Caporetto e la crisi del 1917 nella realtà e nelle lyeggende di Paolo Monelli

Caporetto e la crisi del 1917 nella realtà e nelle lyeggende Non sottovalutiamo le nostre virtù militari Caporetto e la crisi del 1917 nella realtà e nelle lyeggende Non abbiamo una buona stampa nel mondo, come soldati, nioialtri italiani. Né come comandanti di eserciti, né come combattenti. Non ci serve aver dato alla Francia un Napoleone, all'impero germanico un /Montecuccoli, all'impero austriaco un Eugenio di Savoia, agli spagnoli un Fabrizio Colonna o un Andrea Doria, ai sudamericani un Garibaldi. Non ci giovano le gesta di un Bartolomeo Conconi, di un Carmagnola, di un Giovanni dei Medici; né di essere stati considerati nel secolo XIV i maestri della guerra a cavallo. Fra il '500 e il '700 si ritrovano italiani in tutte le milizie d'Europa, in Ungheria, in Francia, in Boemia, in Portogallo, in Fiandra. Tante prestazioni individuali non valsero mai a dare all'Italia una posizione preminente nel campo della guerra; il che davvero torna ad onore del nostro popolo. Come osservò Thomas Macaulay in un suo noto saggio sul Machiavelli, in un tempo in cui Inghilterra, Francia e Spagna davano ancora spettacolo di barbarie e d'ignoranza, e sola attività di quei gentiluomini era l'esercizio delle armi e la guerra, gli italiani pensavano a coltivare l'ingegno, le arti, l'architettura, il commercio, la navigazione, la cultura dei campi; sì che in un'Europa ancora semibarbara pareva miracolo lo Stato d'Italia alla fine del secolo XV come lo descrive il Guicciardini: « Ridotta tutta in somma pace e tranquillità (...) fioriva di uomini prestantissimi nelV amministrazione delle cose pubbliche, ed ingegni molto nobili in tutte le scienze e in qualunque arte preclara e industriosa ». Aggiunge a questo punto il Guicciardini che l'Italia « non era prima secondo l'uso di quella età di gloria yiilitare »; perché quei magnificentissimi principi si combattevano spesso fra loro per gelosia e desiderio di preminenza. Ma la gloria militare era di condottieri come Alberico da Barbiano, Braccio di Montone, il Gattamelata, Francesco Sforza, che fecero progredire l'arte militare nei suoi aspetti tattici e strategici, alla testa di compagnie di ventura; e passando indifferentemente da un signore all'altro non avevano alcun interesse a sciupare il materiale umano. Quando anche in Italia si crearono milizie nazionali, come nel Piemonte, rifiorì naturalmente fra quei soldati « l'antico valore » invocato dal Petrarca, avvivato dal sentimento di compiere un dovere patriottico. L'esercito piemontese si meritò fino agli ultimi giorni, fino al 1860, l'ammirazione degli stranieri, simile a quella che si aveva per nazioni di lunga tradizione militare. Il giudizio negativo sul valore dell'italiano in guerra è recente, risale paradossalmente agli anni subito dopo la nostra prima guerra nazionale vittoriosamente conchiusa; ed in gran parte noi stessi ne portiamo la colpa, per le passionali polemiche con le quali ne furono rievocate e descritte le vicende. Si fece tutto un mazzo, in quelle scritture, degli errori strategici e dello stato d'animo del soldato, con quel gusto dello scandalo che è tuttora nostro, per il quale furono ingigantiti fatti sporadici e taciuto il reale comportamento della massa dei combattenti. E di nuovo quest'anno, nel cinquantenario, si è tornati su quell'immane conflitto con più acrimonia che con un sincero desiderio di verità; e dove la passione politica non sia trascesa, come è avvenuto, a fare di quei pazienti soldati addirittura i complici di coloro che scatenarono la grande strage, troppo spesso si è compiaciuta di rappresentarli come un gregge di pavidi, o trepidamente apatici e spudoratamente paurosi; senza naturalmente riuscire a spiegare come mai un esercito di svogliati e di vigliacchi sia riuscito a prezzo di un pauroso sacrificio di vite a portare in due anni la linea di battaglia dal confine alle porte di Trieste; e, la primavera del 1916 ad arginare ed a respingere quasi sulle posizioni di partenza l'orgogliosa e tracotante spedizione punitiva del maresciallo Conrad sul fronte trentino. Conviene ripetere, contro tanta letteratura irresponsabile o calunniosa, che qualità precipua della massima parte dei nostri soldati dal.1915 al '18 fu l'accet¬ tazione virile di una disperata condizione di cose, un onesto senso del dovere che li fece spesso animosi contro.un avversario che affrontavano senza odio e senza crudeltà, ed ad ogni modo non mai inferiori agli alleati. Ma questo non è dir tutto. E' pressoché unanime presso gli storici la condanna dell'assurda condotta di guerra da parte del nostro comando supremo gli anni dal luglio del 1915 al novembre del '17 sulla fronte dell'Isonzo, ottusa e caparbia, che moltiplicò paurosamente il numero delle vittime. Soltanto un esercito molto solido, con soldati disciplinati e ubbidienti agli ordini, poteva sopportare per due anni e più una serie di battaglie offensive l'una più ardua dell'altra, contro posizioni sempre più irte di