Bob Kennedy e americani «che contano» mi parlano della guerra nel Vietnam

Bob Kennedy e americani «che contano» mi parlano della guerra nel Vietnam L'OPINIONE PUBBLICA E' DIVISA, MA RIFIUTA LA RESA Bob Kennedy e americani «che contano» mi parlano della guerra nel Vietnam Non è tanto il prezzo di sangue che sgomenta, quanto le incerte prospettive politiche - Johnson ha l'appoggio della maggioranza in Parlamento e nel paese; ma intellettuali, religiosi, giornalisti chiedono un limite alle iniziative militari ed una più attiva ricerca della pace - «E' una guerra insidiosa, ma per ora non si vede un'alternativa onorevole », dice il maggior esperto di problemi sovietici - « Non possiamo disertare in un momento di crisi: se oggi abbandoniamo Saigon, dovremo anche lasciare Berlino», afferma il sen. Kennedy, tutt'altro che sospetto di conformismo (Dal nostro inviato speciale) New York, luglio. Ho chiamato la W.N.B.O. E' una stazione radio molto ascoltata. Mi hanno risposto tre persone: un redattore del notiziario, una signorina dell'archivio, uno specialista dei problemi asiatici, ma nessuno sapeva dirmi la cifra esatta. Ho provato col Journal of America; uguale procedura, medesima risposta. Finalmente un cortese collega delZ'United Press mi ha dato l'informazione che cercavo: i soldati degli Stati Uniti morti nel Vietnam sono, fino alVII luglio, 487. Forse, adesso, il numero dei caduti è aumentato: cinquecento, o poco più. Cinquecento, come le persone che barino perso la vita tre settimane fa, sulle strade, durante il lungo week-end per la festa dell'Indipendenza. No, non è un dato che possa impressionare: ogni sette minuti un automobilista di New York raggiunge la pace eterna. Ho chiesto a un consulente della Casa Bianca che idea ha il cittadino medio americano del Vietnam. Risposta: «La stessa che ha il cittadino medio europeo di Santo Domingo ». Piuttosto vaga, dunque. Da un sondaggio di opinioni, organizzato in febbraio, risultava che soltanto il 25 per cento della popolazione seguiva attentamente le lontane vicende dei « vietcong » e dei « marines ». Ma non sono episodi determinanti; ricordo che, durante la guerra, un diffuso quotidiano inglese pubblicò due giorni di seguito lo stesso bollettino, e senza ricevere una protesta. La gente è distratta. Accendo il televisore; dei sette canali, quattro trasmettono contemporaneamente servizi e commenti sui fatti del Vietnam. Giornali e riviste hanno pagine di fotografie e articoli di diversi corrispondenti. Anche i disegnatori satirici trovano materiale per le loro vignette: una caricatura mostra Johnson e McNamara in trincea, sotto una pioggia dì cartelli sui quali sono scritte frasi di questo genere: «Va fuori dall'Asia », « Lascia Ho Chi Minh solo v « Basta con i bombardamenti », e il presidente commenta desolato: « Credevo venissero da Pechino ». No, li lanciano da Washington. Un'altra lo rappresenta mentre sta tentando di chiudere una porta, ma tra i battenti si sono infilate molte baionette comuniste, e gli uomini politici che gli stanno attorno si limitano a suggerire: « Spingi più in alto », « Appoggiati più forte », ma nessuno gli dà una mano. Ho chiesto a Johnny, l'uomo dell'ascensore, la sua idea: « Se non teniamo duro, la Cina avanza. Noi non vogliamo fare la guerra, ma adesso non possiamo mollare ». Il taxista Robert A. De Marco, conducente di un « yellow cab », pensa invece che bisogna mettersi d'accordo: «Il mio ragazzo ha ventiquattro anni — mi ha detto —, è appena ingegnere, non mi piacerebbe se lo mandassero laggiù, io sono stato in Africa e a Salerno, e so come queste storie vanno a finire ». La Gallup ha scoperto che solo 52 americani su cento condividono le iniziative di Johnson in questo agitato settore dell'Asia; non sono con lui, ad esempio, John Lindsay, repubblicano, e aspirante sindaco di New York, i professori