I Greci orgogliosi e poveri, ma con un grande passato vogliono uscire da un dispotismo che dura da due millenni di Alberto Ronchey

I Greci orgogliosi e poveri, ma con un grande passato vogliono uscire da un dispotismo che dura da due millenni UNA TERRA ARIDA, MONTUOSA, FRANTUMATA IN CENTINAIA DI ISOLE I Greci orgogliosi e poveri, ma con un grande passato vogliono uscire da un dispotismo che dura da due millenni Dopo la spietata dominazione turca, una dinastia straniera che non ha saputo restituire la libertà al Paese - Ora sembra venuto il momento della decisione Gli ateniesi scendono in piazza a centinaia di migliaia, col termometro che segna 41 gradi all'ombra - Non fanno atti di violenza, non chiedono vantaggi materiali - Con capàrbia ostinazione vogliono una vera democrazia • Ma la lotta è dura - Il Re è fermo all'Ottocento - La Corte dispone di 11 palazzi, 89 fra Rolls Royce e Cadillac, tre panfili, un appannaggio che è il triplo di quello del presidente Johnson - E Federika ha imposto una tassa speciale per le «sue» spese di beneficenza (Dal nostro inviato speciale) Atene, 13 agosto. A mezzogiorno, un vento caldo da terremoto d'agosto batte sull'Acropoli. Scivolando sulle pietre fra il Partenone, il tempio di Atena Nikè e l'Eretteo, fustigati dalla polvere e accecati dal¬ la luce, gli stranieri cercano i rifugio nel museo archeologico, a contemplare quelle sorridenti statue arcaiche, nelle quali Malraux vede «lo stupore divertito dell'essere umano che si risveglia al mondo dopo un lungo sonno ». Più giù, sotto i Propilei ili Pericle, un pullman del- le Olgmpic Airways vende « Tam-tam », la Coca-cola greca del miliardario Garafulias, l'uomo che a metà luglio, come ministro della Difesa, offri itti, motivo occasionale alla reazione contro il liberalismo di Papandreu. E dalla conca di Atene, an cor più giù, risuona l'eco quotidiana, implacabile, delle grida popolari contro la Reggia e la cattiva sorte della Grecia moderila. Fa male pensare che cosa è davvero la Grecia attuale, accanto a quella muta dei templi, o a quella fittizia per i viaggiatori dell'Europa opulenta, che vi scendono d'estate con l'aereo o col Simplon-Orient Express. Dietro l'archeologia, le rupi, le spiagge, i meloni, le triglie e il vino resinato, vive un Paese di contadini con un reddito personale di livello «asiatico », di trecentomila operai su otto milioni di uomini, di pochi famosi armatori nati in Attica o nel Peloponneso ma contribuenti in Svizzera. Ogni anno nascono qui novantamila cittadini e ne emigrano centodiecimila; è una società nella quale i giovani non possono che contestare un ordine primitivo e duro almeno quanto la natura è levigata dalla storia e sofisticata da una dolcezza narcotica. In questo Basileion tis Ellades, o regno di Grecia, il dispotismo non s'è arreso ancora ne ai «lumi» né alle masse; un operaio, per ottenere l'impiego, deve possedere un certificato di « moralità politica » della gendarmeria. Qui sopravvive la Corte meno capace di far dimenticare che il principio monarchico è assurdo in sé e per sé, sorda agli esempi scandinavi o a quello inglese, e inoltre costosa. Secondo le stime più benevole, la famiglia reale pesa sull'erario con undici residenze, ottantanove Rolls Royce, Cadillac e Mercedes (mentre la regina d'Inghilterra affitta taxi per i suoi invitati), tre yacht, una lista civile di diciassette milioni di dracme, pari a tre volte l'assegno del presidente Johnson, ed ima « tassa Federika » d'un milione di dracme l'anno per finanziare opere di beneficenza amministrate in forma privata, fondi segreti, doti alle principesse reali. « Quanto al nome — disse Pericle secondo Tucidide —, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di pochi... ». Era il V secolo avanti Cristo, e nell'anno stesso della morte di Pericle nasceva Platone: l'età degli «storici testimoni », dei filosofi, dei tragedi, della civiltà unita alla potenza, di Fidia, Ictino, Camerate, e insieme del tesoro di Delfi, che è quanto dire Fort Knox. Fu un lampo; e non c'è ritegno dal pensare in termini scolastici, che possa esimere chiunque si trova nell'Atene mediorientale e piena di grida di questa estate dalla meditazione su ciò che Hegel chiama » dispersione dello spirito d'un popolo ». Atene non ha inai più ritrovato la sua democrazia e oggi si ribella contro un principio di regalità, che aveva già superato nel 1045 avanti Cristo, prima di sperimentare gli oligarchi, i tiranni ed il governo popolare. Come la moglie di Ulisse, così più volte Atene ha disfatto la sua tela, ma senza lieto fine. Favolose discordie fra città e colonie e fazioni, iiroconsoli romani, imperatori bizantini, governatori turchi e infine re stranieri: quasi due millenni di alienazione perfetta. Soprattutto