Quanto guadagna un operaio europeo di Alberto Ronchey

Quanto guadagna un operaio europeo IL AAEC A MEZZA STRADA FRA L'AMERICA OPULENTA E LA RUSSIA AUSTERA Quanto guadagna un operaio europeo Gli squilibri regionali sono più forti che le differenze nazionali - L'Italia offre il massimo di contrasti, la Germania è il paese più omogeneo; ma anche in Francia i salari di Parigi sono il doppio delle paghe nel Limousin - Due milioni di salariati francesi sono considerati "poveri" (sotto le 60 mila lire al mese); i meglio pagati sono i petrolchimici, chimici e tipografi - Nelle fabbriche Renault i guadagni vanno da 87 a 157 mila lire mensili per 48 ore settimanali; contributi e varie misure assistenziali costano all'azienda un onere aggiunto del 60 per cento - La Francia, come l'Italia, non ha interamente risolto i problemi della stabilità dei prezzi e dell'equilibrato aumento di investimenti, salari, consumi E' questo il primo articolo ili un'inchiesta, che Alberto Ronchey sta condueendo nei piii importanti paesi dell'Europa occidentale, ' sul guadagni e sul tenore di vita di operai e impiegati nell'area del Mercato Comune, sul costo della manodopera (salari e stipendi, contributi, oneri per la previdenza) nelle diverse economie nazionali. L'inchiesta è stata Iniziata in Francia, dove i problemi economici, finanziari e sociali hanno particolari somiglianze con quelli italiani. (Dal nostro Inviato speciale) Parigi, giugno. Si fa presto a dire salario. Ma oggi a New York il salario è un sistema d'equazioni, a Parigi un minuzioso compromesso, a Mosca un diktat dello Stato, a Pechino è la quota egualitaria d'un fondo di sussistenza biologica, da Calcutta al Cairo un privilegio. I coolies cinesi lavorano 12 ore al giorno per la razione di riso e la tuta blu: è già uno status rispetto al < Medio Evo superpopolato » dell'India pre-salariale. Il proletariato sovietico applaude la legge che dal 1' maggio ha esteso il salario minimo legale di 45 rubli al mese (31 mila lire) a milioni di operai. Nello stesso momento i sindacati americani chiedono che la tariffa minima di 1 dollaro e 25 centesimi l'ora (781 lire) raggiunga 2 dollari l'ora (1250 lire); i siderurgici di Pittsburgh superano 3 dollari e 70 centesimi l'ora, già integrati da un 65 per cento di fringe benefits (salario indiretto), mentre i trentamila elettrici di Neio York hanno ottenuto salari che consentono la. settimana lavorativa di 2,5 ore. Il nome è sempre salario, ma comprende mondi remoti fra loro, secondo i periodi della storia economica. In Europa, dove nacque, il salario apparve appena una miglioria contrattuale dell'antica servitù nei foschi opifici dickensiani e nelle ferriere delle 12 o 14 ore di lavoro al giorno. Ma già durante il diciannovesimo secolo il salario reale europeo aumentò di tre o quattro volte, come Bowley ha dimostrato. Oggi, in Europa, il livello di vita raddoppia in una generazione: è la valutazione di Pierre Masse, manager della pianificazione francese. Quando l'economia ha raggiunto lo stadio della produzione di massa al ritmo degl'interessi composti, s'inizia una nuova età salariale. Engels e Marx studiarono i salari francesi dal 1848 a Sedan e quelli di Manchester negli anni dell'accumulazione spietata. Ne tramandarono un dagherrotipo, che voleva rappresentare una legge costante; ma era solo l'immagine dell'industria primitiva «nata col dolore» dal ceto operaio. Oggi, nella geografia dei salari industriali, l'Europa Occidentale occupa una posizione intermedia fra l'America opulenta e la Russia austera (ma sempre meno austera). Beninteso non esiste un salario europeo; è un'astrazione convenzionale, poiché l'area del Meo è multiforme dalla Renania alla Bretagna, da Parigi al Massif Central, dal Po alla Calabria. L'economia italiana è soggetta a due mali: disoccupazione e