di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology; ventimila pastori protestanti gli indiriz¬ zano appelli: «Negoziamo con tutte le parti interessate»; anche Walter Lippmann, che approva l'intervento a Santo Domingo, non nasconde le sue riserve per il Vietnam. Art Buchwald ha scritto un'ironica colonnina: «E meno male — dice — che non hanno eletto Goidwater, altrimenti saremmo stati costretti a inviare altre truppe, sempre più truppe, e a buttare altre bombe, sempre più bombe, é avremmo avuto sempre più morti ». Le t eggheads », le teste d'uovo come le chiamano qui, forse per la prima volta si fanno sentire. Robert Lowell, Premio Pulitzer per la poesia, ha respinto un invito della Casa Bianca. Saul Bellow, il romanziere di Herzog, ha detto con rammarico che « sarebbe confortante sentire che esiste un vero colloquio tra la politica e la cultura ». Ma non pare che questo dialogo sia possibile, e Johnson è innervosito dall'insistente opposizione della stampa e degli artisti. Sono andato alla Columbia University a cercare di Zbignieio Brzezinski, direttore del « Research Institute of Communist Affairs», professore di diritto pubblico e collaboratore di McGeorge Bundy, l'assistente di Johnson per la politica estera. E' nato a Varsavia trentasette anni fa, ma è sbarcato negli Stati Uniti che era un ragazzo, ed è cittadino americano. Il suo saggio: Il blocco sovietico: unità e conflitti è considerato fondamentale. Mi ha ricevuto nello studio, tappezzato di carte geografiche dell'Urss e di ritratti dei più influenti capi del Cremlino; malinconici fiori di plastica cercano di allietare i silenziosi corridoi. Negli scaffali, volumi in tutte le lingue sull'altra parte del mondo. Il giovane prof. Brzezinski sostiene con calore la parte di avvocato del governo: ha partecipato a tre dibattiti alla tv, e ad uno assistevano tremila persone; in un altro aveva, come diretto avversario, Hans J. Morgenthau, più volte consigliere speciale del Dipartimento di Stato e di quello della Difesa, e insegnante di storia e di scienze politiche all'Università di Chicago. «La nostra presenza nel Vietnam, dice Morgenthau, è stata dettata, in un certo senso, dalla necessità di mantenere buone relazioni pubbliche: temiamo che il nostro prestigio sarebbe compromesso se dovessimo ritirarci da una posizione insostenibile. C'è da chiedersi, però, se abbiamo guadagnato in considerazione facendoci coinvolgere in una guerra civile sulla terraferma asiatica senza essere capaci di vincerla». «Il Vietnam, mi ha detto Brzezinski, non è un problema locale, ma internazionale, e per gli Stati Uniti, per la Russia e per la Cina, la posta è molto importan- te. Come nel 1962, il tempo di Cuba, bisogna dimostrare che con la violenza non si possono ottenere cambiamenti politici o sociali. Lei dice che la maggioranza degli intellettuali non è con Johnson. CI sono due punti da chiarire. Primo: è Impressionante scoprire come questi oppositori abbiano poche alternative da proporre. Cosa significa, realisticamente, ritirarsi con onore? Secondo: gli avversari di Johnson sono, in genere, cultori di studi umanistici o scientifici, materie che hanno ben poca attinenza coi problemi della politica. Il loro distacco dall'opinione pubblica è considerevole; soltanto Kennedy aveva annullato questa frattura, che è tradizionale, e c'era già con Elsenhower, e c'è ancora con Johnson. Settanta cittadini su cento stanno, in ogni caso, dalla parte del presidente. La sua popolarità è, in assoluto, molto forte». Sono andato a cercare, a Provencetown, un posto sull'Atlantico, pieno di vento che smuove la sabbia delle dune, Norman Mailer, lo scrittore che, con II nudo e il morto, a 25 anni, diventò famoso. Mailer è uno dei personaggi più vivi e discussi della letteratura americana, ed è carico di esperienze umane: molte mogli, molto whisky, anche un po' di prigione. E' un tipo che vive e si