Bangkok, la "Venezia dell'Asia,, sparisce in un'informe città nuova di Paolo Monelli

Bangkok, la "Venezia dell'Asia,, sparisce in un'informe città nuova IL PKOURESSO CANCELLA LA VECCHIA CAPITALE COSTRUITA SULLE ACQUE Bangkok, la "Venezia dell'Asia,, sparisce in un'informe città nuova Fino a metà dell'altro secolo era tutta costruita sui canali, solo percorsa dalle barche - Fu il ministro francese nel 1860 a volere una strada per poter esibire carrozza e cavalli - Negli ultimi decenni la smania dell'occidentalizzazione, il modello americano, la speculazione hanno distrutto l'antico incanto - Per ritrovare il volto del passato, occorre entrare in certi quartieri sulla destra del fiume: qui resta valido ciò che scrisse, riferendosi al Re Sole, un religioso francese a fine '600 (Dal nostro inviato special*) Bangkok, novembre. La Venezia dell'Asia, Bangkok, non c'è più. C'è al suo posto una vasta informe città che per metà è già metropoli del ventesimo secolo, con quartieri popolari e residenziali, e per metà è frettoloso cantiere di edifici in costruzione; e divora insaziabilmente vecchie case giardini orti mercatini palmizi e assedia da presso son¬ tuosissimi templi dai sovrap- IIIIIMIIIIIIIIIIIIIIIIIIIMIIIIIIIIIIIItllllllllll I posti tetti ripidissimi, con i naga die bnlzan sù dal comignolo e dalle falde, specie di corna sottili ed aguzze che simboleggiano il genio delle acque, e pungono il cielo; anzi lo grattano, che quelle punte esilissime mi ricordano le lunghe uìighie posticce di queste danzatrici quando con lente movenze sotto le gravi vesti trapunte d'oro e la tiara appuntita, e il viso immobile e U sorriso fisso, agitando rapidissimamente a ventaglio le dita intendono descrivere le celestiali bellezze. Fino a un secolo fa Bangkok non aveva strade che non fossero d'acqua. Era una Venezia dei poveri, se posso dir così; salvi i palazzi reali lungo il fiume, e i numerosi sontuosissimi templi, e ville di potenti nel folto di parchi privati, tutto il resto era un enorme villaggio sparso fra acque e alberi grandi. Lungo i canali e sulle rive di quel Canalgrande che è il fiume (chiamato Menam, cioè € madre delle acque-»), non sorgevano case in muratura o palazzi, ma umili capanne di legno su palafitte, e qua e là qualche edificio all'europea, sede di legazione o di uffici. E da un canale all'altro non si andava per calli; ma traverso campi e orti e boscaglia o tutt'al più per sentieri. Intorno al Iseo, pare che per le Insistenze del ministro pieni potenziarlo francese che aveva una bella sede sul fiume, ma si era portato da Parigi carrozza e cavalli ed era aìisioso di mostrarli al popolo, fu aperta una strada dietro la sua sede a poca distanza dal fiume. « Via Nuova», fu chiamata e sarebbe stato meglio dire * Via Prima»; oggi chi ne parla dice « la Via Nuova, che è la più antica della città ». A quella prima strada, die presto si affittì di negozi, di uffici, di banche, di alberghi, altre seguirono che avvolsero e traversarono in gara con i canali la città vecchia serrata dietro le sue mura. Ancora in una guida del 19Z!t si legge che «il traffico cittadino, che era fino a pochi anni fa esclusivamente acquatico, ora si svolge anche con carrozze e tranvai elettrici ». Insomma, una Venezia ancora, ma come quella che vorrebbero gli innovatori di <Venezia viva», aperta alle automobili interrando canali e tracciando un'arteria asfaltata tutto intorno. Finché, dopo l'ultima guerra, arrivò il Progresso, con l'iniziale maiuscola, a spianare ponti e canali; quel progresso che a dispetto dei punti cardinali chiamano anche qui occidentale, ma l'hanno portato in massima parte gli americani; con la loro way of life immutabile sotto i più diversi cieli, con i loro alberghi a serie senza calore umano e senza i bidet, con il whisky e i soft drinks. succhi di frutta con un pizzico di fermenti o di droghe, pepsina o coca, con la loro