La montagna più alta d'Europa vinta con un 'opera di pura bellezza di Paolo Monelli

La montagna più alta d'Europa vinta con un 'opera di pura bellezza I SUOI FIANCHI APERTI DOPO 250 r La montagna più alta d'Europa vinta con un 'opera di pura bellezza (Dal nostro inviato speciale) Courmayeur, 15 luglio. « Qui, disse il mio accompagnatore arrestando la vettura, starno sotto la linea di cresta che segna il confine fra la Francia e l'Italia. Abbiamo sul capo il ghiacciaio del Gigante e la quota 331S, fra il Moni Maudit e il Dente del Gigante ». E allora per la prima volta da quando ero entrato nella galleria fui richiamato alla realtà. Fino a quel momento ero stato tutto preso dall'opera gigantesca; consideravo con ammirazione il profilo dei fianchi e della vòlta, di una bellezza matematica esatta; e mi piaceva che non ne avessero fatto una cosa lucida come altre gallerie, che non l'avessero per esempio rivestita di piastrelle di maiolica bianca che suscitano sempre l'idea di una latrina sia pure sterilizzata: il cemento che la riveste è nudo, nerastro, con macchie nere e bigie qua e là e segni di riferimento scritti col gesso. E m'incantava la luce tranquilla, senz'ombre, prodotta da due ininterrotte file di tubi fluorescenti; una luce che sembrava ugualmente diffusa da una misteriosa fonte naturale. E badavo al regolare succedersi, ogni cento metri, di nicchie lungo i marciapiedi per rifugio di eventuali appiedati, ed ogni trecento metri, di ricoveri per autocarri o carri di attrezzi; e, ad intervalli regolari, delle bocchette per l'aria e di segnali che si accenderanno automaticamente davanti alla vettura che oltrepassi il massimo di velocità di 70 all'ora, o scenda sotto il minimo di 50, per ammonirla a mettersi in regola (mentre l'infrazione è segnalata alla stazione dirigente). Ed assumeva una serietà scientifica ai miei occhi l'umile lavoro degli uomini che finivano di tracciare la doppia riga bianca della mezzeria. Le parole del mio accompagnatore mi fecero tornare a mente dov'ero: nel grembo della più alta montagna d'Europa, nella sua parte più segreta, strati irrequieti di scisti calcarei e di materiali incoerenti e compatto granito, una compagine profonda più di duemila metri, percorsa da assidui torrenti di acque spremute dai ghiacciai soprastanti (per cui i tecnici che avevano previsto, secondo note leggi termiche, che quando lo scavo fosse giunto là dove lo strato solido è più alto, la temperatura sarebbe salita fino a 40, 45 gradi, ebbero la sorpresa di trovare che la temperatura invece si abbassava, fino a 24, fino a 12 gradi, per via di quella circolazione di acque gelide). L'altro giorno, a proposito delle gallerie che traforano le Alpi, ho parlato di topo nel formaggio; ma conviene alla mia condizione un paragone molto più modesto. Sono ora, a perpendicolo sotto la quota 3375, come il verme nella mela; ma più avventurato del verme che ignora (o così pensiamo) che lontano lontano, oltre la materia in cui scava, c'è la buccia lucida di un globo rosso o giallo avvolto dalla luce e dall'universo degli uomini, mi torna a mente, e ne ho un senso tangibile, la superficie immensa e varia del monte, con gli irrequieti ghiacciai irti e crepacciati, le guglie scarnite, le dure pieghe delle pareti nere coronate dal ghiaccio delle vette, tutto quel mondo solitario che percorsi in altri tempi, quando mi pareva di penetrarne l'epidermide ficcando gli occhi nella profondità turchina di un crepaccio. Ma solo in questo nostro tempo, dopo secoli di esplorazioni su una sola dimensione, l'uomo ha imparato a scendere nell'imo della montagna. I minatori che azzannavano la roccia con il «Jumbo» (come chiamano il grosso carrello a quattro piani, con ad ogni ripiano una serie di martelli perforatori) hanno per la prima volta violato il corpo vivo del monte, da quando emerse da un mare di ghiacci duecentocinquantamilioni di anni fa, nell'epoca paleozoica. E la montagna reagì all'offesa mai prima subita, inondando la galleria con polle potenti