La lezione di Einaudi Cronache dell'ultimo anno di libertà La lezione di Einaudi Alla fine del 1925, Luigi Alberrini era costretto a lasciare la direzione del Corriere della Sera. Lo seguivano, nel doloroso abbandono, alcuni collaboratori: fra gli altri, c prima di tutti, iLuigi Einaudi. 1 suoi articoli di quell'anno, oggi raccolti in volume, concludono così le Cronache econormche e politiche di un trentennio (1893-1925), edite da Giulio Einaudi. Ed è una conclusione bellissima, di rara dignità, che ci richiama alla mente l'-epigrafìca similitudine di Walter Maturi: tCome Puccello di Minerva spicca il volo al tramonto, la libera stampa italiana, alla vigilia di essere imbavagliata dal fascismo, visse allora il suo periodo più brillante». Stupendo come sempre lo stile, chiaro, semplice, essenziale, senza fronzoli. Nessuna albagia dottrinale, nel costante richiamo all'»umile verità economica»; e una saggia cautela, nell'astenersi da consigli recisi e previsioni sicure; il chi voglia sicurezza, dice Einaudi, si rivolga agli indovini ». Ala sotto questo tono dimesso, e questa prudenza, quale saldezza di principi, e quale netta condanna della « volgare ignoranza economica » dei pasticcioni, dei megalomani, dei fantasiosi fabbricanti di decreti, dei burbanzosi teorizzatori dello Stato forte! quale ostinata fede in alcune « verità, che sono scritte sui libri solo perchè l'esperienza di errori se?iza numero ne ha dimostrato il fondamento incrollabile»'. Nessun dittatore può andar contro le immutabili leggi economiche: «Non c'è nulla da inventare in materia di tributi, di spese, di debiti, di circolazione, di cambi». Appunto per questo, Einaudi non lesina approvazioni al ministro De Stefani, ogni qualvolta la sua politica finanziaria gli sembri ispirata alla tradizione, all'esperienza storica, ai classici insegnamenti della dottrina e della pratica. Ma proprio per questa sua equanime oggettività, per questo sforzarsi di riconoscere anche le ragioni degli avversari, tanto più incisive ci appaiono le sue critiche. Esemplare, sotto questo aspetto, e la condanna del decreto-legge del febbraio 1925 sulle Borse e gli agenti di cambio, sul pericolo di creare una corporazione chiusa di stampo napoleonico, e nuove baronie e maggiorasene e di restringere e soffocare il mercato tra bardature e privilegi. Di qui prende anche lo spunto l'insistente polemica contro i decreti-legge o decreti-catenaccio, di cui proprio allora si cominciava ad abusare. Il loro massimo inconveniente era l'irrimediabilità dell'errore, e la troppo facile illusione di un ministro di poter piegare al suo volere il meccanismi) economico. Ma poi la critica si allargava, e da tecnico-economica si faceva politicomorale Che cosa diventavano gli italiani, se potevano essere tassati e tartassati a volontà di un ministro? e a che si riduceva h Camera, se le si toglieva la libertà di discutere e di legife rare? Bisognava ristabilire in pie no l'autorità del Parlamento, mettere una pietra sepolcrale sui decreti-legge: così ammoniva Einaudi. E invece, l'anno dopo, l'abuso sarebbe stato eretto a sistema. Illuminanti, e ricche di ani maestramenti anche oggi, per noi, sono le molte pagine contro i divieti e i vincoli che hanno il solo effetto di aggravare i costi, contro ogni forma di monopolio, contro le pretese degli zuccherieri, che tendevano a scaricare le perdite sui contribuenti; o quelle sulla difesa della lira (ls « linea del Piave », il punto critico oltre il quale non si deve assolutamente andare: e più di vent'anni dopo Einaudi avrebbe dimostrato coi fatti con quale serietà e impegno egli intendesse la difesa della moneta). Bellissimo l'elogio del risparmio: non in termini moralistici, ma come dimostrazione, della convenienza di scansare le spese superflue, e della concatenazione fra comportamenti individuali e situazione generale, così che ognuno è « parzialmente responsabile colle sue azioni di quel che succede di brutto o di bello nel paese ». E i risparmiatori non debbono acquetarsi in una passività inerte, ma essere sempre « vigili e ansiosi », persuadersi che non esistono impieghi tranquilli, che bisogna star con gli occhi bene aperti. In politica estera, uno dei temi più trattati è quello dei debiti o piuttosto pseudodebiti interalleati verso l'America: la quale avrebbe dovuto considerare i prestiti come sussidi, su un pia- no non grettamente commcrcia- le, ma di solidarietà nella causa comune. Forse c'era qualche animosità passionale, nella polemica di Einaudi: ma anche l'intuizione di più profonde esigenze, di cui gli Stati Uniti avrebbero poi saputo tener conto, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Sono notevoli i severi giudizi sulla parte più reazionaria della borghesia francese, e sui conservatori inglesi di allora, così lontani (come rilevava anche il Ti-' mes) dalla politica inaugurata un secolo innanzi da Canning, che era un conservatore illuminato, certamente avverso al giacobinismo, ma non per questo pronto a buttarsi nelle braccia della reazione, e anzi promotore di libertà nella sua patria e nel mondo. « // vero conservatorismo, commentava Einaudi, adatta le vecchie istituzioni alle mwve circostanze, ed è tanto lontano dalle vuotaggini di certi riformatori come dalla durezza del reazionario ». Fra queste idee di politica estera, non tutte nuove e originali, spiccava per arditezza l'idea che l'Europa non sarebbe potuta vivere se non si fosse trasformata in una federazione di popoli liberi: quella stessa idea di cui egli si sarebbe fatto araldo, dalla Svizzera, quasi vent'anni dopo — in un'ora buia della nostra storia —, ma che in lui aveva origini lontane, e risaliva alle convulsioni stesse della prima guerra mondiale. Non meno risoluta fu la sua presa di posizione contro il primo delinearsi del corporativismo fa-cista (che si sarebbe solidificato nel 19:6). Le pagine sulle lotte del lavoro, e in particolare sulla competizione fra operai e industriali, come potentissimo fattore produttivo, sulla necessità dei sindacati liberi, sul rischio di affidarsi a «un misterioso potere moderatore posto in alto, al disopra delle umane passioni », sono tra le più belle che Einaudi abbia mai scritto. I miglioramenti non debbono essere largiti, ma conquistati. E' il virile richiamo all'i eterna lotta fra i due principii dell'elevazione mercé il paternalismo e dell'elevazione mercé lo sforzo degli uomini ». Il perfezionamento non può essere imposto dall'alto, ma deve scaturire dal basso, dall'opera dei cittadini « sempre più vigili e operosi e consapevoli ». A. Galante Garrone niiimiiimiiimiiiimiiiiiiiiiiiimiiiiimmiiiiiii

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