difese su cui l'artiglieria non aveva presa, in condizioni di vita spesso disumane, travagliato come l'autunno del '15 dal colera e dal tifo, con l'esperienza che ogni ulteriore battaglia avrebbe richiesto sacrifici di vita sempre più alti (l'undecima battaglia dell'Isonzo, con la conquista dell'altipiano della Bainsizza, ci costò 40.000 morti, 108.000 feriti, r8 mila dispersi o prigionieri); e questo l'anno 1917, avendo alle spalle un paese scorato e desideroso soltanto di una pace a qualsiasi prezzo. Caporetto non fu sciopero militare come fu definito; fu una rotta, come ne ebbero sulla loro fronte gli alleati, frutto d'una geniale sorpresa strategica, del vastissimo impiego di gas velenosi ancora sconosciuti, dello smarrimento di alcuni grandi comandi; ma trentamila uomini caddero combattendo sulla via della ritirata, quindici divisioni Superstiti poterono arrestarsi dietro la linea della Piave salvando dal disfacimento le armi e lo spirito. Proprio la rotta di Caporetto torna a dimostrazione delle nostre qualità militari. Come si possono negare tali virtù, ed in alta misura, ad una nazione che si risollevò per Virtù propria dalla tremenda mazzata, seppe attestarsi sul fiume e sulle montagne in posizioni precarie, non predisposte a difesa, arrestare e respingere in due mesi di combattimenti disperati il nemico allo scoperto, nella stagione già invernale? Non tutti sanno, e soprattutto vollero ignorarlo gli avversari, che in quei due ultimi mesi del '17 l'aiuto degli alleati fu tutt'al più morale: le prime truppe alleate che vennero a contatto col nemico sul Grappa, le francesi, condussero il loro primo e brillante combattimento gli ultimi giorni di dicembre, quando il nemico si era già persuaso del fallimento del suo sforzo. Si capisce che i generali battuti, o che s'erano viste tarpate le ali della vittoria, abbiano cercato di defraudarci del giusto riconoscimento della nostra azione ingigantendo il contributo delle scarse divisioni alleate ed attribuendo ad clementi di poco conto, il tradimento di alcuni reparti, le confidenze di disertori, le vicende atmosferiche, la causa precipua dell'arresto dell'offensiva, la fine del '17 e la sconfitta del giugno 1918; ma ben diverso fu il giudizio che dettero dei nostri soldati gli osservatori imparziali. E in particolare modo i nostri diretti avversari. Un austriaco tedesco, Fritz Weber, che partecipò come ufficiale d'artiglieria a quella guerra sugli altipiani, sul Carso, sulla Piave, buon patriota, sicuro della vittoria fino al giugno del '17, che ebbe occasione più volte dal suo posto di osservatore di notare il contegno dei nostri all'assalto, nel suo libro Ende einer Armee («La fine d'un'armata»), narrando con sincerità e senza preconcetti, rende continue testimonianze dell'impeto offensivo e della pertinace resistenza de! soldato italiano. Ecco un primo caso: assiste all'attacco dei nostri ad un forte austriaco sull'altipiano, che si credeva distrutto e senza difese. Vede fallire le prime ondate che vanno ad urtarsi contro un sistema di mitragliatrici bene appo state; vede i superstiti che si gettano a terra nelle buche davanti ai reticolati, ma ne sono sloggiati da un violento fuoco di shrapnels, e sono costretti a ritirarsi giù per il pendio, falciati dalle mitragliatrici. Ma all'alba il com battimento riprende, quattro battaglioni tornano all'assalto. «Tutta l'artiglieria nostra frappone una cintura di fiamme attorno al punto pericolante. Gli italiani cadono in gran numero, ma quelli che rimangono, circa un decimo, riescono. a raggiungere il crinale e a sopraffare i territoriali tirolesi che vi statino a difesa ». Passato sul fronte del Carso, il tenente Weber è testimone di un attacco fallito dei nostri sulle pendici del monte Hermada, travolti da un contrattacco scatenato dagli ungheresi e da un battaglione d'assalto, « dopo un corpo a corpo con zappe, coltelli, baionette, bombe a mano ». Vede poco dopo alcuni prigionieri italiani laceri e sanguinosi. « Gli ufficiali sono silenziosi, tristi, amareggiati, guardano davanti a sé con un'espressione cupa. Non ho mai visto un ufficiale italiano che sia venuto meno alla sua dignità. Erano e sono tutti avversari veramente cavallereschi, valorosi, implacabili)-!. Nell'avanzata oltre Caporetto è attento soprattutto agli episodi di reparti italiani che non vogliono arrendersi, che si difendono ad oltranza. Scorge presso Plezzo morti italiani ed austriaci in confuso groviglio presso un nido di mitragliatrici italiane quasi invisibile. « Da quel posto alcuni valorosi hanno sparato fino all'ultimo, benché dovessero sapere che orinai la loro condizione era disperata. La mitragliatrice spunta ancora dalla feritoia,'un caricatore a metà sparato pende dall'arnia. Ci caliamo nella trincea. Si svela ai nostri occhi il dramma dei due uomini che hanno servito la loro arma fino all'ultimo, uccisi da bombe a mano lanciate alle spalle. Uno dei due ha il cranio scoperchiato; l'altro è inginocchiato con una mano ancora aggrappata alla mitragliatrice ». Paolo Monelli