L'Africa «selvaggia» non è che un ricordo di Francesco Rosso

L'Africa «selvaggia» non è che un ricordo L'Africa «selvaggia» non è che un ricordo (Dal nostro inviato speciale) Nairobi, 23 marzo. Si viaggia molto in Africa Orientale; le strade sono larghe e ben tenute, gli aerei frequenti, i treni confortevoli, ma i vagabondaggi si concludono sempre a Nairobi, che è un po' la Roma dei nostri proverbi, con strade, treni e rotte aeree che confluiscono tutte a questa splendida capitale del Kenia, nell'aria sottile dell'altopiano, tra la sontuosità cardinalizia delle bougainvillee se è estate, o il crepuscolare ametista delle jacaranda se è primavera. Concluso il periplo, mi domando: «L'Africa dei libri, con le belve ed i negri scatenati in danze barbariche, esiste ancora? ». Benché abbia viaggiato a lungo fra Nairobi, Monbasa, Zanzibar, Dar es Salaam, Arusha e Nyeri, io non l'ho più veduta; qualcosa è mutato, e repentinamente, in quest'Africa di fresca indipendenza, e direi che a mutare più profondamente sono stati gli africani, passati senza eccessivi squilibri da un'esistenza primitiva, diciamo della foresta, alla civiltà ed al conforto tecnologico. Treno da Dar es Salaam a Nairobi via Tanga; diremmo che è una tartaruga, tanto è lento; trentasei ore per coprire poco più di mille chilometri, ma è un mezzo che non serve sol tanto i turisti, anche se offre carrozze letto e ristorante; il treno serve gli africani che si spostano da un villaggio all'ai tro per il mercato, o per le loro faccende. Immense distese colti vate a sisal, agave da cui si estrac una fibra più dura della canapa, si alternano al bush, la boscaglia africana irta di acacie spinose sulla sterile monotonia gialla della savana. Regno delle belve, con mandrc di zebre che fuggono al fischio roco del treno e giraffe che guardano dall'alto della loro stupidità il convoglio che passa sferragliando. Stiamo attraversando un parco nazionale, e nemmeno un gruppo di leoni sdraiati all'ombra di un grottesco baobab, solenni co me senatori a consiglio, ci de guano di uno sguardo. A Mo.shi, la mia calma curiosità è sazia, c Nairobi è ancora lontana. Scendo dal treno e cerco un albergo, col timore di trovare una topaia. Finisco in un grande albergo, il Livingstone, di cui non capisco la presenza. Che ci sta a fare un albergo di queste dimensioni in una città di trentamila abitanti, meno popolata di Vercelli? Esclusivamente per ammirare il Kilimangiaro col perpetuo cappuccio di neve. La sacra montagna, questo Fusijama dell'Africa Orientale, è un'unghiata bianca sulla seta azzurra del cielo, e le terrazze del Livingstone sono affollate di gente che si gode la visione in tutte le ore del giorno, ma soprattutto a sera, quando già le tenebre invadono il inondo e la montagna continua a riverbera re una mistica luce rosata. Per dovere, ammiro il Kilimangiaro, visito piantagioni di caffè invitato da fanners italiani, ascolto le storie ili questi connazionali; fradici di mal d'Africa, che col pretesti) «Iella scuola hanno mandati» in Italia moglie e tìgli, e loro passati le sere ai bar, con « squillo » all'antracite, morbide e feline nei gesti pigri della con quista amorosa. Riparto per Arusha, ina in automobile, e dopo un'ora sono al confine col Kenia, però desidero rimanere ancora in questa cittadina del Tanganica sovrastata dal monte Mcru, meno al to e spettacolare del Kiliman giaro, ma con uno scenografico pennacchio di nuvole buttate sulla cima come una morbida sciarpa. Arusha non è più grande di Moshi, ma anche qui c'è soltanto da scegliere in fatto di alberghi confortevoli. C'è però un motivo plausibile per la loro presenza, Arusha è la base avanzata per i grandi itinerari delle belve, ad un centinaio di chilometri c'è il lago Manyara, poco oltre, il cratere di Ngorongoro ed il parco di Serengeti Sono gite d'obbligo per chi viene ad Arusha, oltre all'acquisto delle pipe di schiuma, e il portiere dell'albergo, come fosse in teso, mi programma il viaggio quasi senza domandarmi se desidero farlo, Al lago Manyara, altra sorpresa; su un alto sperone che do mina l'immenso acquitrino popò lato di coccodrilli, un albergo di gran lusso, come se ne vedono a Miami e nei film. Di notte si sentono i ruggiti dei