Da due anni coraggiosi operai italianitolgono le mine lungo i confini dell'Algeria di Giovanni Giovannini

Da due anni coraggiosi operai italianitolgono le mine lungo i confini dell'Algeria Tutti gli altri hanno rifiutato il «salario della paura» Da due anni coraggiosi operai italianitolgono le mine lungo i confini dell'Algeria I francesi, per impedire ai ribelli di ricevere aiuti dalla Tunisia e dal Marocco, avevano costruito formidabili linee minate: su sei strisce, con i più insidiosi ordigni in plastica, per una lunghezza di 300 chilometri • Nemmeno i genieri sovietici hanno resistito in questo lavoro di « pulizia » del terreno - Lo eseguono, decisi a portarlo alla fine, i nostri sminatori - Più per orgoglio che per denaro (guadagnano 300 mila lire al mese), rischiano ogni giorno paurose mutilazioni - Dopo la fine della guerra quelle mine hanno già fatto 8000 vittime (Dal nostro inviato speciale) Algeri, maggio. Operai italiani stanno da due anni rischiar.do la vita perché nell'Algeria di oggi scompaiano le più insidiose tracce della guerra, perché gli strumenti di morte disseminati in quantità inverosimile durante i sette anni di lotta non continuino ancora a far strage di vittime innocenti. Per fermare i rifornimenti di uomini e di mezzi che dai vicini paesi del Maghreb giungevano ad alimentare la rivolta, i generali francesi avevano costruito le due famose linee lungo le frontiere con la Tunisia e con il Marocco. Dall'una e dall'altra parte, partivano dalla costa e si stendevano attraverso colline e deserti per trecento e più chilometri nell'interno sei strisce parallele, larghe ciascuna sei o sette metri, coperte tutte da un unico groviglio di ferro spi nato nel quale in più pun ti veniva immessa corrente elettrica, dominato da fortini ed osservatori. In questa sterminata distesa di metallo aguzzo e mortale — cai colata complessivamente a quattro milioni e mezzo di metri quadri — centinaia di arabi erano miracolosamente riusciti ad aprirsi un var co ma migliaia avevano lasciato la vita. Il ritorno della pace nel l'estate del '62 non segna la fine della strage: ottomila persone sono state dilania te sulle « linee » in questi ultimi tre anni, ed altre continuano quasi quotidia namente a cadere. Sono soprattutto bambini che si av vicinano incauti a giuocare, e saltano sulle mine a pres sione che pavimentano le strisce, ma anche altri che si sono tenuti prudentemen te lontani dalla distesa di ferro spinato sono rimasti vittime delle cariche espio sive che in tanto tempo il vento del deserto ha spostato insieme alla sabbia. E' un altro esercito di zoppi, anchilosati, sciancati, che continua ad aggiungersi a quello dei mutilati in guerra. Queste piccole mine encriers, a calamaio, raramente uccidono: spappolano il piede, o la gamba, che si posa appena su di loro. Ma, all'una ed all'altra frontiera, ce n'è un'infinità, tra i venti ed i quaranta milioni; e sono mezzi insidiosi che il detector della seconda guerra mondiale non scopre più perché questi nascosti dai francesi sono in plastica: occorre trovarli, eliminarli in altro modo. Non è un lavoro facile, ci vogliono specialisti pronti a rischiare la pelle: gli stessi genieri dell'esercito sovietico che Mosca mette a disposizione per l'operazione lavorano coraggiosamente, ma hanno delle vittime e non riescono ad effettuare una bonifica su vasta scala e so prattutto completa. Algeri fa appello a tutto il mondo per eliminare radicalmente la causa di tanto nuovo, inu tile sangue, ma nessuno risponde, tranne una società italiana dalla misteriosa sigla Sbarec. E' la « Società bonifiche antimina ricuperi costruzio ni » del gruppo Breda che negli anni del dopoguerra è andata liberando il territo rio dell'intera penisola, da Cassino a Tombolo a Co macchio; ed è l'unica organizzazione che può chiamare specialisti già tanto provati, chiedere se vogliono rac cogliere l'appello dell'Alge ria. Nel dicembre del '63 due generali, in pensione, del nostro Genio hanno ter minato lo studio preliminare del problema; nelle zone di Tebessa all'est e di Marnia all'ovest, sono già pronti due cantieri, con le roulottes do ve abiteranno gli sminatori e con i carri armati neces sari all'operazione. Con le mani, infatti, si può far poco per lo sterminato numero delle mine, per l'eccessivo pericolo. Uno speda lista, Panetta, ne individua una nella sabbia e la disinnesca; con prudenza estre ma, controlla se più in prò fondita ce n'è per strano caso una seconda, c'è, disio nesca contento anche quel la; posa finalmente il piede che gli vola via spappolato: ce n'era, caso senza prece denti, una terza, ancor più profonda. Si deve andare avanti chiusi