La notte della liberazione di Roma di Paolo Monelli

La notte della liberazione di Roma VENT'ANNl FA, DOPO NOVE MESI DI OCCUPAZIONE NAZISTA La notte della liberazione di Roma I bollettini tedeschi parlavano ancora di vittoria, mancavano gas e luce, nella città tagliata in due si susseguivano le fucilazioni - L'ultimo massacro di 14 prigionieri, fra essi Bruno Buozzi - Sulla sera del 4 giugno passò per la Via Appia, in ordine perfetto, con i mitra spianati, la divisione corazzata Goering: era diretta al Nord - Non ci fu insurrezione - La gente sembrava incredula - Ma quando apparvero i primi soldati americani, spavaldi, scamiciati, disarmati, si scatenò il tripudio Roma, 3 giugno. Gli ultimi giorni di maggio, i primi due giomi del giugno 1044 la città di Roma appariva stranamente apatica, inerte, sorda al clamore della battaglia che sì avvicinava dal Sud, un cannoneggiamento continuo, e sempre più rosso il cielo notturno: segni che la liberazione era imminente. Ma troppe volte l'attesa, della popolazione era stala delusa: le ultime settimane del '43 che si vagheggiava la partenza dei tedeschi pcr Natale; la fine di gennaio quando gli alleati sbarcarono sul lido di Anzio e loro puntate offensive giunsero fino alle Frattocchie sulla Via Appia, a meno di venti chilometri dalle Mura Aureliano; i primi giorni di maggio, quando giunse improvvisa la notizia che la battaglia era ricominciata, la linea Gustav era rotta in più punti, Cassino era stata superata, l'avanzata si annunciava rapida e risoluta: ma poi l'impeto parve spegnersi,- pcr settimane ritrovammo gli stessi itomi sui bollettini di guerra, tutte le ipotesi più nere erano permesse, un nuovo arresto degli alleati, uno sgombero di Roma, una battaglia campale nei sobborghi e nelle stesse vie cittadine. Soltanto a leggere i titoli dei giornali degli ultimi giorni di maggio — e privi di informazioni esatte come si era, la radio muta il più delle sere perche la corrente se ne andava, molti non riuscivano a sottrarsi al timore che corrispondessero al vero quelle notizie di fonte tedesca — non c'era gran che da stare allegri: « Le forze germaniche si oppongono al nemico smorzando e stroncando tutti gli attacchi » (Il Popolo di Roma del 25 maggio), « la battaglia che | infuria da quattrocento ore | sta per entrare nella fase culminante » (id. 28 maggio), « la. difesa germanica consolidata infrange lo sforzo del nemico» (id. 20 maggio), < con reiterata sanguinosa violenza il nemico tenta inutilmente lo sfondamento della difesa tedesca » (Messaggero del V giugno), « il bollettino del quartier generale tedesco del 2 giugno annuncia che tutti gli attacchi alleati sulle pendici sud-orientali dei Colli Albani sono stati respinti » (Messaggero del 3 giugno). E le trepide speranze di chi vedeva il frettoloso sgombero dei comandi tedeschi in via Veneto e in corso d'Italia, la partenza di autocarri carichi di scartoffie e di bottino (ma la città era divisa in compartimenti stagni, molti quartieri non ebbero notizia alcuna di questo esodo), anche quelle trepide speranze sembravano fallaci, considerando che durava tuttora l'afflusso tracotante sulle strade della periferia di fanterie e carri e rifornimenti diretti al fronte del Sud. E offriva nuovi motivi di apprensione, che la battaglia potesse travolgere l'intiera città, il protervo contegno dei tedeschi che preparavano apertamente la distruzione dei ponti degli acquedotti delle centrali elettriche, che scavavano trincee davanti alle Mura Aureliane e sgombravano i sobborghi meridionali e moltiplicavano gli arresti e le fucilazioni; finché il 2 giugno collocarono guardie armate ai ponti del Tevere vietando il passaggio ai cittadini, sì che la città rimase tagliata in due. I quotidiani bombardamenti sui Monti Cimini, sui Colli Albani, sulle strade consola- ' ri, davano l'angoscia di un assedio sempre più stretto; ed erano interrotti i telefoni, la corrente elettrica sempre più rara o intermittente, il gas scomparso, razionato o mancante per ore ed ore il flusso degli acquedotti. Improvvisamente, sul mezzodì del S giugno, la cittadinanza si scosse d'un colpo da quel disperato letargo, fu. tutta in piedi, alacre, eccitata, quando senza