«Corruzione al Palazzo di Giustizia» rappresentata dallo Stabile di Torino

«Corruzione al Palazzo di Giustizia» rappresentata dallo Stabile di Torino Il Teatro Stabile di Torino ha messo In scena al Gobetti, regista Gianfranco de Bosio, Corruzione al Palazzo di Giustizia. In alcune « note alla regìa » il De Bosio, esponendo la sua interpretazione del noto dramma di Ugo Betti e sottolineando intuizioni e propositi, fa un'osservazione acuta e pertinente. Egli accenna « ai nomi stessi dei personaggi, quasi sempre di sapore nordico», e sottolinea: « Non si tratta soltanto di fattori superficiali od occasionali (la preoccupazione durante il ventennio fascista di sottrarsi alle limitazioni imposte rialla censura, ecc.). ma anche, soprattutto, tli un significativo riflesso di quella cultura europea, mitteleuropea in par ticolare (facciamo, a titolo puramente indicativo, il nome di Kafka), che permea la formazione culturale del drammaturgo ». Esatto. Ma a noi tale ca ratteristica sfumatura del let forato Betti non indica soltan to le componenti della sua opera, ma rivela, con arguzia, la disponibilità di quei personaggi, l'artificio tutto intellettuale della loro nascita, e quel tanto di onesta insincerità e laboriosità di un linguaggio scenico, quanto mai enfiato, enfatico e barocco, che dà nell'astratto e nel simbolistico. Lo stesso De Bosio allude al rischio che l'opera si dis solva in un « simbolismo in certo », e ad evitarne l'irrime diabile dissoluzione, ne dichiara indispensabile una lettura « in chiave realistica », avendo ben presente che il dramma è il « risultato (egli dice) di una esperienza diretta di vita di magistrato », e che noi abbiamo dinanzi una « realtà solida, piena, contemplata a lungo in tutte le sinuosità, anche nelle più riposte e nelle più repellenti » L'idea di De Bosio di contenere in fertile realismo un dramma sconfinante nella fantasticheria ideologica, mosso da impegni metafisici non sempre nitidi né controllabili, è testimonianza che il regista ha letto bene, e che ha sentito lino in fondo un certo ar bitrio dell'opera, l'assenza della naturalezza che veramente suscita e crea. Il regista ha avvertito nella crudezza la morbida ambiguità di parole — accortissime e talvolta com moventi — che non tanto ci danno il concreto dei personaggi e delle azioni dramma tiche quanto l'astrattezza degli stati di coscienza, delle situazioni problematiche, di una casistica etico-psicologica che si dilata, al di là dei fatti scenici, in un'ossessione di motivi che genericamente e universalmente interessano il destino dell'uomo — colpa, ri morso, castigo, giudizio ultimo — ma che non diventa no — concisi, umili, piagati — ligure poetiche di uomini veri e riconoscibili che portino un nome preciso e una struttura insostituibile. Il che avviene per l'istinto stesso, tutto cerebrale e ere puscolare, lirico e riflessivo del Betti; e se i suoi drammi non ci hanno mai incantato è prò prio perché sfuggono alla real tà del personaggio decisivo contornato, scolpito, palpitan te, che sola accende le grand passioni e il fascino tragico comico: personaggi che non vogliono esaurire in formule metafisico-sceniche la tragedia dell'esistere, ma esprimerne semmai qualche particella vi vente, dolorosa, nettamente se gnata dalla fatica umana dall'individuale destino. Potremmo ripetere ciò che scrivevamo molti anni fa: che questo è dramma più del sentimento umano in sé, favoleggiato pensosamente, che dei personaggi. Con qualche riserva, tuttavia, nel giudizio troppo crudo; riconoscendo ad esempio che quel Vanan, Presidente del Tribunale, con la sua vecchiezza che non resiste all'urto infamante, che si tran tuma, fragile vittima, è perso naggio commovente; e che le due tipiche incarnazioni del male, il giudice C'ust e il giudice Croz, l'uno con la turpe, feroce crudeltà, con la calunnia spaventosa, imperterrita e devastatrice; l'altro con una doppiezza repulsiva, con la dissimulata e assaporata vo luttà delle torture inflitte e di quelle immaginate, pregustate in un sulfureo av venire, hanno in sé tanto da giustificare l'attenzione ansio sa e lucida di un buon regi sta e di buoni attori. I tre atti hanno senza dubbio un'aggressiva struttura drammati ca, sommuovono oscuri, torbidi umoscvisimprl'a« pesfa vanovosole sonoe siNmrisctacodrcogitaliinmnzafessrahsoVlelecglo1 vraqtudtImtsmpdctfitCnctaVstpfsottofondi della, condizione JLa «prima» ieri sera ai Teatri» Gobetti «Corruzione al Palazzo di Giustizia» rappresentata dallo Stabile di Torino Il dramma di Ugo Betti è stato allestito dal regista Gianfranco De Bosio, con Gianni Santuccio, Annibale Ninchi e Giulio Oppi nelle parti