inflazione. La Germania conosce il pieno impiego e prezzi relativamente stabili. La Francia schiva dal '45 la disoccupazione, ma esce ora da una nuova crisi d'inflazione. L'economia tedesca è la più omogenea e quella italiana è travagliata dagli squilibri più radicali: anzitutto quello fra Nord e Sud. Il reddito prò capite dei tedeschi è due volte quello italiano e superiore a quello francese. In pratica, se è convenzionale immaginare un livello salariale europeo, la Francia rappresenta un medio sistema di misure (e di squilibri pure intermedi). L'ultima «fotografia dei salari » è stata elaborata proprio in questi giorni dall'Istituto di statistica francese.. L'attenzione viene attratta anzitutto da tre medie nazionali. Operai «P» («professionali»): 812 fran¬ chi al mese più le indennità (107 mila lire). Operai non qualificati: 664 franchi e indennità (88 mila lire). Manovali: 570 franchi e indennità (75 mila lire). La settimana di lavoro legale in Francia è di 40 ore, ma questi salari si riferiscono a medie generali di 45 ore. La j statistica non include gli occupati a tempo parziale o a domicilio. Tuttavia a Parigi il salario è doppio rispetto al Limousin: innumerevoli e disseminate sono le sacche di povertà della Francia. Oltre il 20 per cento dei salariati francesi è al di sotto di 500 franchi al mese. In un saggio pubblicato ora dall'editore Grasset, La France pauvre, Paul Marie de la Gorce giudica poveri i salari inferiori a 500 franchi e conclude che fra gli operai malpagati della provincia, gli apprendisti, gli occupati a domicilio o a tempo parziale e gl'immigrati clandestini delle bidonvilles afro-portoghesi come Champigny, il numero dei salariati poveri s'aggira, sui due milioni. Poveri, beninteso, rispetto ai modelli di consumo francese. La povertà è sempre relativa: per gli economisti johnsoniani comincia dai redditi familiari inferiori a tremila dollari l'anno (cioè un milione e 875 mila lire), che in America sono il 19 per cento ; ma nel Mezzogiorno italiano la povertà comincia assai più in basso dei 500 franchi al mese (780 mila lire l'anno). Se il salario di Parigi è due volte quello del Limousin, il salario di Torino o Milano è incommensurabile ai redditi lucani o calabresi. Il divario fra i livelli di vita delle « aristocrazie operaie » europee, da Parigi a Stoccarda e alle città padane, è di gran lunga minore che fra i salariati dello stesso paese. Non è solo un divario di tariffe e qualifiche: la terza generazione operaia possiede già un alloggio in proprietà, la quarta aspira al Politecnico. Il vero proletariato, il « quarto stato » dei nostri giorni, è la plebe rurale che continua a immigrare dalle campagne alle città: e continuerà finché la manodopera occupata nell'agricoltura sarà ridotta al 6 per cento americano. Un blocco tipico di ceto operaio benestante può essere considerato in Francia quello della Renault. Al caffé delJ'avenue Èmile Zola, presso i cancelli degli stabilimenti di Boulogne-Billancourt, gli operai dicono che il salario di « Chez Renault* non è il migliore (guadagnano più i petrolchimici, i chimici e i tipografi), ma ò «un buon salario ». L'operaio appena assunto (0-3-1) ottiene 750 franchi mensili, 87 mila lire. Il secondo grado (O-S-2) raggiunge 934 franchi, 121 mila lire. Seguono tre categorie di operai qualificati (P-l, P-2 e P-3) che attengono salari equivalenti a 136 mila, 157 mila e 179 mila lire. La settimana lavorativa è di 48 ore, l'indennità per i trasporti è di 16 franchi. Il contratto prevede un aumento salariale minimo del 4 per cento ogni anno e inoltre la Regie Renault ha finanziato la . costruzione di 10 mila alloggi, distribuii} fra i suoi 60 mila dipendenti. I contributi previdenziali e i costi indiretti o differiti impongono alla Règie un onere aggiunto del 60 per cento. Sono meno