leoni le risate sinistre delle iene, ed è un'emozione inconsueta sorseggiare un whisky nell'intimità lussuosa del bar mentre fuori si scatena la vita selvaggia della foresta. Di giorno è ben differente, si viaggia nel parco nazionale, ai bordi del lago, fra leoni, elefanti, leopardi, zebre, bufali, giraffe, gazzelle d'ogni varietà come nei viali di un giardino, senza pericolo, ed anche senza emozioni. Il lago Manyara ha una specialità, è il solo posto al mondo in cui t leoni gafetòmnozarososetoaninè letaanviramchti qdesuNundsodotafoSaviqchWqsochteinccadsustcaAarn■■salgono sugli alberi Ne ho ve- duto uno accosciato fra i ramidi un'acacia, placido come un gatto satollo. Ci guardò indifferente poi, con la zampa, grattò un poco il ramo, quasi a sprimacciare un immaginario cuscino; appoggiò il testone sulla zampa ripiegata e incominciò a ronfare beato, attendendo il sonno. Il Ngorongoro Crater è più selvaggio, violento nel suo aspetto di paesaggio siderale; dicono anche più pericoloso, perché si incontra il rinoceronte, ma non è mai accaduto che l'automobile di un turista sia stata caricata dal bestione infuriato. Ed anche qui, dove tutto parla di vita selvaggia, c'è un albergo razionale, una specie dei nostri motels. Giro attraverso i parchi nazionali, mi sposto nei punti più singolari, e trovo sempre questo segno della civiltà moderna, l'albergo, simbolo della sua irrequietezza. Poco oltre Nyeri c'è il famoso Tree Top, una sorta di albergo tra i rami di un albero, dal quale si possono vedere le belve che scendono al fiume per l'abbeverata. Oltre Nyeri, verso i contrafforti del Monte Kenia, c'è il Safari Club, l'albergo noto ai viaggiatori africani ed ai frequentatori di sale cinematografiche perché appartiene all'attore William I-Iolden. Strana Africa questa, do tre l'imprevisto lo possono dare i camerieri africani che sorprendono con la compitezza professionale, non le belve, in libertà, ma quasi domestiche, come quelle dei circhi. Quest'Africa turistica, tutta catalogata nei fascicoli delle agenzie di viaggio, potrebbe, indurre nell'errore di pensare che sia un aspetto unilaterale, cioè un'Africa ad esclusivo uso e con sunto degli europei ricchi, mentre il resto rimane affondato nel cerchio invalicabile- di costumi ancestrali. Niente è meno vero A parte il fatto che nei grandi alberghi si incontrano in numero sempre crescente gli africani, la borghesia che si sta for¬ mando con l'indipendenza, anche gli altri, plebe o proletariato, sono ben differenti dal cliché del selvaggio che ci siamo formati attraverso libri e cinema. Per andare da Arusha a Nairobi ho preso il mezzo più popolare, la corriera, che attraversa parchi nazionali come quello dell'Amboseli e le terre dei Masai, forse la tribù più riottosa alla nostra civiltà. La corriera si arrestava nei punti più impensati della savana, salivano e scendevano fieri guerrieri Masai, o africani di altre tribù, molti con i loro costumi tradizionali, tuniche succinte e insufficienti a salvare il pudore, ma moltissimi in abiti europei. Alle fermate, quasi sempre, trovavo uomini e donne nei costumi da cerimonia, con pennacchi in testa, collane di perline colorate, braccialetti ai polsi ed alle caviglie, lance e daghe in mano e ai fianchi, ma erano 11 per farsi fotografare dai turisti; due scellini a posa, come le indossatrici. C'è da rammaricarsi per la fine irrimediabile dell'Africa selvaggia? Certo, la civiltà nostra ha ucciso molti aspetti della natura, e non soltanto in Africa, ma non c'è da stupirsi se Masai e Kikuiu salgono in aereo, alloggiano nei grandi alberghi, viaggiano attraverso il loro paese, come non c'è da stupirsi se leoni, leopardi, elefanti e le altre belve vivono in torpidite dal benessere nei parchi nazionali. I Masai ed i Kikuiu che viaggiano hanno anche imparato a difendere il loro patrimonio nazionale, e lo difendono assai meglio di altri popoli civilissimi. Hanno persino deciso di limitare l'espansione agricola per non togliere pascoli alle belve. Se non le difendessero con misure cosi radicali, tra qualche anno l'ex Africa selvaggia non avrebbe più un solo leone da mostrare come espressione della sua natura felice. Francesco Rosso

Persone citate: Livingstone, Masai, Tree Top