Il risotto alla milanese nato in Lombardia? di Paolo Monelli

Il risotto alla milanese nato in Lombardia? VIAGGIO NELLA BUONA CUCINA ITALIANA Il risotto alla milanese nato in Lombardia? italiana : « Non possiamo più I In un'opera pubblicata di questi giorni dall'editore Canesi di Roma Lo stivale allo spiedo, viaggio attraverso la cucina italiana, di cui vorrei dire tutto il bene che merita se non fosse che sono anch'io uno dei trentadue collaboratori, Dino Buzzati si è fatto eco del voto espresso da alcuni importanti personaggi milanesi che Alitano sin espulsa dall'albo della cucina permettere che Milano liguri fra le città dove si può mangiare », « / ristoranti a Milano sono uno schifo », « Milano a tavola ha rinunciato alla sua personalità », « // risotto non esiste più », e via di questo tono. A Buzzati, si sa, piacciono le posizioni estreme. Ma certo è che i milanesi, sempre orgogliosi della loro condizione di lombardi e di cittadini della « capitale morale », e abituati a dettar legge in ogni campo, hanno rinunciato da un pezzo (dalla apertura del traforo del Scmpione, anno 1906, stabilisce Felice Cùnsolo nel suo libro La cucina lombarda, Milano, Novcdit, 1063) al primato culinario. Quegli arlacendatissimi uomini d'affari, dell'industria, del commercio, non hanno più tempo di stare a tavola, a mezzodì s'ingozzano in fretta alle tavole calde e col hoccone in bocca riscappano al lavoro; e la sera, che hanno più agio, preferiscono alle trattorie milanesi quelle toscane, bolognesi, venere, magari napoletane, o certi ristoranti felpati dalle luci basse ove non si vede nemmeno che cosa vi servano. Ma da qualche tempo sono diventati sensibili a questa menomazione; i fatti li ammettono, ma li sopportano male. Uomini di buona volontà si danno da fare per ravvivare « la tremula fiammella della vecchia cucina milanese » (Cùnsolo); associando la ricerca di una buona cucina o di onesti vini « al sempre più vigoroso impulso turistico del quale ampiamente si giova il nostro paese ». Qui casca l'asino. La decadenza della cucina in tutte le nostre regioni, nessuna esclusa, si deve in gran parte all'invasione di centinaia di migliaia di turisti in torpedone preoccupati soltanto di nutrirsi senza indugio quando lo stomaco suona la campana della fame, e se a quell'ora gli distribuiscono un pacchetto di panini imbottiti e un mezzo fiaschetta col bicchiere di cartone sono lietissimi di risparmiarsi la fatica di scendere dalla vettura. Avverte Brillat-Savarin che il bisogno di mangiare l'uomo lo ha in comune con gli animali, e pur che il nutrimento sia grato al palato e soprattutto abbondan te non chiede altro. Ala il pia cere della tavola è proprio del l'uomo, e nato con la civiltà. Dice ancora che soltanto gli uomini d'ingegno hanno il gusto della buona cucina e della buona tavola; gli altri sono incapaci di un'attività che richiede apprezzamenti e giudizi. Tornando all'argomento, c'è stato di recente a Milano un con vegno « sulla cucina ambrosiana » che si sarebbe chiamato meglio « comitato di salute pubblica »; che ha invocato almeno la difesa ad oltranza delle ultime specialità tradizionali; auspican do una politica culinaria che tolga via dai piatti tipici milanesi « le vernici e il fumo so vrapposti dal tempo, gli arbitrari ritocchi eseguiti da vandali, per cercarvi sotto la lineare fragrante genuina pietanza originale » (e cosi, tanto per cominciare, il maestro Saverio Facchinetti ha proposto che sia tolto dagli ingredienti del risotto quel bicchiere di vino bianco che disturba il processo di cottura, che non si trova nelle ricette più an tiche, e che è probabilmente un uso portato dai cuochi francesi al seguito della conquista napoleonica). Intanto i milanesi si preoccu pano di rivendicare l'originalità della loro costoletta contro Taf. fermazione di « esterofili impe nitenti » che essa sia soltanto una imitazione del Wienerschmitzel arlermando che alcuni studiosi austriaci hanno recentemente ritrovato nell'Archivio d Stato di Vienna un lungo e par- \ ticolarcggiato rapporto del maresciallo Radetzky all'imperatore Francesco Giuseppe sulla situazione politico-militare della Lombardia; ed una nota in margine al rapporto recherebbe l'informazione, né militare né politica, che i milanesi sanno cucinare qualcosa di straordinario, la costoletta di vitello intrisa nell'uovo, impanata e fritta nel burro « Il particolare dovette restare bene impresso nella memoria dell'imperatore, — scrive il Cùnsolo, — se Radetzky, una volta tornato a Vienna, fu chiamato a palazzo e pregato di dettare al capo dei cuochi dell'aulica cucina la ricetta della tanto decantata vivanda ». Ricordando dai mici remoti studi di legge il fenomeno delle interpolazioni, cioè le aggiunte che i giuristi bizantini fecero alle originali leggi romane, mi sia lecito il dubbio che la nota marginale sulla costoletta alla milanese sia una tarda interpolazione di un milanese trovatosi chissà come a esaminare quel documento d'archivio prima dei citati studiosi austriaci: tanto più che Radctzky, che mori a Milano i primi