e violente, con torrenti di acqua di ghiacciaio. Poi fece più volte rovinare addosso alla macchina che l'aggrediva improvvise frane traverso la vòlta sfondata, sì che si dovette procedere scavando un angusto cunicolo con strumenti a mano. E quando s'imparò a superare anche questi ostacoli con paziente tenacia (dopo una di queste frane ci vollero cinquantanove giorni per sgomberare un tratto di galleria di quarantasette metri), ecco la montagna difendersi con un nuovo misterioso fenomeno; improvvise repentine esplosioni che staccavano dalla vòlta o dalla fronte rocciosa enormi pezzi o lastre di roccia, sì che fu necessario fissare con bulloni gli strati vacillanti, e rivestire la vòlta di una robusta rete metallica. Nel linguaggio corrente quando si parla di una montagna conquistata, non ci si riferisce soltanto all'impresa di chi la scalò per primo, ad un Whymper o ad un Carrel, o allo scienziato Gabriel Passard e al portatore Jacques Balmat che giunsero per primi sulla vetta del Monte Bianco l'anno 1786, senza corda e senza piccozza; ma chiunque ponga il piede su una vetta ardua, sia anche dopo mille che lo hanno preceduto, si atteggia a conquistatore. Ora, considerando questa vòlta di cemento che regge a contatto diretto, come Atlante, la montagna che la sovrasta, mi pare che solo in questo caso si possa parlare di conquista-, una conquista vera e definitiva. I salitori di un monte, sia anche il più arduo e il più celebre, sono conquistatori estemporanei, le loro tracce sono cancellate ad ogni stagione, basta una bufera a distruggere sulla vetta la piramide di pietre costruita dai primi scalatori, o la croce di ferro. Ma la galleria è reale presa di possesso, saldo e duraturo; con la sua temperatura costante, con un'atmosfera incontaminata grazie al lavoro assiduo di docili macchine, la bufera non vi ha presa, il monte non ci ha potere. Ne ho avuto il senso oggi, che il Monte Bianco crucciato evidentemente dalla cerimonia di domani, fin dall'alba si è celato dietro dense nuvole giù giù fino ai più bassi pascoli; e nel pomeriggio ha espresso dai suoi recessi un furioso temporale, lampi e saette e scrosci di pioggia; e un nero crepuscolo si è disteso anzitempo sulla valle e sul paese. Nel più forte della tempesta ero sul piazzale antistante alla galleria, nel fischio del vento, nel rombo delle nuvole; e l'ingresso della galleria illuminato sfarzosamente mi è apparso proprio come l'accesso ad un paradiso calmo e voluttuoso, a cui nemmeno il vento osa affacciarsi. Non solo la galleria ha definitivamente domata la montagna; ma una volta compiuta e perfetta la mette da parte, la ignora per sempre. E della sua celebre bellezza farà una cosa astratta, riservata ai pochi che vorranno ancora scomodarsi ad andarsela a vedere da vicino, a piedi, con impegno e con, fatica. (Perché per chi vi sale in automobile per le ardite strade che ne intagliano i fianchi fino ad una certa altezza, o vi trasvola sopra in funivia, è soltanto labile spettacolo). Una grande quantità di viaggiatori, destinata a crescere con gli anni, specie quando sarà compiuta l'autostrada da Torino ad Aosta, passerà dalla Pianura Padana alla Francia accorgendosi appena dell'esistenza delle Alpi che sono state fino ad ora così ingombrante barriera. Giunti quei viaggiatori all'in¬ gresso della galleria, dopo centinaia di chilometri in autostrada (viaggiando sulla quale, si sa, non si levano gli occhi dalla pista o dall'automobile che precede), non avranno forse nemmeno il tempo o la curiosità di considerare il pendio sovrastante, sparso di giovani abeti, e il monte dietro erto e grigio con solchi di neve. E per tutto il quarto d'ora del percorso sotterraneo non avranno altro sentimento che l'impazienza di esserne fuori, e l'insofferenza di dover marciare a non più di settanta all'ora, e tenere la distanza di cento metri dall'automobile che precede. Paolo Monelli

Persone citate: Carrel, Jacques Balmat, Whymper

Luoghi citati: Aosta, Courmayeur, Europa, Francia, Italia, Torino