urbanistica di casermoni senza atrii senza cortili senza balconi, con le loro pellicole (ho visto nella città cinese annunciato a grandi lettere « La caduta dell'Impero romano», chissà cosa ci capiranno), con i loro bulldozers e le jeeps e le automobili giganti. In pochi unni tutti i canali sono scomparsi, seppelliti sotto l'asfalto delle strade; uno o due ancora traversano il centro, vivi, con un tranvaino galleggiante, ma già sono condannati: la città ha due milioni d'abitanti, ha fame di aree per Il I II III I UHM IIIIIIIMIII II 11 II 1111111 II 1111 ! I ! Ili viali a sei corsie, per case di appartamenti e ambasciate ed enti internazionali e società industriali e cinematografi e alberghi e caserme e torri di ferro e di cemento. La vecchia Bangkok, con i canali e il traffico delle barche, e i mercati galleggianti sopravvive soltanto sulla sponda destra del fiume, ed è oggi richiamo per i forestieri e un campione genuino del passato; ma perdio si capisca subito che anche questa è destinata a scomparire non fa parte del comune di Bangio!:, non ha diritto a questo nome, si chiama Dhonburi, come si chiamava il villaggio che era qui alla fine del secolo XVIII e nel quale trovò primo rifugio il re e la sua corte fuggendo dalla vecchia, capitale Ayudhya occupata e incendiata dai birmani. Qui, non ci fossero i motori delle barche e i turisti americani, si potrebbe credere di essere tornati al Siam di due trecento anni fa, come lo descrisse in un suo libretto, Voiage de Siam, Le Pere Bouvet; un missionario che partecipò all'ambasciata straordinaria inviata dal re di Francia Luigi XIV, l'anno 1685, al re del Siam Fra Narai con la speranza di convertirlo al cristianesimo. Scrive Padre Bouvet: «I villaggi lungo il fiume fino a Bangcoc sono un insieme di capanne fatte di rami e di canne di bambù elevate su alte palafitte, anche queste di bambù, a causa delle inondazioni. Accanto a questi villaggi sono i bazar o mercati galleggianti dove i siamesi trovano sempre il pasto pronto salendo o scendendo per il fiume, cioè frutta, riso cotto, arachì che è una specie di acquavite fatta di riso e di calce, e certi ragù che si annunciano a due o trecento passi di distanza con la puzza che emanano». Cosi ancora si vive a Dhonburi; specialmente nei canali più stretti die si dipartono dai canali principali, nei rii, insomma. All'ombra di sventaglianti foglie di palme stanno l'ima appiccicata all'altra casupole di legno dai tetti di zinco, poco più grandi di una cabina da spiaggia, su alte palafitte; dalla porta si scende con una scaletta direttamente sulla barca legata sotto o su una tavola a pelo dell'acqua; vanno botteghe galleggianti da una porta all'altra recando viveri e combustibili e panni e le novità del mattino, scambiando con le donne sedute sulla soglia chiacchiere e mercanzia; e ogni tanto un ragazzetto, una bambinetta tutta occhi e capelli, tonfa nell'acqua o ne emerge. Nei canali più larghi il traffico, le ore della mattina, è così tumultuoso che è difficile varcare. Barche sottili, la prora e la poppa uguali, che donne vigorose vogando in piedi spingono con un solo remo, cariche fino all'orlo di roba d'ogni genere, ortaggi, frutta coloratissime, sacchi di riso, masserizie, arredi, guizzano senza urtarsi, s'arrestano di fronte ad un fondaco, ad un passaggio pensile lungo le rive, tre o quattro file di barche che caricano, che scaricano, che trafficano. Lungo i canali più larghi, oltre alle capanne, o a case con qualche pretesa, stanilo a filo dell'acqua, magazzitii, botteghe d'artigiani, caffè, piccoli ristoranti; ma ogni quattrocento o cinquecento metri la riva è spoglia di costruzioni per lungo tratto, c'è solo un muro o un orlo di prato, e trenta cinquanta metri più addietro un tempio, uno dei trecento templi della città, con i soliti tetti che si accavalciano, e tutt'intorno tempietti minori, e l'alto camino del forno ove si abbruciano