elevati i salari della siderurgia, delle fa¬ dustrie alimentari e soprattutto dei tessili. Fra gli edili, un operaio specializzato nelle costruzioni prefabbricate è in cima alla scala salariale e supera le tariffe della chimica o della meccanica, mentre il manovale è fermo al gradino più bas- j so. Ma la pressione sinda- cale è agguerrita in ogtii settore. Il nuovo sottoproletariato dell'industria usa la forza contrattuale che deriva dal pieno impiego. Le aristocrazie operaie, dotate di forza anche miggiore, versano in uno stato di «soddisfazione litigiosa », come ha osservato Raymond Aron in La lutte des classes. Da una parte l'ansia della conquista, dall'altra l'abitudine alla conquista. I salari aumentano, ma il problema è garantire che tale ascesa sia graduale, proporzionata al tasso di aumento della produttività e non aritmica. Dopo il 1960 l'ascesa è stata del 10 per cento l'anno; s'è ridotta solo nel '61, al 7 per cento, ma superando ancora di gran lunga i progressi della produttività. L'effetto è stato una crisi dei prezzi, che ha imposto al -ministro delle Finanze Giscard D'Estaing un radicale « frenaggio » dello sviluppo alla maniera di Pinay 1952 e 1959. Caduti i tassi d'investimento, un milione di salariati hanno subito riduzioni di orari e di paghe, soprattutto nell'industria tessile, nella metallurgia e nei cantieri navali. Oggi i prezzi ritornano alla stabilità, ma si prevede che il 1965 sarà per la produzione francese il peggiore degli ultimi otto anni e forse del dopoguerra: il tasso d'aumento del prodotto interno lordo scenderà dal 5,7 per cento del '6!, al 2,5 per cento. In pratica, uno stopgo, un passaggio dal boom all'inflazione e alla stagnazione simile all'ultima esperienza italiana. Nel mondo occidentale, e persino in quella parte del mondo socialista piatiificato die è meno soggetta al dispotismo economico ma più vulnerabile alle crisi d'inflazione (dalla Jugoslavia alla Polonia), solo gli Stati Unite in misura minore la Germania di Bonn sembrano aver dominato il problema dello sviluppo a prezzi stabili. E il cuore del proble¬ ma, l'asse dell'equilibrio fra consumi e investimenti, al riparo delle crisi d'inflazione e delle crisi di domanda, è per l'appunto la « politica dei redditi ». Senza parlare di piani, in verità Washington pianifica assai più che l'Europa i salari, i prezzi e gli inuestimenti: con le guidelines (linee orientative) della Casa Bianca e con la politica fiscale neokeynesiana di Seller, Mossgrave e Gardner Acklcy. Il lungo boom americano, che dura da 51 mesi, è guidato con fili sottili, quasi invisibili, ma tenaci. Il primo dei vantaggi americani, m'ha detto un assistente di Giscard D'Estaing, è che i sindacati degli Stati Uniti non sono « ideologici », vengono consigliati da economisti pragmatici oltre che aggiornati. Le Unions americane sanno che il ceto operaio ottiene vantaggi decisivi dalla gradualità calcolata e successi minori dall'economia rapsodico-epilettica del capitalismo tradizionale. Ma il sindacalismo francese (anzitutto la C.G.T.) ha fama d'essere « ideologico » o avvocatesco, non ha sperimentato la sfida paurosa a i vantaggi dell'automazione travolgente, opera in una società in cui le « tesi generali » non subiscono ancora il confronto col calcolo rigoroso e tempestivo « by computer» (dei cervelli elettronici). In pratica spesso il salario corre, ma a sbalzi di velocità e tra squilibri di varia natura, con suo rischio e pericolo. Corre senza l'automatismo inflazionistico d'una « scala mobile » come quella italiana, ma con la spinta del giacobinismo applicato al consumismo. «Mettez une tigre dans votre moteur», e via. Alberto Ronchey La tedesca Juliane Herm ieri sera a Nizza mentre riceve la corona di Mtes Europa '65 dalla reginetta di bellezza olandese che aveva vinto l'anno scorso (Tel.)