Perché Fidel Castro «giacobino» anarchico ha trasformato Cuba in paese comunista? di Giovanni Giovannini

Perché Fidel Castro «giacobino» anarchico ha trasformato Cuba in paese comunista? Contraddizioni e paradossi nel «satellite russo» delle Antille Perché Fidel Castro «giacobino» anarchico ha trasformato Cuba in paese comunista? Da tre anni dichiara: "Sono marxista-leninista e lo resterò fino alla morte" - Ha nazionalizzato quasi tutta la terra e tutte le imprese industriali 0 commerciali; vive degli aiuti sovietici - Ma esprime idee che sgomentano i marxisti e cerca di tenere lontani dal potere i comunisti cubani: Che Guevara è "scomparso" da tempo - E' probabile che il rancore contro gli Stati Uniti ed una febbrile, caotica impazienza abbiano portato Castro molto al di là delle prime intenzioni riformatrici (Dal nostro inviato speciale) L'Avana, 15 luglio. « Sono un marxista-leninista e lo rimarrì Ano alla morte»; a tre anni e mezzo dall'improvvisa, clamorosa confessione di fede di Castro, Cuba appare coerentemente oggi un paese di perfetta osservanza e struttura comunista. Non soltanto, come si è visto, l'aiuto esterno del mo,ido sovietico è di vitale importanza per la sopravvivenza del regime, ma all'interno tutto ormai appartiene allo Stato: le campagne (salvo modeste eccezioni), le industrie, le imprese commerciali e di ogni genere. Non era questa la Cuba che Castro aveva sognato nei lunghi anni della cospirazione e delta lotta aperta contro Batista, nei primi tempi dopo la conquista del potere nel gennaio 1959. Contro lui ed il suo gruppo di « avventurieri borghesi », i comunisti avevano successivamente mostrato disprezzo, ostilità, indifferenza, fino al momento in cui la vittoria del movimento era apparsa possibile, probabile, certa, e nel quale avevano provveduto ad allinearsi d'urgenza. La riforma agraria del 1959, prima battaglia del nuovo regime, non è certo estremista: vengono nazionalizzate le proprietà superiori ai quattrocento ettari (ridotti solo recentemente a sessantacinque) contro un indennizzo in buoni ventennali al 4,5 %. Anche se le piantagioni di canna da zucchero devono necessariamente essere molto estese, anche se nell'esecuzione della legge non manca né l'abuso né la confusione, nessuno può contestare l'opportunità e la moderatezza del provvedimento (prima J'8% della popolazione possedeva il 71 7o della terra). Il 1960, poi, è l'anno di quella lotta a fondo contro l'analfabetismo, che costituisce il massimo titolo di merito del regime castrista. Contemporaneamente però peggiorano fino alla rottura i rapporti con gli Stati Uniti. Di questa vicenda — in cui il torto e la ragione si mescolano da una parte e dall'altra — mi limiterò a ricordare due date. Nel luglio del '60, Bisenltower decide di dare una. prima lezione a Castro riducendo di settecentomila tonnellate le importazioni americane di zucchero cubano, e subito Kruscev si fa avanti a comprarle lui. Nell'aprile del '61 fallisce clamorosamente il disgraziato tentativo di sbarco nella Baia dei Maiali. Il solco con gli Stati Uniti diventa incolmabile, arrivano i missili sovietici che l'anno dopo provocheranno la drammatica crisi d'ottobre. All'interno, nel periodo fra le due date, i vecchi comunisti di stretta osservanza moscovita s'impongono sempre più nel controllo del Paese ai castristi, con i quali militano nello stesso « Partito unico della rivoluzione socialista ». E' il momento di Anibal Escalante, della nazionalizzazione generalizzata, del mito sovrano dell'industrializzazione; ed al tempo stesso della mano di ferro, degli arresti, delle fucilazioni. Non sono solo i gusanos (vermi) a fuggire in massa, sono anche molti seguaci del Capo ad essere messi da parte. Castro tace, la gente si interroga perplessa: il sipario è calato per sempre sull'isola favolosa t Improvvisamente, rumorosamente alla sua maniera, Eidei balza di nuovo alla ribalta nella primavera del '62 con un violento, pubblico attacco contro Escalante ed i comunisti che accusa di « settarismo implacabile, infaticabile, sistematico a tutti i livelli», di /acoritismi per « i pappagalli capaci soltanto di recitare a memoria il catechismo marxista », di persecusioni e di « arresti per capriccio». Escalante ed altri vengono imbarcati su un aereo per Mosca; pochi giorni dopo li segue alla chetichella e per sempre l'ambasciatore russo (sostituito dall'attuale, Alexeiev, gradito a Castro). Da allora, a Cuba, l'etichetta di partito non basta più a coprire nessuno. Per limitarmi agli ultimi due casi, nel dicembre scorso, il ministro del Lavoro, Augusto Martinez Sanchez, viene destituito « per gravi errori amministrativi* e tenta inutilmente il suioidio. Nel novembre, uno dei magoiori esponenti