Le masse umane e lo slancio industriale dànno a Calcutta un senso di vertigine di Alberto Ronchey

Le masse umane e lo slancio industriale dànno a Calcutta un senso di vertigine NON SI PUÒ' GIUDICARE L'INDIA CON LE MISURE DELL'OCCIDENTE Le masse umane e lo slancio industriale dànno a Calcutta un senso di vertigine La città appare immensa, formicolante e paradossale - Si calcola che abbia sei milioni di abitanti, di cui un milione senza lavoro e molti di più senza casa - Nel tempio della dea Kali si sacrificano animali, nella giungla vicina si caccia la tigre - Ma gli impianti industriali crescono rapidamente: acciaio, petrolio, juta, elettricità, con un fervore che potrebbe fare del Bengala «la Ruhr dell'Asia» - Le condizioni degli operai sono assai più dure di quelle descritte da Engels un secolo fa in Europa, ma l'unica riserva inesauribile è quella di manodopera - Non si possono fare previsioni sul futuro: la classe dirigente è debole e discorde, i comunisti filo-cinesi assai forti, le tendenze secessioniste inquietanti (Dal nostro inviato speciale) Calcutta, giugno. Passando per Agra, Luknoiv, Benares, quando s'arriva nel Bengala c come uscire da un incubo. Non più argille infocate di villaggi che vivono immobili da millenni nella segregazione castale, né pianure funeree e città coperte di polvere, santoni cosparsi di cenere e allucinati da un sole implacabile. Dove il Gange s'ingrossa e si divide in larghi defluenti verso il Golfo del Bengala, comincia tuttavia un altro incubo: qui la natura eccede in una vegetazione travolgente e ci sono luoghi in cui le piante di riso che nascono dal fondo dei pantani raggiungono dieci piedi, e poi subentra il mondo torbido e tumultuoso di Calcutta, dove le moltitudini urbane si espandono in una vitalità d'acquitrino. Calcutta mostra le sue masse umane come nessuna metropoli dell'Occidente o della Russia: masse nude e masse vestite di dhoti e sari, mulinanti sotto il temporale nella direzione del vento a decine di migliaia, nella stessa via 0 nella stessa piazza. Calcutta non è città- propizia, ai censimenti: viene supposto che sia abitata da sei milioni di uomini, ma è solo un'ipotesi. A cento miglia, nel Delta, sopravvive intatta la jungla delle leggende coloniali, dove tuttora si caccia, la tigre. L'Università di Calcutta è fuori d'ogni misura: centomila studenti (la Lomonosov di Mosca ne istruisce solo ventimila). Anche i portatori di riksciò .sono all'incirca centomila. E' impossibile applicare qui i concetti occidentali di occupazione, sottoccupazione, disoccupazione; si parla tuttavia d'un milione di disoccupati. I rifugiati indù del Pakistan orientale, vittime della guerra di religione con i musulmani, che divide il Bengala in due, vivono accampati sotto i portici, nei vicoli, sotto le pensiline delle stazioni. Gl'intoccabili immigrati dai villaggi abitano nei bustees, distese di tuguri costruiti con fango, bambù e ogni sorta di materiali, sul limitare di stagni dove si bagnano le mucche sacre; e quell'acqua viene anche bevuta. Il tasso di nascite di questi quartieri non ha termini di paragone nel mondo, e tuttavia l'albero della fertilità presso il tempio di Kalighat è carico di voti propiziatori. In quel tempio, accanto a una statua dorata di nove piedi, che raffigura la terribile dea. Kali dall'enorme lingua rossa, si sacrificano ancora il bufalo e il capretto, e sgorga da una fonte un'acqua melmosa, che è reputata balsamica per le malattie infettive. L'aria della città sa di pantano, stalla, riso al curry, fiori putridi; più o meno è così anche nel centro della city, alla Borsa. Non si pubblicano molte statistiche su Calcutta, i suoi salari, i suoi redditi; e quelle che si conoscono mettono paura. Ma la verità è sempre storica, non è mai solo statistica. Nella carestia del '1,3 morirono cinque milioni di bengalesi; oggi questo