di gennaio del i8?tf a novantun anni compiuti, po- chi mesi dopo di essere stato col ocato a riposo dalla sua carica di governatore generale del Lombardo-Veneto, credo non abbia mai avuto il tempo di tornare a Vienna e dettare agli impcrialregi cuochi la ricetta. Consiglio ai gastronomi milanesi di far fotografare il documento con la nota in margine, se vi sia ancora, e di diffonderlo in tutto il mondo che finora crede alla precedenza della costoletta viennese, come si legge nell'opera Le monde à tablc di Dorè Ogrizck, tradotta anche in italiano (editoriale Domus, Milano): « A Vienna il mondo è debitore del Wicncrschnitzcl l'incomparabile braciola viennese, così asciutta e croccante che una signora deve potercisi seder sopra senza macchiarsi il vestito ». Stiano attenti i milanesi che con la recente moda di ricercare negli archivi le carte di nobiltà dei cibi non corrano il rischio di perdere anche il primato del risotto alla milanese; anche se Otto Cima, attento studioso di cose milanesi, abbia indicato l'anno preciso nel quale per la prima volta fu mangiato il risotto giallo, inventato l'anno 1574 in occasione del matrimonio della figlia di Valerio Profundavalle, il maestro fiammingo che faceva le vetrate del duomo di Milano, con un aiutante di questi. Narra Otto Cima che fra i discepoli di maestro Valerio c'era un giovane che usava mescolare lo zafferano alla pasta del color giallo per ottenere una tinta più viva e più calda; e canzonandolo il maestro per questa sua mania, « un giorno metterai lo zafferano anche nel risotto », al giovane non parve vero di farne la prova appunto il giorno delle nozze della figlia del maestro. Il collega Vincenzo Bùonassisì nel suo recente libro La cucina di Falstaff (ed. Milano Nuova 1964), riporta questa leggenda, ma la tratta appunto da leggenda; pensa che l'usanza di indorare il risotto con lo zafferano sia molto più remota, nata proprio al tempo della introduzione del riso in Italia, recato dall'Oriente dalle navi venete; prcss'a poco nel tempo in cui cominciò ad arrivare in Lombardia lo zafferano che si produceva nell'Abbruzzo. Buonassisi ricorda che i cuochi di corte di quel tempo usavano ricoprire pesci e carpi cotti con lamelle d'oro perché apparissero più grati alla vista; <t e potrebbe essere nata allora l'idea di indorare qualche vivanda popolare con il buon zafferà no, per imitare gli splendori delle mense più nobili ». Ala il Buonassisi va ancora più in là; pen sa che i primi a colorare il ri sotto siano stati i cinesi, presso i quali l'uso dello zafferano a scopi culinari era già conosciuto da secoli. « Come ci portarono la far chetta — aggiunge — non potrebbero i bizantini averci portato il risotto giallo? E l'avesse importato qualche gruppo di ebrei, nella loro incessante diaspora, che li spingeva a trapian tarsi da una terra all'altra coti usanze, idee, novità d'ogni genere? Ho letto proprio in un libro di cucina ebraico come si fa il "risotto del sabato": una ricetta certo antichissima, come è tutto ciò che si riferisce più da vicino, nei cibi, alle prescrizioni del rituale religioso. Questo risotto del sabato somiglia come un fratello maggiore al risotto alla milanese ». Fra i numerosi libri di cucina che la moda oggi getta sul mercato questo di Buonassisi ha un carattere a sé; è piuttosto un cordiale invito alla tavola e alla cucina, come appunto voleva il Brillat-Savarin: l'invito « ad una \ tavola vera, distesa, antidoto alle ■ìolenze assurde del nostro tempo; una libera e serena oasi di riposo. E strumento anche per ritrovare se stessi e gli altri, uscire dalla baraonda spirituale prima che fisica Quasi uno strumento di riscatto ». Anche a proposito del primato per cui contendono cinesi c italiani per l'invenzione delle paste asciutte, Buonassisi ha la sua idea Crede che i cinesi abbiano sempre avuto la paeta. i loro spaghetti di soia, ma una volta tanto non ci abbiano preceduto perché anche noi abbiamo avuto la pasta asciutta da sempre; « <•• i romani certamente amavano le tagliatelle. Uno che ne andava pazzo e lo lasciò capire era Cicerone; dal quale abbiamo appreso anche il termine latino, la- ganum. Ricordiamo che 1 ciociari ancora oggi chiamano lacchene le tagliatelle (è una corruzione dell'antico laganum?), e nel perugino " fare la pasta " si dice fare il macco, che viene senza dubbio dal latino maccare, os\sia schiacciare. Di qui, l'avete già intuito, pare nata la partila " maccheroni " ». Tutto bene. Solo che per me « maccheroni » viene dal greco ìnakarios, cioè « felice, beato »; che al femminile, makaria, era presso i greci dell'Attica anche il nome di una minestra di brodo e di orzo mundo, come ha rivelato il dottissimo Meycr-Lubkc, I Greci che vennero a fondare \apoli, avendo gustato una minestra asciutta degli Osci indigeni, farina di orzo seccata al sole in forma di vermicelli e cotta nell'acqua, tanto gli piacque che la chiamarono con lo stesso nome della minestra d'orzo in brodo di casa loro, makaria. « felice ». Paolo Monelli ili 11 1 ! ti M11111 11 II ti 1111 lllf 11 II I III) 11 lf 11 (■