Gli americani per vincere nel Vietnam devono scendere anch'essi in battaglia di Francesco Rosso

Gli americani per vincere nel Vietnam devono scendere anch'essi in battaglia Perché Johnson autorizza l'impiego dei «marines» al fronte Gli americani per vincere nel Vietnam devono scendere anch'essi in battaglia L'intervento diretto dei cinquantamila soldati Usa può essere importante sotto l'aspetto militare, ma avrebbe soprattutto un grande risultato psicologico - I vietnamiti sono in guerra da vent'anni; hanno molte ragioni per essere malcontenti - Li scoraggia vedere i forti alleati restare chiusi nelle loro basi inespugnabili, circondati da ogni comfort - Per schiacciare la guerriglia, tuttavia, occorre che anche i generali nazionalisti cambino tattica: ora guardano all'esercito anzitutto come ad uno strumento per colpi di Stato (Dal nostro inviato speciale) Saigon, giugno. €La battaglia decisiva contro il comunismo dobbiamo vincerla qui, nel Vietnam. Se abbandonassimo questo paese, l'Asia intera cadrebbe sotto l'influenza di Pechino, il Pacifico diverrebbe un oceano cinese e il comunismo di Mao Tse-tung dilagherebbe anche nell'America Latina». Il diplomatico americano con cui discorro non esprime concetti nuovi, con parole diverse ripete ciò che disse McNamara due mesi or sono; ma ripeterle oggi può significare che gli americani, contrariamente a certe voci che corrono, sono determinati a difendere il Viet¬ nam del Sud fino alle estreme conseguenze. Fino a bombardare la Cina se intervenisse apertamente? — domando. Il diplomatico allarga le braccia in un gesto vago. Trascuriamo l'interrogativo angosciante (che accadrebbe se i razzi «Polaris » della Settima Flotta atomica cadessero su Pechino? Che farebbe la Russia?), e limitiamo l'indagine a questa singolare guerra civile vietnamita. Difendere il Sud Vietnam dall'aggressione comunista, e va bene, ma in quale misura? Gli americani, fino a questo momento, hanno portato qui cinquantamila fra marines, paracadutisti, consiglie- ri militari ed altri specialisti, destinati a crescere nei prossimi giorni. Tutto qui? No, c'è l'altro aspetto militare americano, cui siamo abituati da tempo; aerei e chewing gum, cannoni e frigoriferi, autoblindo e cantanti di varietà, cioè quella complessa organizzazione che vuol dare ai soldati in guerra un comfort soddisfacente. E' un aspetto positivo dell'organizzazione militare americana, non vi è dubbio, ma diventa causa di invidia, diffidenza, antipatia per le truppe vietnamite; abbondanza epulonica e frugalità più che spartana a contatto di gomito finiscono per creare dissapori. I vietnamiti, si dice, non combattono come gli americani vorrebbero; una delle ragioni, anche se la più modesta, può esser proprio quella disparità di comfort bellico. Poi c'è U resto, cioè le divergenti opinioni di condurre la guerra. Come ho detto, gli americani hanno qui circa 50.000 uomini sistemati in quattro grandi basi, Da Nang, Pleiku, Bien Hoa, Cap St. Jacques, e si limitano — per oro — a montare la guardia all'imponente materiale bellico che hanno ammassato. La guerra vera, le marce sfibranti nella giungla e negli acquitrini delle risaie a caccia di guerriglieri, non l'hanno ancora fiutata. Questa guerra, sinora, l'hanno fatta i vietnamiti, gente stanca di combattere un nemico anguilla, che un momento è qui e tre secondi dopo è alle spalle, trappole mobili sempre in azione. Ecco un punto da chiarire: marines e paracadutisti americani sono disposti a uscire dalle loro fortezze, a sfidare anch'essi serpenti, zanzare, sanguisughe, colera, peste nelle risaie e nella giungla? Il nocciolo della questione stava in. questo interrogativo; ed il governo di Washington lo ha capito: il presidente Johnson ha autorizzato i comandi locali ad impegnare i marines in azioni, se le autorità di Saigon richiederanno che l'intero peso del contatto diretto col nemico non sia sostenuto dai soli nazionalisti vietnamiti. Questo non per sfiducia nelle truppe nazionaliste, che hanno dimostrato sempre coraggio eccezionale, ma per la cancrena generata dai vent'anni di guerra combattuta contro giapponesi, francesi e comunisti. Questi piccoli soldati vietnamiti, per un'infinità di ragioni, non hanno più gran voglia di combattere. Ragione importante; il nemico, cioè il Vietcong comunista, è composto di gente come loro, parla la stessa lingua, abita nelle stesse capanne su palafitte, mangia riso, pesce secco e alghe come loro. Il nazionalista e il guerrigliero che si sparano nel ventre, o nella schiena, possono essere