nei carri ar¬ mati M 5, che nella parte anteriore hanno dei grossi rastrelli per snidare le mine, e dietro trascinano palle msldsdssscalsnMltnncdi piombo e rulli con pesanti'acatene per far saltare quelle rimaste nascoste. E poi bisogna far passare e ripassare il mezzo blindato su ogni pollice di terreno: un lavoro eroico ed al tempo stesso da cer' ;sino. Un nostro generale, Ippolito, che si avvicina ad un carro armato, seguendone il solco e quindi prevedibilmente al sicuro, trova ancora una mina nascosta e nell'esplosione perde il piede sinistro; lo stesso capita allo specialista Fantin, ad operai algerini. Ma non sono le insidiose, innumerevoli encriers a fermare durante l'intero inverno '63'64 gli italiani, ad indurli quasi ad abbandonare l'impresa: sono altre mine sco nosciute, le bondissantes di cui si,ignorava la presenza j e la pptenza. Questi tozzi cilindri, simili a barattoli di marmellata, hanno tre o quattro sensibilissimi uncini collegati con nylon al filo spinato : basta. toccare anche a distanza il groviglio di ferraglia, e gli ordigni esplodono irradiando un nuvolo di schegge fino a trecento metri intorno. Due nostri specialisti, Barillaro e Davia, colpiti alle gambe ed alla schiena, rimarranno invalidi per sempre; un operaio algerino viene falciato a morte. Le piastre metalliche messe a protezione degli automezzi minacciano di essere traforate, i cingoli dei carri armati sono continuamente messi fuori uso. All'inizio dell'anno scorso, confessa il presidente avv. Reggiani Viani, la Sbarec sta per ammettere ufficialmente il proprio fallimento; solo un disperato orgoglio, non più un calcolo economico, induce gli italiani a tentare ancora facendo arrivare mezzi più potenti. Carri Sher- ls«gcfhdcdo|ctgddpnlLgnrusdtèc man e grossi trattori trascinano cavi di acciaio più lunghi (e quindi a maggior distanza di sicurezza) che strappano via facendo espio dere le maledette bondìs santes; poi, sul terreno sgombrato, passano e ripassano per schiacciare le encriers. Oggi, a poco più di un anno dall'inizio effettivo dei lavori, a sud-est di Tebes sa verso la Tunisia ed a nord-est di Marnia verso il Marocco, per decine di chi lometri è scomparsa ogni traccia delle famigerate « li nee Challe » (così dette dal nome del generale). Non c'è più una mina di nessun agganciano il reticolato e lo tipo, il reticolato che col suo groviglio copriva distese a perdita d'occhio è raggruppato in enormi, ordinati gomitoli in attesa che gli algerini vengano a ritirarlo. Ma quanto è stato fatto è poco in confronto a quanto resta ancora da fare alle due frontiere: portati vittoriosamente a termine 1 .rimi appalti, gli italiani stanno trattando per averne altri e continuare. E li avranno: gli algerini, che apprezzano il coraggio, Sono larghi di elogi per i nostri specialisti, ai quali — del resto — nessuno al mondo mostra di voler contendere un simile « salario della paura ». Di paura certo ne avranno anche loro, ma non ne tengono troppo conto. Questi quarantenni reduci da Cassino e da Comacchio, con i quali mi intrattengo insieme al rappresentante della Sbarec in Algeria, avv. Armando Bottari, sembrano dei ragazzi; parlano soltanto di come fare più e meglio in futuro, mi descrivono con entusiasmo un nuovo Sherman che deve arrivare dall'Italia: è in grado, con speciali apparecchiature, di rastrellare davanti le mine, buttarle in una rete sul proprio tetto, farle cadere in una sacca sistemata dietro. Scuotono la testa quando dico che deve dare un certo . brivido sentire tanto esplosivo volare sopra la propria testa, anche se prò tetta da una lastra di ac ciaio, e che un grosso mar¬ gine di rischio resterà sempre. Ma le società d'assicurazione danno ragione a me: non se ne trovava una disposta a stipulare una polizza per questa singolare categoria di lavoratori della mina. Alla fine, naturalmente, ad un accordo si è arrivati: i nostri operai, che tra una cosa e l'altra mettono insieme trecentomila lire al mese, sanno che un loro piede vale dodici milioni, e la loro pelle trenta. Oggi, in Algeria, il peso della vecchia colonia italiana si è ridotto a poca cosa ( circa tremila persone ) mentre sta presentandosi sulla scena la nostra più progredita industria (siderurgica, trattoristica, petrolifera). Fra l'antica e la nuova presenza, fanno brillantemente da saldo questi nostri « sminatori », col loro « salario della paura » che non fa invidia a nessuno al mondo, col loro rischio quotidiano per evitare che altro sangue innocente si aggiunga al fiume già corso per sette anni. Giovanni Giovannini

Persone citate: Armando Bottari, Barillaro, Challe, Fantin, Ippolito, Panetta, Reggiani Viani, Sher