l'influenza islamica tolse l'anima della Grecia.o quel che ne restava. E la « diaspora ellenica» fra Costantinopoli e Bucarest, Smirne e Trebisonda, Alessandria e New York, non è stata minore di quella del popolo ebreo. La Grecia di oggi vive per puntiglio, quasi come Israele. Otto milioni di elleni resistono in una terra arida che si prolunga fra migliaia di isole, simboli esse stesse di solitudine c discordia; i greci sono catafratti nel loro alfabeto, separati sia dal mondo cattolico, sia dai protestanti e dalla ortodossia slava, timorosi dei vicini europei (fin dai tempi di Basilio Il il « bulgaròfobo ») e dei turchi, orgogliosi e poveri come nessuno in Europa, custodi di ruderi quasi nudi da quando Lord Elgin trasferi le sculture più fa¬ mose dell'Acropoli al British Museum, « non lasciando alla Grecia che i suoi Dei irati*. Eppure sopravvive un vigore frustrato, una vitalità patetica in questo caldo angolo « afroasiatico » del Mediterraneo, che assume forme stupefacenti. Vi è una clamorosa volontà di esistere, un'ansia d'essere soggetti di politica (che non ha niente in comune con i moti collcttivi del fanatismo arabo), carica di civismo e dignità, e tutto sommato misteriosa. Anche nei tumulti di piazza, ai quali assistiamo in questi giorni, si scopre una tensione morale, che non è da popolo perduto. La discussione politica è costante in ogni ceto. I greci conoscono i loro partiti, e persino le singole tendenze d'ogni partito, come in altri Paesi non si immagina nemmeno. Leggono più giornali politici che gli italiani e i francesi; non conoscono cinismo e qualunquismo. Scendono in piazza a centinaia di migliaia col sole ardente d'agosto a mezzogiorno, mentre il termometro di piazza Sintagma segna 1,1" all'ombra, e non per una rivendicazione materiale, da poveri, né trascinati dalle semplici suggestioni xenofobe che travagliano il mondo depresso, ma per una questione di principio costituzionale. Per un mese li ho visti scendere in piazza ogni giorno e ogni notte (quasi una «comune» parigina senza violenza) e non una volta la brutalità li ha trascinati. La notte in cui il governo Novas fu sconfitto alla Camera, alle tre in punto, erano sulla piazza a decine di migliaia e accesero i fuochi, così come dopo le battaglie classiche s'innalzavano trofei. E in quel clima, il capo della « destra », Canellopulos, volle compiere un gesto di sfida: si presentò dinanzi alla moltitudine. Questa ondeggiò paurosamente, poi spezzò i cordoni di polizia. Il Cleone del karamanlismo fu per essere sommerso, quando dalla stessa folla delle prime file venne ricomposto un argine e l'uomo che l'aveva sfidata passò indenne. Da Atene a Larissa e a Salonicco, è una ribellione di masse che vogliono con¬ tare, essere rispettate, sentirsi esistere; non di masse che vogliono distruggere. Vi è una pressione verso la democrazia, concepita nel modo più immediato, che corrisponde al bisogno individuale di dignità, quel sentimento che in una sola parola è detto « filotimo ». Papandreu è applaudito soprattutto perché ò combattuto con strumenti di puro potere del re, simbolo assoluto del privilegio. Talvolta la folla è mite persino in modo infantile; vi è una sproporzione fra l'ira che si manifesta nelle espressioni dei dimostranti, il loro aspetto, le loro voci, e quello che dicono in realtà. Ho sentito scandire invettive contro Toumbas, il ministro di polizia, e sembravano minacce mortali. Ma non era che un versetto quasi familiare: « Toumbas, Toumbas, che farai? - La tua testa mungerai». Sotto il palazzo del governo, quando la folla accusava il ministro Mitsotakis, uno dei più insidiosi « pretoriani della Corte », le parole Mitsotakis katharmà, lanciate come una con- ■ danna decisiva, sembravano annunciare almeno il patibolo. Ma poi m'è stato spiegato che katharmà è un'ingiuria appena un poco più, forte di « salop » in lingua francese. Questo non esolude, beninteso, che il popolo greco possa esplodere davvero (la guerra civile ebbe ottantamila morti) ma esclude che una spinta alla violenza sia il contenuto primo della protesta. « Non siamo barbari — come diceva un manifesto —, sia?no gente ». La folla è emotiva, ma il suo amore per la politica è serio nella « polis » per eccellenza, e il contenuto primo della protesta è un amor proprio di massa. Il Pireo è teatro d'una miseria in cui si vive di pane e olive; ma le sue strade sono pulite, bianche come corsie d'ospedale, e non è facile incontrare mendicanti. Il pessimismo e la sofferenza del vivere sono radicati negli animi (« Guerra è sempre », dice l'ebreo di Salonicco nella Tregua di Primo Levi) eppure la politica è una passione collettiva, ancorché infelice e disperata, nella Grecia che non riesce a convivere con la democrazia. Alberto Ronchey