Il maragià del minuscolo Sikkim mi parla del suo paese e dei cinesi

Il maragià del minuscolo Sikkim mi parla del suo paese e dei cinesi L'OMBRA DELLA CINA SULL'«ULTIMO PARADISO TERRESTRE» Il maragià del minuscolo Sikkim mi parla del suo paese e dei cinesi Il regno, sperduto tra le montagne dell'Himalaya alla frontiera del Tibet, è grande come l'Umbria ed ha 167 mila abitanti • Sembra una reliquia del Medioevo mongolo, appena toccata dalla civiltà moderna: ha un cinema e una settantina di monasteri, per le strade della capitale circolano le capre e le « 1100 » - Il sovrano è visto dai sudditi come l'incarnazione di un santo « lama »; ma è laureato a Oxford, ha una moglie americana, apprezza la cucina francese e cita autori latini - Vanta la democrazia, la diffusa istruzione, il progresso tecnico del suo regno ■ Pensa che solo un'intesa russo-americana possa salvarlo dall'imperialismo di Pechino (Dal nostro inviato speciale) Gangtok, ottobre. La sveglia la dà una tromba rauca, suonata da un sikh senza turbante, la lunga treccia acciambellata sul capo come una lucida biscia, il piegabaffi: il campo delle forze indiane dì sicurezza si slarga cinquanta metri sotto la terrazza del «Norkhil Hotel ». Il migliore dei tre alberghi di Oangtolc, capitale del Sikkim, è ima costruzione a due piani, color ocra, il tetto a pagoda; un solo cameriere serve il tè all'aperto, nel giardino intirizzito dalla gelata notturna. Nel silenzio dell'alba corre una sorta di ruggito lamentoso: sono i soldati indiani che sbadigliano in coro. Un leggero vapore sale dal basso; poi, d'improvviso, alta contro il cielo di cobalto appare la cima del Kanchenjunga: la sua vergine luce splende come una lama pulita. La visione dura pochi minuti, la terza montagna del mondo è un dio scontroso che vive tra le nuvole, sul tetto del mondo. Per la ripida strada che porta al mercato, incontro gente dall'aspetto ansioso e felice, tibetani tarchiati che camminano con le braccia gettate all'indietro, il petto in fuori, ondeggiando sui fianchi alla cadenza dei lenti passi da montanari. Hanno stivali di feltro e cappelli larghi, le giacche raccolte intorno alla vita, al collo scapolari d'argento incrostati di schegge di turchese, lunghi pugnali infilati nelle cinture di lino gaiamente ricamate. Camminando, qualcuno fa ruotare la fionda fatta di listelli di cuoio intrecciati con gran spavento degli uccelli azzurri e rossi che affollano il bosco di rododendri e magnolie in cui s'arrampica la strada. Con gli uccelli si levano in volo nugoli di farfalle dagli strepitosi colori, il mattino n'è pieno, resistono al vento che le sospinge contro ragnatele giganti stese tra i rami degli alberi come reti d'argento. A mano a mano che ci si avvicina al bazar, il bosco si dirada facendo posto alle case, molte in pietra e mattoni, altre di legno scuro, le imposte gialle o turchine. Donne dalle variopinte gonne fino ai piedi, s'affrettano verso l'unica strada diritta eh'è poi la città vera e propria di Gangtok; alti zigomi e occhi mongolici, portano quasi tutte un cerchietto in filigrana appeso al naso, sorridono aperte al saluto del forestiero. Ce n'è che si proteggono dal sole con ombrelli di tela blu, reggendoli graziosamente. Portano i capelli, neri e lucidi, a crocchia laddove gli uomini quando si levano il cappello rivelano codini da pellirosse. A un crocevia un sikkimese piccolo e cordiale in divisa da poliziotto indiano, dirige il traffico: jeeps cariche di sikhs, <millerento •» fabbricate a Bombay, scampanellanti colonne di muli legati l'uno all'altro da un'unica corda lenta, in coda il mulattiere con le fasce della bisaccia tese contro la fronte, i muscoli del collo ingrossati dallo sforzo che fanno per reggerla. La piazza del mercato è una larga strada-corridoio fra pareti di case appese ai fianchi della verde montagna, tutta a terrazze di riso. Cento baracchine sciorinano la merce sui marciapiedi gremiti di cani addormentati; sarti indiani « pedalano » all'aperto sulle loro arcaiche macchine da cucire, con accanto le mogli che sorvegliano i bambini seminudi, in bivacco su larghi tappeti polverosi. Davanti al cinema posteggiano tre capre, poco discosto un indovino legge le carte a un mercante nepalese, una ragazza in pantaloni entra dal giorno- laio che vende quotidiani di Calcutta vecchi di un mese. Una bottega espone mutandine di nylon e ventilatori, * pemmican* di yak, impermeabili, lacca per capelli, biscotti, stufette elettriche e libri da tasca americani; tutto alla rinfusa sotto il sole e le mosche. Non manca la coca-cola. Il Sikkim è un piccolo regno sperduto