i cadaveri, e le stupa, piramidi intagliatissime, decoratissime, coloritissime che hanno la forma di un campanello a mano; ma bisogna pensare ad un campanello barocco con il manico e il fondo arabescato; e alti parecchi metri. Scrive il Padre Bouvet: «Sono rimasto sorpreso quando ho visto da ogni parte in mezzo alle capanne dei siamesi sì grande numero di pagode e di monasteri di preti buddisti. Io non so dove questa povera gente trova quello che è necessario per costruire e adornare le loro pagode. I monasteri sono anche seminari ove si allevano i giovani; che in questo tempo portano il vestito dei preti ». Ancora oggi i giovani delle famiglie che professano la religione buddista debbono far servizio alcuni mesi in un convento, indossano la veste succinta dei bonzi, una specie di toga di panno arancione drappeggiata attorno al corpo che lascia nuda la \ spalla destra. Me ne parla \ | la gentile fanciulla Tha\ che \ mrsvsptrtmPqmgpagcnmsufirdvcntprompdascg mi accompagna: « Anche il re è andato a fare il bonzo, si fece rapare a zero, faceva tutto come gli altri, massaggi, curare con le erbe, partecipare alle cerimonie nel tempio la mattina e la sera, mangiare solo al mattino presto e a mezzogiorno, mendicare con la ciotola. Per tre mesi. Ma il figlio del primo ministro ha. latto questo servizio solo per un mese». (Le solite ammaniglia ture). Ancora più attuale mi è parsa la descrizione del Padre Bouvet. recandomi in automobile sulla strada lungo il fiume fino alla vecchia capitale del paese, la nominata Ayudhya. Andammo per più di un'ora su una strada diritta, il fiume da una parte il canale dall'altra, fra una distesa senza fine di verdissimi campi di riso. S'incontrava ogni tanto un paese che era un fitto di barche e di capanne: poverissime, eppure linde e ben curate; sulle verandine c'erano file di orci di terracotta dipinta, ove conservano per bere l'acqua piovana raccolta dai tetti di lamiera ondulata. Quando lasciammo la strada asfaltata e prendemmo quella di Ayudhya la trovammo qua e là allagata, andavamo a guazzo su un fondo di sassi minuti come di un greto di fiume; dove la strada usciva dalla bassura e proseguiva asciutta in lieve salita, al sommo c'erano branchi di bufali pigramente immersi -nell'acqua tranne le corna e il muso. Scrive il Padre Bouvet: «Poiché le terre sono estremamente basse sono tutte inondate durante sei o sette mesi dell'anno; le piogge che durano qui parecchi mesi di seguito gonfiano talmente le acque che ci vuole tutto quel tempo che ho detto perché possano ritirarsi. Queste inondazioni sono la causa della fertilità del regno del Siam; perché senza di esse il riso che cresce soltanto nell'acqua e di cui le campagne piatte sono tutte coperte non basterebbe a nutrire tutti i siamesi. Queste inondazioni hanno ancora questa comodità, che si può andare in barca da tutte le parti, anche traverso la campagna; e questa è la ragione che se ne vede dappertutto una sì gran moltitudine, tanto di grandi che di piccole, che io credo che nella maggior parte del regno il numero degli uomini è inferiore a quello rinite barche ». E potrebbe essere scritto oggi, come vi dirò meglio in un prossimo articolo, il periodo che segue: cGli abitanti sono buona gente, senza alcun .vizio grande, nemici del lavoro. Sono tuttavia infaticabili quando si tratta di remare. Essendo essi naturalmente pigri ed obbligati di dedicare la migliore parte dell'anno al servizio di Sua Maestà per cui lavorano come schiavi senza averne alcun salario sono tutti molto poveri. Ma gli basta poco per nutrirsi. Con trenta o quaranta soldi potete mantenere abbondantemente un siamese per un mese intiero. Questo fa che per quanto appaiano miserabili e straccioni, sono contenti del poco che hanno e vivono felici nella loro pigrizia, ait milieu de leur oisiveté ». Paolo Monelli

Persone citate: Bouvet, Francia Luigi Xiv, La Vecchia, Re Sole