LA LEALTA' NEI PROCESSI di Giovanni Leone

LA LEALTA' NEI PROCESSI LA LEALTA' NEI PROCESSI Qualunque istituzione sociale non può reggere ed esplicare la sua funzione, se alla sua regolamentazione non si accompagna un complesso di regole di comportamento dirette a sgomberare il campo d'azione da ostacoli e sovrattutto da insidie. E' quello che con diffusa espressione inglese si chiama il fair play. A tale principio in sostanza fanno capo secolari istituti giuridici, come il principio della buonafede e la regola romana « Malitiis non est indulgendum ». Volendo fermarci a trattare della lealtà nel processo penale, ricordiamo che il principio è stato approfondito sotto l'aspetto prettamente scientifico, ed uno dei più sottili giuristi del nostro secolo, Edoardo Massari, enunciava tale principio come uno dei pilastri della scienza del processo penale. Ma non è tanto in questo scuso che desidero occuparmene, quanto nel senso più ampio di una regola di condotta di carattere etico che deve presiedere all'applicazione di tutte le attività convergenti nel processo. Questa regola in primo luogo — ed in misura ovviamente più impegnativa — riguarda poteri degli organi pubblici: giudice, pubblico ministero, po lizia giudiziaria. Il giudice ed il P. M. devono spogliarsi non solo di qualsiasi prevenzione, bensi della stessa concezione del potere come posizione di supremazia. Se c'è una supremazia — ed indubbiamente c'è —, questa deve essere intesa al servizio ed in funzione della responsabilità di giudicare o di concorrere alla decisione; quindi come potere ordinatorio e come potere di sintesi c dì mediazione. Anche nel modo esteriore di comportarsi, il magistrato — non rinunziando mai a quel complesso di forme che conferiscono al prestigio della funzione — deve cercare di evitare perfino la sola apparenza dell' intimidazione (il « metus publicae maiestatis ») che può influire sulla spontaneità delle posizioni delle parti e dei collaboratori della giustizia (testimoni, periti, ecc.). Altro è il discorso per quanto concerne la potenza non della posizione, bensì della logica e delle argomentazioni. La forza del ragionamento e quindi del dialogo (modo di porre le domande, modo di far valere le contraddizioni, ad esempio) uno strumento fondamentale di conquista della verità; anzi di esso che si può e si deve valere il magistrato, senza peraltro sbandare nella regione proibita della suggestività delle do mande. Lu stesso valga per gli organi di polizia giudiziaria per i quali — e non per una privilegiata inammissibile posizione di diversificazione; bensi per l'immedia tezza delle indagini — può essere consentita una cena elasticità, che non può mai significare né ricorso alla violenza, e neppure ricorso alla predisposizione di elementi inesistenti o falsi. A lealtà deve ispirarsi inoltre l'ufficiale di polizia giudiziaria ed il magistrato nella registrazione scritta delle assunzioni delle prove. In assenza del controllo del difensore e del pubblico, la difficile operazione di fedele traduzione in iscritto di elementi assunti oralmente, e provenienti talvolta da soggetti inesperti o incapaci di una chiara espressione del proprio pensiero, deve essere diretta da uno scrupolo eccezionale. Apprezzo molto — e vorrei segnalarlo come criterio da adottare in ogni caso — il metodo che viene usato spesso dalla polizia giudiziaria, di verbalizzare nella loro sequenza le domande e le risposte; in cai modo si consente di ricostruire il modo come una certa affermazione del teste o dell'imputato sia venuta fuori. Che dire all'opposto di alcuni magistrati che — in buonafede certamente — devono essere controllati passo per passo nella dettatura del verbale di dibattimento, tanto è forte in loro la suggestione alla deformazione, ovvero alla soggettiva interpretazione dei dati assunti? Ad essi vorrei contrapporre tanti magistrati che in tale delicata operazione sono di una onestà che raggiunge l'esasperazione. Ma la lealtà processuale va vista anche in relazione ad altri fenomeni. In primo luogo voglio riferirmi al caso, non infrequen te e non lodevole, di processi nei quali chi già fin dall'inizio appa re o può apparire come imputato o indiziato viene intanto in¬ tcegscdmrltausvpmtcro e i i terrogato come testimone. Occorre reagire contro tale sistema e, con la predisposizione di congegni normativi, sradicare questo malcostume; comunque, nel caso di sopravvenuto mutamento di posizione processuale (il testimone che diventa imputato), sarebbe atto di onestà e di riequilibrio di posizioni accantonare tutto quello che l'imputato ha affermato in veste di testimone; una disposizione di legge in tal senso ho in altra occasione invocato. Altro grave caso di slealtà processuale è il callido accorgimento — non frequente, ma tuttavia riscontrato in gravi processi — di non procedere a carico di taluno degli indiziati, oppure di accantonarlo « in itinere », allo scopo di sollecitare dallo stesso clementi a carico di altri indiziati: la verità non può essere conquistata a così duro prezzo, con il favoreggiamento o il premio alla delazione (sai vando cioè dalla condanna ta luno dei responsabili per assi curarsi la prova in danno di altri). Più deplorevole ancora è l'at teggiamento del magistrato chia ramente ispirato a spirito di rap presaglia; come nel caso di un P M., che messo di fronte alla scarcerazione dell'imputato per scadenza di termini (cosiddetta perenzione della detenzione pre ventiva o scarcerazione automa tica) inventa, o ritrova, nuove imputazioni o nuove aggravanti di cui prima non si era accorto per impedire la liberazione del detenuto; o nel caso di un P. M. che, ritenendosi sconfìtto dalla concessione di una libertà provvisoria, adotta i predetti dete riori argomenti per mantenere o ripristinare lo stato di deten zione dell'imputato. In questi casi sembra che la diffìcile serena funzione della giustizia si degradi ad una specie di aggressione, o peggio di imboscata! Nel recente passato comincia va a far capolino, e perfino i diffondersi, un altro metodo sleale: quello di istruire col rito sommario processi che non consentivano tale forma di istruzione per privare l'imputato di fondamentali garanzie di difesa. Ma oggi — a seguito dell'importante sentenza della Corte Costituzionale — la cosa è stroncata. Alla pari, anche per le parti e per i difensori, vi è un dovere di lealtà processuale, ma ovviamente è contenuto in limiti più modesti: a parte la posizione dell'imputato che ha diritto di mentire, è evidente che parti c difensori non solo nei confronti dell'autorità giudiziaria, ma nei rispettivi confronti, debbano ispirarsi alle regole della lealtà. D'altronde, per i soggetti privati, di regola il dovere di lealtà è garantito da sanzioni penali (falsa testimonianza, falsa perizia, calunnia, diffamazione, favoreggiamento reale, frode processuale); sicché è difficile che la slealtà — che trasmodi dalla consentita abilità — trovi campo di attuazione. E* un problema di costume quello che ho segnalato; ma occorre sempre più convincersi che nessu.i ordinamento giuridico si regge senza che vi corrisponda un costume di corrcf'jzza da parte di tutti i soggetti del rapporto giuridico, specie di coloro che sono chiamati a posizioni e funzioni di responsabilità. Giovanni Leone

Persone citate: Edoardo Massari