stati amici, avere vissuto nello stesso villaggio, avere sguazzato, bambini, nelle stesse pozzanghere. Il guerrigliero, nella sua disperata battaglia nella giungla, è sorretto da una ideologia, sbagliatissima se vogliamo, che lo galvanizza. Il nazionalista combatte per principi per lui piuttosto vaghi; democrazia parlamentare, libertà religiosa, di opinione, dignità dell'uomo sono idee che hanno scarso smercio in Asia. Inoltre, è lentamente corroso nei suoi princìpi, già poco saldi, dalla sottile propaganda comunista. « Tu combatti (gli dicono) per i tuoi feudatari e per gli stranieri; finirai schiacciato dai tuoi governanti corrotti e dagli americani, venuti a sostituire i francesi che tuo padre ha scacciato ». Il soldatino vietnamita potrebbe anche non credere a quanto dicono la radio nemica e il propagandista spicciolo, ma poi ascolta uomini importanti della sua parte, come il gen. Ky, comandante in capo dell'aviazione vietnamita, il quale proclama a tutta voce: «Via i corrotti dal governo; noi non li uccidiamo, come fanno i comunisti, vadano all'estero a godersi il denaro rubato, ma se ne vadano ». Dunque i corrotti ci sono, pensa il soldatino, lo ha detto il mio generale, e ci sono anche i feudatari che impediscono la riforma agraria sempre promessa. Dopo un simile ragionamento non ha più voglia di lottare e si verificano quei singolari combattimenti in cui venti guerriglieri sbaragliano una compagnia prendendole buona parte delle armi e munizioni, catturando un numero incredibile di prigionieri. Ciò accade anche perché i nazionalisti, pur avendo già snellito le loro strutture, adottano ancora i sistemi della guerra convenzionale, e dove un plotone avrebbe successo contro le anguille dei guerriglieri, mandano una compagnia che s'impantana con la pesantezza dell'armamento, diventando un bersaglio facilissimo per gli avversari onnipresenti. Gli americani hanno tentato di far capire ai comandanti vietnamiti che è indispensabile adottare una condotta di guerra più. agile, affrontare i guerriglieri con la loro stessa tecnica dell'attacco repentino e di sorpresa, ma gli alti generali vietnamiti fanno i sordi, e non perché non capiscano. Non vogliono smembrare le loro divisioni dando autonomia a piccoli reparti, perché non avrebbero più il controllo sicuro di truppe che gli servono anche nella lotta contro il comunismo, ma sono soprattutto forze di manovra nella lotta politica: per rovesciare un governo e farne un altro. Ci si rende così conto, pensando alla sproporzione delle forze, delle cause che consentono ai guerriglieri non soltanto di sopravvivere, ma di avere costantemente l'iniziativa. Fatto un conto approssimativo, i comunisti mettono insieme circa centottanta mila guerriglieri armati di bombe a mano, fucili, pistole, mortai e cannoni di piccolo calibro. Da quest'altra parte, le forze armate nazionaliste hanno oltre mezzo milione di uomini nelle varie armi con la co¬ pertura di un'aviazione onnipotente, mezzi ed armi tra le più moderne fornite dagli americani, l'appoggio della Settima Flotta. Se finora, oltre a non vincere, hanno subito mortificanti insuccessi, vuol dire che qualche cosa non funziona. Una delle cause è la situazione politica interna, la congenita incapacità a formare un governo stabile, l'ingerenza dei generali nelle manovre politiche, la sfiducia che ha demoralizzato il paese investito da ricorrenti crisi di governo, le promesse mai mantenute di una reale giustizia sociale. Gli effetti della situazione politica, sempre più compromessa, si fanno sentire nelle file dell'esercito, dove le manovre delle alte gerarchie, per giungere a negoziati coi guerriglieri a dispetto degli americani, appariscono sempre più marcate. Perché dovremmo combattere se domani faremo la pace coi nostri avversari?, dicono i soldati. Per indurli a lottare, bisognerebbe ridargli fiducia, non con le rarefatte teorie sulla democrazia dibattute dagli specialisti della guerra psicologica, ma con esempi concreti di onestà politica e amministrativa. Far muovere i loro marines e paracadutisti dalle basi confortevoli in cui sono trincerati, è un gesto che può scuotere i vietnamiti. Però i cinquantamila presenti non bastano; per avere pieno successo gli Stati Uniti dovrebbero mandare almeno duecentomila uomini. L'opinione pubblica americana è disposta a simile sacrificio? La battaglia contro il comunismo si vince nel Vietnam, dicono; ma pare che non tutti gli americani siano convinti dell'esattezza di questo imperativo. Francesco Rosso

Persone citate: Johnson, Mao