«Anche l'obbedienza ha dei limiti» di A. Galante Garrone
«Anche l'obbedienza ha dei limiti» LA SENTENZA PER AUSCHWITZ «Anche l'obbedienza ha dei limiti» La mitezza del verdetto di Francoforte — a conclusione d'un dibattimento che, protrattosi per duecento udienze, aveva toccato i vertici dell'orrore — ha suscitato, in vari paesi d'Europa, stupore, sgomento, indignazione. Il sentimento è comprensibile. Ma è nostro dovere sforzarci di giungere a una visione spassionata e razionale dell'epilogo giudiziario, reprimendo ogni moto dell'animo e tenendoci strettamente ai fatti che sono emersi. In qualche punto, siamo d'accordo con le considerazioni lette dal presidente Hofmeyer, a commento del dispositivo. E' senz'altro vero che questo non era, non doveva essere un processo al nazismo, o al passato della Germania. Non compete mai ai giudici pronunciare la condanna di un dato periodo storico, surrogarsi cioè alla storia, che è ad un tem po giustiziera e giustificatrice. Quello di Francoforte era soltanto un processo penale, destinato, come ogni altro processo del genere, ad accertare le singole responsabilità degli imputati. Ed è non meno vero che anche la massima delle pene previste dal Codice restava puimmsetoti qutagil'avitrnoboraundeprdenusimstpenorabifoquK30Comlecicorarag pur sempre inadeguata alla immensità dei delitti consumati ad Auschwitz. «Anche se tutti gli imputati, ha detto il presidente, fossero stati condannati all'ergastolo, questa pena non sarebbe stata sufficiente per rendere giustizia... Non basterebbe l'arco di tempo di un'intera vita umana per espiare le tragedie di vent'anni fa ». Sono considerazioni perfino ovvie; ma che non debbono diventare l'ipocrito paravento dietro cui si annida una ben strana perplessità della sentenza. Non si comprende infatti perché mai, dei diciassette imputati ritenuti colpevoli, soltanto sei siano stati condannati alla massima delle pene (l'ergastolo), e gli altri undici a pene irrisorie di qualche anno. Ma a quali criteri s'ispira la raccapricciante contabilità dei giudici di Francoforte? Scegliamo a caso qualche esempio: 7 anni a Karl Hoecker, complice in 3000 omicidi; 9 anni a Victor Capesius complice in 8000 omicidi: 5 anni a Klaus Dilewski, complice in 1500 omicidi; 4 anni a Pery Broad, complice in 8000 omicidi. Veramente, come conclude amaramente Le Monde, « una bagattella per un massacro ». Il bandolo per venire a capo di questo enigma giudiziario ci è stato benignamente fornito dallo stesso presidente Hofmeyer. Taluni, come, ad esempio, i famigerati Boger e Kaduk, avevano voluto « con zelo e interesse » lo sterminio degli ebrei, e, per questo soprappiù di sadica volontà o voluttà, che li spingeva spesso a fantasiose e raffinate iniziative di crudeltà, si meritavano la massima delle pene. Ma gli altri, poverini, non era poi sicuro che fossero altrettanto «zelanti e interessati»; si erano forse piegati al loro faticoso mestiere di boia con poco entusiasmo; più per uno spirito di disciplina passiva, di ottusa obbedienza, che per impulso spontaneo. Alla base di questa distinzione legalmente mostruosa (nel senso il! un vero e proprio monstrum giuridico) c'e molto probabilmente — e altre considerazioni esplicite del presidente rafforzano il nostro sospetto - il mito della disciplina, il culto dell'obbedienza, cosi radicato ancora nello spirito di moltl tedeschi. Enpure, in Germania e fuori, cettarsi, i-ebbe ormai acne saldo criterio giuridico, ciò che il generale Keitel, a Norimberga, riconobbe di avere compreso troppo tardi, che cioè anche l'obbedienza ha dei limiti. Ad Auschwitz questi limiti erano stati paurosamente varcati da tutti gli imputati. I giudici di Francoforte 10 hanno riconosciuto, ma solo fino a un certo punto: 11 che è assurdo e contraddittorio. Forse ancora più inesplicabile, sempre sul piano giuridico, l'assoluzione di tre imputati, specialmente quella del dentista Schatz, per cui il P. M. aveva chiesto l'ergastolo. Egli, infatti, non è stato assolto per estraneità allo sterminio, ma soltanto, si direbbe, per la burocratica passività del suo comportamento. Al pubblico che gli si stringeva intorno dopo la sentenza, egli ha saputo dire soltanto, con una frase che può sembrare anche cinica: «Eravamo tutti piccoli ingranaggi di una grande macchina ». Mentre cosi egli parlava, Johann Schoberth, un altro degli assolti, rideva. II ridere, compiaciuto e trionfante, di una SS che — è indubbio — partecipò al genocidio di Auschwitz, ci appare come il più agghiacciante commento della sentenza dì Francoforte. La sentenza non è definitiva. Ci auguriamo che quella risata non abbia a restare nella nostra memoria come il suo ultimo, beffardo suggello. A. Galante Garrone
Persone citate: Boger, Johann Schoberth, Kaduk, Karl Hoecker, Keitel, Klaus Dilewski, Schatz, Victor Capesius
Luoghi citati: Auschwitz, Europa, Francoforte, Germania, Norimberga
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