non accade più. Nelle stragi religiose del 'iti si celebravano dovunque esequie collettive delle moltitudini uccise (kerosene e fuoco); negli ultimi tumulti, a gennaio di quest'anno, seguiti alla scomparsa d'una reliquia di Maometto nel Kashmir, le vittime sono state relativamente poche, sebbene uccise selvaggiamente. E' selvaggia anche la crescita dell'industria. Vivono oggi nel Bengala le famiglie più ricche dell'India, come i Birla, che traggono origine dalla sottocasta dei Marwari, dedita all'usura, e i Singhania, paragonabili per forza patrimoniale solo alla famiglia parsi dei Tata, che prevale a Bombay. Data l'origine, la loro psicologia è finanziaria più che industriale ; ma nell'attuale fase dell'India, quella d'una società arcaica che accumula plusvalore per giungere al capitalismo industriale (privato o di Stato, questo si vedrà poi) non i-i è gran divario fra i due termini. Immenso è il plusvalore delle fabbriche distribuite intorno al porto di Calcutta, e spietata è qui la < legge ferrea » del salario, da gran tempo dimenticata in Europa, in uno scenario dinanzi al quale la Manchester descritta da Engels apparirebbe felice. Fondamento di questa Manchester dell'Asia era l'industria della juta, ma tutto vi è stato reso più tragico da fattori asiatici, come l'enorme sovrappopolazione da un lato e il fanatismo religioso dall'altro. Calcutta, già capitale dell'intero Bengala, dopo la. divisione del suo retroterra fra indù e pakistani s'è trovata sull'orlo della rovina. Le fabbriche, situate nella zona che oggi è indiana, sono state separate dalle piantagioni di juta, che erano nel Bengala assegnato al Pakistan. E' accaduto poi che hanno fatto prima i pakistani a costruire opifici propri, di quanto tempo abbiano impiegato i bengalesi indù a procurarsi juta: e oggi Calcutta si trova ton impianti vecchi, mentre l'Est Bengala opera con macchine nuove. Ma la crescita dell'industria non s'è arrestata per questo, anche se ha seguito vie tortuose (un Engels asiatico avrebbe molto più da scrivere). E' rimasto il gran traffico del tè attraverso i moli fluviali, col notevole capitale fisso del porto e delle ferrovie. A eiuesto punto, lo sviliip- po ha intrapreso vie nuove. Oggi a 35 miglia da Cai culla si costi uisce una centrale termoeleiTrica da 300 mila kilowatt; a Uurgaptir si accresce la produzione di acciaio, già avviata in questa parte del Bengala dalla Martin Bum Company; ferro e carbone (di cui è fornita anche la regione di Calcutta) giungono in abbondanza dai vicino Bihar; dai pozzi pe- trolìferi dell'Assoni scendono due oleodotti e sull'estremità del Delta, ad Haldio, deve nascere un porto marittimo finanziato dalla Banca mondiale, che consentirà l'attracco delle grandi navi. Un opuscolo della First National Bank di New York suggerisce, non senza immaginazione, che il nord-est. dell'India potrebbe trasformarsi in una Ruhr asiatica. Alcuni eventi politici, e non poche ansie per il governo di Delhi, si collegano con tali prospettive. Dal 20 ottobre al 21 novembre 1002, quando" le truppe cinesi dilagarono oltre la frontiera di Nord-Est verso la valle del Brahmaputra, si diffusero nel mondo due interpretazioni. La prima, restrittiva, che la Cina comunista volesse solo umiliare l'India per affermare la sua egemonia sul mondo di colore; la seconda, estensiva, che l'espansionismo cinese intendesse sottomettere l'Unione indiana. Oggi, ormai, prevale una tesi più complessa. La Cina non voleva appropriarsi di .',50 milioni (/'iudiani indigenti, né tenterà mai una simile conquista, che comporterebbe una guerra religiosa di cinquiiiit.'anni almeno: Pechino intendeva screditare Delhi dinanzi al mondo che crede nelle prove di forza e inoltre comprometterne l'economia mediante una costosa tensione militare, mettere in moto le forze centrifughe dell'Unione indiana, soprattutto nelle