batte duramente. «Il Vietnam è quasi un disastro, mi ha detto. Non credo che provocherà un conflitto atomico, ma è una faccenda triste, molto triste, e questa tensione può continuare, può reggersi solo sfruttando la fibra morale degli americani. L'onore per noi è sempre stato un fatto importante, anche se non siamo stati sempre degni di onore. E' una guerra brutta. Non sono un pacifista; ammetto che, per una nazione, ci siano guerre quasi logiche, quasi organiche, nel senso che un paese, se non le combatte, non può svilupparsi; ma questa è una guerra pazza, che mette in gioco la capacità di ragionare e di sentire dell'America, e mette in moto una forma di governo che si avvicina al totalitarismo. Io sono contro Johnson, perché ha assecondato il Pentagono, e anche un presidente mediocre come Truman aveva saputo opporsi ai militari. E' una politica non stupida, ma cattiva, perché Johnson è intelligente ». Norman Mailer può rappresentare un atteggiamento estremista, una ribellione quasi anarchica. Ma Joseph Alsop è, con Lippmann, il commentatore politico più seguito; un temperamento distaccato, urta mentalità razionale. Mi ha accolto nella sua bella casa di Washington, nel riservato quartiere dì Georgetown, sotto una veranda, nelle vecchie gabbie di ottone tubavano colombe | e tortorelle, la conversatio- ne era rotta dallo sgocciola?re di una fontanella, e le parole di Alsop erano lente, serene. «Una situazione pericolosa, molto pericolosa, diceva Alsop. Johnson ha deciso di non accettare una sconfitta. Noi non vogliamo distruggere il Nord Vietnam, vogliamo solo che lasci in pace il Sud. Pino ad ora la politica di Johnson è stata appoggiata moltissimo. Ha dalla sua 92 senatori, solo otto si sono opposti, ed è il Congresso che rispecchia l'opinione pubblica. Io stesso mi stupisco dì questo largo consenso, e credo sia un segno della maturità del paese ». E' voce assai diffusa che i rapporti tra i Kennedy e Johnson non siano così cordiali come appaiono agli occhi dei fotografi o nelle misurate dichiarazioni ufficiali. Robert Kennedy mi ha ricevuto nel suo ufficio al Senato; era in maniche di camicia, circondato da segretarie e da collaboratori, la gente premeva nella stanza d'attesa. «E' una situazione molto complicata, e non credo diventerà più facile, mi ha detto. Gli Usa non vogliono rimanere nel Vietnam un minuto più del necessario, ma credo che non possiamo disertare in questo momento di crisi. I comunisti devono capire che gli Stati Uniti rimarranno finché la gente di laggiù ci chiederà protezione ed aiuto. Se abbandoniamo il Viet, dovremo lasciare anche Berlino. Certo, molti americani moriranno, ed è doloroso, ma abbiamo una parte da sostenere, e dobbiamo essere pronti ad accettare 1 sacrifici che comporta ». Leggo sul New York Post una lettera dal Vietnam. E' di un «marine» che sta per compiere vent'anni. Scrive alla madre. E' la prima volta che dovrà festeggiare il compleanno lontano da casa. E' cresciuto in una cittadina di provincia, si conoscono tutti, la campagna è seminata di casette di legno, ci sono grandi boschi dalle foglie rosse, di questa stagione le more dei gelsi sono mature; ma il ragazzo è ora nella giungla, dove tutto marcisce nella pioggia, dice die ha paura: quando era in famiglia, racconta, la notte sentiva la civetta, e gli metteva addosso lo sgomento. Parla di torte di formaggio, di partite di baseball, chiede come va la squadra, e vuol sapere che fa una certa Mary. Dice: «Mamma, vorrei essere a casa almeno per il tuo onomastico, fra dieci giorni, ma non è possibile. Ciao ». Sotto la lettera c'è una nota in corsivo: «Il giorno del suo onomastico la signora Rose Becker ha ricevuto una comunicazione che le annunciava che il marine David T. Becker è morto combattendo». EnzoBiagi Robert Kennedy, fratello dello scomparso Presidente americano, fotografato con la moglie a New York (Tel.)