Una cantata su Modigliani in prima italiana a Torino

Una cantata su Modigliani in prima italiana a Torino II eotteerti* di ieri ali9Auditorium Una cantata su Modigliani in prima italiana a Torino £' la « Meditazione sulla maschera » del pittore, composta da Wladimir Vogel w un poemetto di Felice Filippini - L'esecuzione diretta da Fulvio Vernizzi Delle numerose composizioni concertistiche di Wladimir Rudolfowitsch Vogel s'è talvolta scritto qui nell'occasione di esecuzioni nell'Auditorium o nel Festival di Venezia. Converrà tuttavia informare chi non ne ha serbato ricordo che, nato a Mosca nel 1896, il Vogel studiò composizione prima con lo Scriabin, e ne serbò l'impronta « espressionistica >, col Tiessen, che lo avviò alle teorie schonberghiane, con Busoni che, pur novatore, lo esortò alla forma e alla proporzione. Continuando a praticare il dodecafonismo, non fu lodato da chi, oltre l'applicazione di un sistema sonoro, cerca la lirica, ma d'altra parte pregiato per certi risultati drammatici in pezzi vocali e strumentali. Allontanatosi dalla Germania nel '33, vagò in Europa e sostò nel Ticino, ad Ascona, nel '35. La cantata Meditazione sulla maschera di Amedeo Modigliani, iersera eseguita nell'Auditorium, fu presentata due anni or sono dalla Radio Svizzera italiana Il testo è dello scrittore, pittore, collaboratore alla Radio svizzera, Felice Filippini, ticinese, il quale in un linguaggio realistico e sciolto mirò a una biografia del pittore italiano vissuto dal 1884 al 1920; ne rievocò il carattere oscillante, le stravaganze, le eccessività, il tardo incontro con una donna che lo comprese e sorresse, la malattia, la morte, e, per un altro aspetto, le vicende defila carriera, difficile, per il disconoscimento del valore, per le opposizioni sfogantisi anche in ingiurie plebee, le angherie dei « mei-canti d'arte >, la tarda ammirazione, anzi ce Iebrazione, delle sue opere. Ciò che importa ora, dopo l'udizione, non è l'osservazione della verità e del verismo nella biografia tracciata più o meno poeticamente, dal Filippini, bensì quella della commozione del Vogel nel far opera d'arte, nel liricizzare cioè il dramma d'un perso naggio. Dei modi prescelti nel coni porre il Vogel, è, come altri contemporanei, solertissimo espositore. Già leggemmo sue ampie dichiarazioni su questa cantata nella Scliweizerische Miisilcze.itung e nella Musica <Voggi, 1962. Bisogna che il pubblico a sua volta sappia quali principi guidano taluni compositori odierni. Dovrebbe esser evidente, e logico, ed è documentato da centinaia di capolavori in ogni secolo, che il rapporto della parola, significante o poetica, con la mu sica espressiva di sentimenti lirici non è di aggiunta casuale, indifferente, bensì di transazione, di metafora. TI Vogel invece deplora, si, che taluni musicisti oggi svigoriscano la parola fino a usarla «quale materiale fonetico» ma propone « un nuovo rapporto, cioè un conflitto fra il testo e la musica, avvio di nuovi elementi di animatici; dissocia », cosi testualmente dichiara, «il testo dalla musica, li separa, si che il realismo verbale svanisce mentre l'intima essenza di Modigliani, le tappe della sua vita, diventano percettibili attraverso la musica ». Cerchi il lettore incuriosito di tali idee altre esplicazioni dei concetti estetici del Vogel, che qui lo spazio non consente di menzionare. Lasciati da parte 1 proponimenti e le immancabili elucubrazioni sull'uso della « serie », notiamo la stesura, sommariamente, ed i risultati estetici. L'apparato orchestrale è quello normale, con quattordici strumenti a percussione. Una Voce recitante s'alterna al quartetto solistico ed a quello corale; il ritmo della declamazione secondo" la lunghezza delle sillabe è prescritto nel pentagramma, ma, avverte una didascalia nella partitura, « l'intonazione è libera ». All'inizio della cantata la soprano e la contralto e talvolta il coro echeggiano melodiando le ultime parole di ciascuna frase parlata. Dopo <In una teca di cristallo» ripetono « di cristallo ». Dopo « Una maschera mortuaria che accenna un sorriso » ripetono soltanto: «un sorriso». (E' l'effetto « naturistico » che ì secentisti italiani usarono, anche triplice, e denominarono: eco). Ma quando il Recitante dice: «Un volto lungo» tenori e soprani corali metodizzano «lungo», e i contralti soltanto: «ungo». Quando il Recitante dice: «Quello era», il Coro, « levatosi in piedi », polifonizza: «Amedeo Modigliani ». L'alternanza più volte si rinnova, e il coro « resta seduto». Qualche volta il tenore o il basso si sostituiscono al Recitante biografo; o un solista impersona Modigliani, e dice: «Son Modigliani, ebreo..., cinque franchi », e il Recitante spiega che quegli vendeva i suoi disegni agli avventori nei caffè. Le ultime parole del morente pittore: « Oh, me ne vado, mi tiro fuori dal pasticcio, Moi, je suis foutu! ». Questa la stesura, che, co¬ me si vede, vuol tentare qualche insolita combinazione. Non è con siffatte quisquilie che si fa un'opera d'arte, ma, purtroppo, non v'è altro da notare. La composizione, dispersa, confusa, è priva di sentimento, di caratteri personali. Il protagonista, malgrado la particolareggiata biografia, non si delinea drammaticamente. L'orchestrazione è opaca, con qualche guizzo ironico, la vocalità solistica indistinta, la coralità convenzionale. Unica concretezza, la narrazione del Recitante. Sicuramente diretti dal maestro Fulvio Vernizzi, eseguirono la cantata, che dura poco più d'un'ora, il Rubiski, recitante preciso nel ritmo e nella dizione, la soprano Rousseau, la contralto Las, il tenore Sinimberghi e il basso Trama, parimenti efficaci, che, insieme con l'autore, con il coro e col maestro Maghini, con l'orchestra e il concertatore raccolsero applausi. a. J, c>

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