regioni che gravitano sul Bengala. A lungo termine, la Cina comunista vuole estendere la propria influenza verso Calcutta e incoraggiare la formazione d'uno Stato dell'Est (Bengala, Bihar, Assam) destinato ad essere vassallo come il Nepal e la Birmania. Il nazionalismo particolare del Bengala è sempre inquieto, gl'interessi dei suoi circoli d'affari contrastano spesso con la burocrazia e i piani di New Delhi, urtando contro i vincoli e l'austerity imposti dal centro (estremo fiscalismo, restrizioni valutarie, rigida limitazione delle licenze d'importazione). L'India non ha avuto storio unitaria, se non per opera dei Mogul e del colonialismo britannico; dopo la morte di Nehru, che seppe dominare i premiers dei 15 Stati indiani, sarebbe sufficiente i. collasso economico a provocare la crisi dello Stato. L'India ha una popolazione più, vasta e composita dell'Europa e l'hindi, il panjabi, il bengalese, l'urdù, il tamil, sono assai più distanti fra loro che le lingue europee. Non può stupire che il subcontinente sia fragile, e, che la Cina comunista voglia estendervi la propria influenza come la Russia ha fatto in Europa fino all'Elba. Il West Bengala è uno fra j maggiori centri d'espansìo- ne del partito comunista indiano Igli altri sono il Retala e l'Andhra) e localmente l'organizzazione è control lata dall'ala filo-cinese. Men tre al Parlamento panindiano di Delhi il partito comunista ha 32 deputati su 500 e 11 senatori su 232, nell'as semblea bengalese controlla 50 seggi su 252. Il sottoproletariato di Calcutta, in una jungla industriale che ucci- de l'antico castalismo reli- gioso (massimo ostacolo alla lotta di classe), accoglie il maoismo come la sua naturale espressione rivoluzionaria. Il comunismo krusceviano ne è storicamente e geograficamente assai più remoto. Alle porte dell'area di guerriglia del Sud-Est asiatico, col 20 per cento dei seggi parlamentari ed una forza, reale anche maggiore (perchè si vota col sistema uninominale) il partito comunista del Bengala opera in un terreno sul quale tutto c possibile. Jyoti Basii, segretario del partito e membro del Parlamento locale, m'ha descritto le condizioni di riuesta sottoclasse operaia con due soli esempi: le industrie di Calcutta non applicano nemmeno la legge sul salario minimo mensile di 100 rupie (13.000 lire) e non esistono assicurazioni sociali. Fra le moltitudini senza mestiere, i coolies vengono assoldati per una tariffa di 3 rupie al giorno (390 lire) che tuttavìa non sono pagate direttamente, ma consegnate ai contractors, appaltatori della bassa manodopera, e costoro ne trattengono la metà. Il ceto possidente è angusto: su 6 milioni di abitanti, circolano a Calcutta 35.000 automobili, compresi i tassi e le vetture degli uffici pubblici. Gli uomini della finanza e dell'industria, i Marwari, protagonisti dell'accumulazione, sono duri, avventurosi e vulnerabili; l'aristocrazia intellettuale appare non di rado isolata e fuori della storia che si compie con secoli di ritardo, assorbita dai riti d'una cultura archeologica o eia un cosmopolitismo altero che somiglia a una fuga pura e semplice. Ho conosciuto persone di questo ceto, viventi in ricche dimore servite da bearers e sweepers, anglomani e liberali, collezioniste di arazzi, tappeti e sculture buddiste, benefattrici e protettrici di tutte le arti hindi. Ho chiesto notizie sul controllo delle nascite e mi è stato detto che l'argomento era fastidioso; notizie sul numero dei disoccupati, e non ne sapevano nulla; notizie sul partito comunista, e ancora non ne sapevano nulla. Ho chiesto ragguagli sugli nomini che guidano la espansione industriale, e m'è stato detto: «Noi non frequentiamo i Marwari >. Il West Bengala somiglia a un corpo senza testa che cammina e non sa dove va. Alberto Ronchey

Persone citate: Assam, Bengala, Engels, Kali, Martin Bum Company, Nehru