tra i picchi hi- malayani, grande un po' me no dell'Umbria, con una popolazione di 167.000 abitanti. Una volta era più facile entrarci dal Bhutan e dal Tibet che dall'India; da quando, nel '47, è un « protettorato » indiano, come lo fu dell'Inghilterra, venti stranieri l'anno possono visitarlo per turismo. « L'ultimo paradiso terrestre », popolato di gente mite confortata dalle incessanti preghiere dei ventimila lama sparsi in sessantasette monasteri, è ora sotto la minaccia dell'invasione cinese. L'altopiano del Tibet è per la Cina come il palmo d'una mano, con il Ladakh, il Nepal, il Sikkim, il Bhutan e la Ne fa (la zona della frontiera di Nord-Est) a far da cinque dita. La Cina controlla il « palmo » ma non le « dita *: nel settembre scorso è sembrato, dopo l'ultimatum di Pechino all'India e gli incidenti di frontiera, che i cinesi stessero per forzare i due passi più importanti alla frontiera tibetana col Sikkim; poi il raggiunto armistizio tra India e Pakistan ha fatto allentare la pressione cinese. Tuttavia la minaccia permane, un attacco della Cina è nel numero delle cose possibili, domani come fra dieci anni. E non basteranno a scoraggiarli, purtroppo, le due divisioni indiane schierate lungo la vallata del Chombi, attraverso la quale i cinesi potrebbero sfociare fino alla pianura del Gange e del Brahmaputra, quanto le possibili reazioni degli Stati Uniti e del}a stessa Russia: se le due potenze faranno ancora « fronte co- mane », come davanti al con(litta indo-pakistano A pensarla così è sua maestà Palden Thondup Namgyau, dodicesimo « chogyal », cioè maragià, del Sikkim, un signore di quarantadue anni, laureato a Oxford, ma- rito felice di una americana, la graziosa gyalmo Hope Cooke. E' un uomo cordiale e disincantato che vive in uno chalet vittoriano circondato da laghetti su cui galleggiano i tradizionali fiori di loto. Nel recinto della reggia sorge un monastero; le voci dei lama che pregano cantando su tre note, con accompagnamento di cimbali e corni tibetani, fanno da contrappunto alla nostra conversazione. Il maragià è un uomo molto pio, i suoi sudditi vedono in luì la reincarnazione del lama Karmapa di Kham, il che non gli impedisce di apprezzare la cucina francese e i liquori. Mi offre un Comparì, per se stesso riempie un bicchierone di gin « correggendolo » con due gocce di Martini. Sono le 9 del mattino; sediamo sotto una tenda bianca, aperta ai lati, il maragià indossa una tunica immacolata dalla quale sbucano un paio di mocassini di Bond Street. Indicandomi i larghi caratteri neri che decorano la tenda: «Non sembrano disegnati da Mirò? », suggerisce. Un complicato tic nervoso stravolge ogni tanto il suo volto dall' espressione malinconica; il re aorride spesso, come tutti gli orientali, ma senza convinzione. Sottili banderuole votive, viola e nere, pendono da un groviglio di pennoni, il vento le muove piano; un soldato in rossa giacchetta napoleonica e tubino nero passeggia armato di un pesante fucile. Dal tempio, tutto di legno intarsiato alla maniera mongolica, escono sei cani nerissimi che sotto il sole sembrano visti in negativa; dai moderni uffici amministrativi, sulle cui porte vegliano maschere orrende a difesa dai demoni, giunge il crepitìo delle macchine per scrivere; dietro una siepe si intravvede una delle tre automobili tedesche del re. «Vede — fa questi, quasi a concludere un lungo discorso —, il mio è sempre il " Regno dei burroni " ma non è più un paese fuori del tempo; non è più medievale, come si ostinano a scrivere molti giornalisti. Abbiamo ospedali e scuole, una bassissima percentuale di analfabetismo, quattro partiti molto attivi, industrie bene avviate, un' agricoltura in progresso. Io incoraggio la emancipazione sociale del paese, sono un re ma non un autocrate: il buon pastore tosa le pecore, non le divora, come dice Svetonio. Nel Sikkim non ci sono comunisti, tuttavia il discorso, ormai superato, del marxismo puro trova larghi consensi, né potrebbe essere altrimenti. Da noi il povero non è miserabile come nel subcontinente indiano; se ci lasciassero in pace, forse nel giro di una generazione potremmo fare del Sikkim un vero paradiso terrestre, ricco di templi ma anche di elettrodomestici ». Questo dice il re, poi, sospirando, si versa un'altra robusta dose di gin. Igor Man Il sovrano del Sikkim, Palden Thondup Namgyam, mentre risponde alle domande del nostro inviato (Tel.) tn 'e *• T « ^ - M. Chumiumo.:" 17).6823,2 Lachenf J . k o M. Kdngchenjunga . Vv m.8600As, <^*/ N A NEPAL oTumtong

Persone citate: Hope Cooke, Igor Man, Mirò, Palden, Palden Thondup Namgyam, Pensa