«...E venne un uomo» di Olmi l'atteso film su Giovanni XXIII

«...E venne un uomo» di Olmi l'atteso film su Giovanni XXIII ALLA MOSTRA CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA «...E venne un uomo» di Olmi l'atteso film su Giovanni XXIII E' il primo lavoro italiano presentato al Lido, fuori concorso - « Barbarossa », del giapponese Akira Kurosawa, è in gara per il « Leone d'oro » - Dura tre ore e descrive l'opera umana di un medico in un ospedale per i poveri (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 31 agosto. Giornata intensa, che ha messo insieme l'ora e mezzo del film di Olmi e le tre del film di Kurosawa, il primo « fuori », il secondo « in concorso ». Anche il buon cinema (e il neorealismo insegna) è spesso figlio dell'occasione, ma è bene che la occasione non sia troppo alta. Dispiace che ...E venne un uomo, dedicato alla memoria, che durerà sempre, di Giovanni XXIII, non abbia corrisposto all'attesa, e molto meno all'elevatezza del tema, difficile da trattare per qualsiasi regista, e forse disperato. Ci arrischiamo a dir questo perché le qualità di Ermanno Olmi, quella sua finezza e spiritualità di tratto, la sua stessa giovinezza, che lo avrà reso particolarmente sensibile al passaggio di un Papa come Giovanni, gli conferivano buoni titoli per toccare l'augusto argomento. Nulla è da dire circa il rispetto con cui il regista e anche sceneggiatore (con la cooperazione di Vincenzo Labella) ha tentato il ri tratto e la biografia giovannea: se non forse che è stato persin troppo, al punto d'impigliarvisi. Sulla pietra angolare del « Giornale di un'anima », facendo parlare il personaggio con le sue stesse parole, ha costruito un edificio figurativo che ri sente e soffre d'una soluzio ne intermedia fra il racconto ricostruito e l'antologia documentaria, per modo che il film non è né una cosa né l'altra, e il suo totale risul ta parecchio artificioso. Soprattutto lo imbarazza la presenza di un « mediato re » che è insieme coro e parte in causa: per un tratto ha il mero incarico di esplorare per noi il luogo natale e la famiglia Ron calli e di pedinare, dal prima vagito all'entrata in se -minario, Angelo '-'^Giuseppe; ■ ' più tardi si prende anche quello d'identificarsi col personaggio, ma in una certa maniera astratta, sempre conservando le fattezze l'abito borghese del « mediatore ». L'irriverenza di un Roncalli posticcio, da film pseudostorico, è certamente evitata; ma anche accade che quel personaggio emblematico, oramai diventato vescovo e presto cardinale, deve partecipare ad azioni, anche rituali, e perciò di tutta tenerezza, che richiederebbero un vescovo e un cardinale plasticato in perfetta regola, e non un signore senza cappello, con la cravatta nera e il cappottino impermeabile (all'ultima moda, cioè cortissimo), piovuto non si sa da dove. O meglio si sa benissimo: da Hollywood; e di Hollywood è un famoso lupo qui camuffato da agnello. Rod Steiger ( con la voce di Romolo Valli) è l'intelligente attore che sapete: sostiene perciò benissimo il camuffamento, e sul suo volto macinato dai ceroni, si dipingono le più delicate sfumature d'un sentimento presumibilmente cristiano. E da buon inpantatore, egli si tira appresso il pubblico. Ma quando poi alla fine, per noti quanto stupendi inserti documentari, compare il vero Papa traversante in sedia gestatoria piazza San Pietro, con quel fare bonario che ha avvicinato al Cristianesimo tanti che ne stavano lontani, allora è inevitabile un soprassalto: come avviene quando sul falso si sovrappone il vero. Ma il maggior difetto del film è un altro. Comincia benissimo, nei più teneri e spontanei toni di Olmi: la pittura di quel paese, la nascita del bambino, le figure dei genitori e dello zio, i loro buoni esempi, e i primi segni di un'ardente vocazione apostolica, d'una mente ecumenica. In questa zona d'idillio manzoniano, in cui anche la fotografia a colori di Piero Portalupi ha una gran parte, Olmi ha lasciato cadere la gemma dell'episodio delle zucche, non solo delizioso in sé, ma illumi r^nte il senso del lavoro più utto il resto. Da far penche l'umile strada degli antidoti sarebbe forse stata la buona. A mano a mano invece che la figura di Gio vanni emerge, spicca e final mente grandeggia, il film si raggrinza nell'agiografico immiserisce, svapora. Poche igffisèqdr inquadrature sbrigano quel grandissimo personaggio che fu papa Giovanni; dove il film doveva ingrossare, finisce. E l'impressione ultima è di aver letto la biografia o meglio il panegirico di un qualunque prete esemplare, da prenderne ottimi esempi chierici e seminaristi. Per la poderosità dell'impianto e la mastodontica durata, il giapponese Akahige («Barbarossa») occhieggia il Leon d'Oro. Tratto da un soggetto originale di S. Yamamoto e diretto da Akira Kurosawa (un altro « grande » presente quest'anno al Lido), ci trattiene per tre ore in uno scalcinato ospedale per i poveri di Edo, durante l'epoca feudale. Lo dirige con rozza bravura il dottor Niide, soprannomina¬ to « Barbarossa », un conciaossi che alla occasione, quando gli fanno perdere la pazienza, sa anche sconciarli con aggiustati colpi di lotta libera. L'uomo incaricato di rivelarci la sua poliedrica personalità è un giovane internista, una specie di dottor Kildare rivoltato in giapponese, che dapprima rilutta a lavorare in quell'ambiente, sotto quel primario, e in ultimo elegge con entusiasmo apostolico di rimanerci per sempre, a preferenza di ben più vantaggiose soluzioni. Entro questo sottile e tradizionale telaio del film sugli « uomini in bianco » d'ogni tempo e paa.se, Kurosawa ha accumulato episodi su episodi, intesi a dare un doloroso panorama di miserie e d'ingiustizie sociali. Da quel signor regista che è, ha. acceso fulgori specialmente sull'episodio della dodicenne Otoyo, comprata da una padrona di bordello che ve la tiene come serva nell'attesa che cresca, e che il generoso Barbarossa strappa al suo tragico destino. Otoyo, inselvatichita dall'abiezione, ritroverà dignità umana e fiducia nella vita incominciando dall'innamorarsi del dottorino che l'ha presa in cura. Più amaro l'altro episodio del piccolo ladruncolo che vorrebbe essere un cavallo per mangiare l'erba, e che la più nera miseria spinge al suicidio, col permesso, anzi la partecipazione dei genitori. Anche qui il bravo medico sventa il peggio, men¬ tre non può riparare a tanti altri mali che dilagano. Kurosawa, con tutte le buone cose che ci ha messo, non ha potuto evitare che il film andasse sopra il peso. Lo spettatore è sbalestrato ora qua ora là, in qualche punto si trova benissimo, ma- alla fine si sente alquanto indolenzito per il soverchio esercizio. Tre ore sono una grossa cosa anche per un Kurosawa, soprattutto quando non sia nella forma più splendida e tenda a imprigionarsi, sia pur divincolandosi in pagine degne di lui, nei più logori schemi del cinema occidentale. Dada delle signore, Toshiro Mifune appicca al fiero dottor Barbarossa un'altra delle sue buone interpretazioni. Leo Pestelli La Sampò intervista Olmi, a sinistrale Stéiger, regista ed interprete del film su Giovanni XXIII (Tel. A. P.)

Luoghi citati: Hollywood, Venezia