principali lenoso di montare una trappola che scatterà poi attanagliando l'avversario, il nemico: e se anche questo orditore di inganni non ci sarà più per godere della sua vendetta, non importa, ne gode ora in un supremo piacere, in un rantolo di macabra voluttà già stretto dall'agonia. L* attore Giulio Oppi ha tratteggiato questo tipo stravagante, ossessivo, vigorosamente. L'Oppi è un caratterista eccellente, che sa accentuare con progressione sicura i segni del personaggio, e colorirli e ombreggiarli poi, e trarne un rilievo sicuro, corposo, plasticamente vivo. Ha capito che all' orrore della figura di Croz giovava la morbidezza del tocco, un' apparente bonomia che all'improvviso mostra i denti, e su queste modulazioni ha via via suscitato l'aspetto di un vecchio repugnante che va a morire tra stridori di coscienza e scarti beffardi. Così egli ha reso la tensione di Croz, quella sua molteplicità di uomo espertissimo, e che tutto sa degli uomini, e soprattutto la loro capacità criminale. Molto bene; e questa piana recitazione s'è intonata a quella degli altri. Ricordiamo Mariella Zanetti, Mario Piave, il Rizzi, il Bagno, il Curari, Renzo Rossi. Il pubblico ha cordialmente applaudito, ed ha evocato con vivaci battimani alla ribalta tutta la Compagnia. Francesco Bernardelli e a ) i i à a , e n o n i, a ir le a a e m ci oa eia e ti oiei ia — ri n ra to e el on ò al o n d on le ia ne vi e umana; ma la loro consistenza oscilla alla ribalta, con improvvisi scarti e con schianti di impressionante violenza, sempre sfiorando, tra il discorsivo, l'analitico e il « giallo », quel « problema in sé » — colpa ed espiazione — che da solo non fa dramma, e che pur ha invaso i palcoscenici dei giorni nostri spesso soffocandone la voce e la luce, e il senso stesso teatrale. Al teatro d'arte non contano le intenzioni e le filosofie e la sottile cultura anche se alta e nobile, anche se con angoscia, e dubbi, e sensibilità metafisica suggerisce scelte difficili. Non è la stessa cosa sfiorare il mondo morale delle idee con riparati pensieri, austera disciplina e libri filosofici, e tentare di evocarlo e convogliarlo con irritante rettorica, in drammi simulati, su quel palcoscenico ove soltanto è legittima e persuasiva la fantasia, con la sua benedetta libera fecondità, plasmatrice, in gara con la natura, di uomini e paesaggi. Della tensione drammatica che caratteriz za il dramma di Betti e della fermezza di De Bosio nel costringerlo in un limite realistico e fertile, si 6 giovata la rappresentazione di ieri sera. Un gruppo di attori valorosi ha interpretato gli strani personaggi e la cupa avventura. Vanan, presidente del Tribunale, era impersonato da Annibale Ninchi. Con la sua molta e celebrata esperienza egli ha se guato di una specie di tremulo smarrimento la confusione 1 lenla doannidetapical'atrvamritui rinepcCtochdhuasmumiliazione, la rinuncia di un vecchio magistrato che non riesce a resistere alle accuse e alla calunnia. V'è in Vanan qualcosa di disperatamente patologico, l'involuzione di un uomo che, giunto al termine della vita sull'onda del potere della venerazione, ne sente tuttavia la nausea, lo schifo. Indicato come colpevole di molte turpitudini, crolla ad un tratto; non vuol saperne più, il suo animo ha ceduto, non domanda che oscurità, silenzio, pace. E' una sfumatura, nei dramma, che ha il suo peso, che incide crudelmente una vita. Che vale una vita che può finire cosi? Accanto a lui, contro di lui c'è Cust, il giudice Cust, così abile, così atroce nella finezza, così perverso, e così angosciato nella perversità. Mentre per celare le sue azioni infami getta l'accusa su Vanan, egli incarna, evoca così bene, palesemente, sfacciatamente, gli incubi, il senso di perdizione, la vertigine del colpevole, che tutto si potrebbe pensare fuori che quegli incubi, quella vertigine, quei sudori freddi, quel raccapriccio siano veramente suoi, siano il suo segreto, ch'egli butta in faccia ai colleghi con tanta spregiudicatezza affinché nessuno possa neppure immaginare che siano l'orrenda realtà della sua coscienza. Giuoco diabolico, che Gianni Santuccio sa condurre con nefanda accortezza e malizia. Ma v'è un altro personaggio che è forse il più enigmatico del dramma, il più scaltrito e sfuggente nel male, il giudice Croz. E' anche lui vecchio, è malato; aggrappandosi alla vita con chiusa, inespressa ferocia, egli vuol trarne, spremerne ancora qualcosa: e se non gli riesce per sé, per la sua ambizione, gli riesca almeno per il suo odio, e per la maledizione di un altro. E' una segreta, ironica, paurosa perversione sadica, è il gusto ve- ssecNsgcèztcldsl

Luoghi citati: Torino