comunisti, Jo iquin Ordoqui, sottosegretario alle Forze armate e membro della direzione nazionale del Purs, viene non solo cacciato dalla carica ma messo in galera: si attende il processo per conoscere i motivi, che sembra vadano ricercati nelle collusioni di un tempo tra il partito dell'arrestato ed il regime di Batista, ai danni del movimento di Castro. Il consenso popolare per questa linea è tanto che Fidei stesso deve preoccuparsi — per evidenti mottui, dati i suoi rapporti con l'Unione Sovietica —, di frenarlo con appelli a non sopravvalutare i contrasti, con evviva all'unità, delle forze rivoluzionarie. Sta di fatto che da tre anni a questa parte i comunisti hanno perso sempre più terreno nei confronti dei castristi: Lazaro Pena controlla ancora i sindacati, ma mi viene unanimemente descritto co¬ me l'uomo più impopolare di Cuba; Blas Roca dirige ancora il giornale Hoy ma è stato, a più riprese, violentemente criticato da Castro stesso per le sue manie di polemica contro il cinema e l'arte borghese; Carlos Rafael Rodriguez è sempre a galla, ma non è più alla testa della riforma agraria; Ordoqui, come si è detto, è in prigione. Più estremista puro che comunista, il « numero tre » del regime, il celebre Che Guevara è scomparso da mesi: « Si farà vivo quando gli sembrerà opportuno», ha detto in questi giorni Fidel in un discorso, tra grandi risate, alle spalle degli osservatori occidentali. C'è chi parla di un contrasto ideologico tra Che, propugnatore di piani, centralizzazione, industrializzazione, e Fidel, convinto — come dimostra con i fatti — di maggiore elasticità, autonomia, sviluppo dell'agricoltura. C'è chi dice che Guevara, argentino di nascita, cubano d'adozione, rivoluzionario di professione, si sia semplicemente stancato di fare il ministro dell'Industria e sia corso a dar man forte a qualche movimento partigiano in Guatemala o in Colombia o chissà dove Resta l'uomo più importante, il « numero due » del regime, il capo dell'esercito: Raul Castro, il « fratellino » di quattro anni più giovane di Fidel (che compirà trentanove anni il 13 agosto prossimo). Dicono tutti che comunista lo sia stato un tempo e lo sia rimasto'oggi nell'anima; ma aggiungono subito che, in ogni caso, prima di ogni altra cosa è fidelista, e che in caso di contrasto non esiterebbe un attimo a schierarsi col capofamiglia. E come Raul si comporterebbe l'assoluta maggioranza dei cubani. Poiché sulla scena dell'isola appaiono emissari di paesi lontani e comunisti locali e gusanos, vermi reazionari, gente indifferente e masse appassionate, ma il primo attore, il dominatore è lui, Fidel: col suo primo, antico amore tradito per l'Occidente, col suo marxismo-leninismo di ohi è troppo impaziente (l'ha ammesso lui) per leggere tutto II capitale, col suo osti¬ le furore contro gli imperialisti vicini, col suo abbraccio appassionato e diffidente ai nuovi amici lontani. Tra una enunciazione e l'altra di marxismo, ha di recente sbalordito l'uditorio con un appello che ricordava quello dei tempi della lotta per un umanesimo né capitalista né comunista: «Vogliamo creare una democrazia ateniese con un popolo spartano senza schiavi né iloti ». A differenza degli sciocchi sostenitori ufficiali di un idillio perfetto, Castro soffre per la dipendenza di fatto dal mondo comunista, cerca di respingerla sul piano ideologico, di attenuarla su quello economico. Ha detto recentemente tra gli applausi frenetici della folla: «A coloro che ci chiedono in che modo dobbiamo pensare, rispondiamo senza esitazione che non abbiamo bisogno di prendere a prestito il cervello, la testa, il coraggio, lo spirito rivoluzionario, l'eroismo, l'intelligenza degli altri ». E ancora: « Noi non avremo il diritto di chiamarci perfetti rivoluzionari fino a quando tutti i rivoluzionari di questo Paese non saranno convinti che noi possiamo affrontare ogni problema e trionfare con la volontà e con lo spirito di questo popolo, con queste sole risorse, senza far ricorso a nient'altro ». Il discorso è chiaro, il movente è apprezzabile ma l'obbiettivo è lontano, problematico. La volontà e lo spirito non bastano. Col solco invalicabile che la divide (non per colpa certo di Castro soltanto) dal suo continente americano, Cuba dipende in tutto e per tutto dal mondo comunista. Fidel può tuonare, premere, anche imporsi qualche volta su punti minori; ma la realtà è quella che è: il suo margine di movimento e d'azione è solo quello che l'Unione Sovietica giudica opportuno consentirgli. Senza negare i progressi compiuti, come vedremo, dall'isola negli ultimi anni, è assurdo pretendere, come sostiene Castro, che Cuba possa e debba « servire d'esempio a tutti i piccoli paesi del mondo intero ». Giovanni Giovannini