preavviso alcuno tutto l'esercito tedesco del Sud cominciò ad hivadere la città, le grandi strade che l'attraversavano da un capo all'altro; ma una invasione benefica, di soldati battuti che fuggivano dalla battaglia. Non un si salvi chi può: una ritirata di reparti ancora composti, con facce indurite da un'ostentata disciplina, le armi puntate contro le finestre delle case; un frettoloso e talvolta aggrovigliato incalzarsi di veicoli d'ogni genere, automobili requisite, carri coperti di frasche, salmerie, e ogni tanto mandrie di cavalli e di bovini; e autocarri stipati di feriti (due ne vidi in viale Parioli, carichi di morti). Tutto quel pomeriggio, tutta la notte del giorno seguente fu un transito ininterrotto. L'alba del 4 si levò fosca, immersa in una nebbia fittissima che irritava gli occhi: una nebbia artificiale diffusa pcr occultare l'ampiezza della ritirata agli osservatori aerei. Mentre fino allora c'era sembrato di assistere piuttosto ad uno sgombero di servizi di retrovia, ora sfilavano le truppe combattenti, divisioni di fanteria motorizzata, paracadutisti, reparti delle SS, specialisti del Genio con macchine e attrezzi, carri cingolati, carri armati, artiglierie. Poco dopo il mezzogiorno del .', quella marcia disperatamente e meccanicamente ordinata incomincia a scomporsi, avanzano soldati che si ritirano a piedi, laceri, sudici, come sbandatiEra già il pomeriggio avanzato quando entrarono dalla Via Appia, in ordinanza perfetta, gli uomini con una grinta da conquistatori, le mitragliatrici sulle torrette cercando un bersaglio, i carri corazzati della ferrea divisione Goering reduce da sanguinosi combattimenti sul fronte della testa di ponte di Anzio. E questi furono gli ultimi, retroguardia pronta a voltare i carri e contrastare ancora l'avanzata vittoriosa del nemico. Scomparso l'ultimo carro tedesco oltre ponte Milvio, fuggiti dietro a loro gli ultimi funzionari fascisti, Roma fu come una silenziosa necropoli, le vie deserte e senza suono. Roma è libera. Ma vi sono quartieri che non lo sanilo ancora; la gente serrata in casa tende l'orecchio al rombo della battaglia che pare immobile dalla parte di mezzodì, o specula dalle terrazze verso i colli dei Castelli gravati da una caligine in cui si aprono i lampi degli scoppi. E vegliano ancora le guardie al capo dei ponti, sentinelle perdute. Gli abitanti fuori Porta del Popolo trepidano ad un vicinissimo fragore di combattimento; sapranno solo il giorno dopo che si sono sparati addosso i legionari del battaglione Barbarigo che per fuggire più in fretta volevano impadronirsi dei carri della Pai (Polizia dell'Africa Italiana), e gli uomini della Pai che glieli contendevano. Fin dalla sera del 3 qualche patriota, sicuro che i tedeschi se ne andavano definitivamente, si dette pensiero della sorte dei prigionieri politici. Narra Carlo Trabucco nel suo diario pubblicato col titolo < La prigionia di Roma »: « Quale sarà la sorte dei prigionieri di via Tasso e di Regina Coeli? Speriamo non abbiano tempo di portarli via. Stamane parlavo con Vasile dell'opportunità di tentare un colpo di mano per liberarli. I patrioti ci sono. Domani si vedrà il da fare ». Non si fece nulla. I carcerati di Regina Codi si trovarono senza guardiani il mattino del 5; e mentre altri assalivano le caserme abbandonate, gente si buttò a saccheggiare la lugubre casa di via Tasso già sgombra; ma i prigionieri più importanti erano stati avviati al Nord il giorno precedente: fra i quali quel gruppo di quattordici di cui facevano parte Bruno Buozzi e il generale Dodi affidati ad un sergente delle SS: il quale giunto a pochi chilometri dalla città pensò che quegli ostaggi prendevano troppo posto nell'autocarro, si poteva caricare in luogo loro tanto buon bottino: e gli ordinò di scendere, e li fece fucilare tutti e quattordici. L'organizzazione clandestina restò cheta ad attendere che gli ultimi tedeschi si fossero dileguati ubbidendo, come scrive Vittorio Gorresio nel suo < l/n anno di libertà », od un ordine che il generale Alexander aveva impartito ai patrioti romani, di non compromettere la sorte della città con una insurrezione che militarmente sarebbe stata inutile. (Leggo invece in « Due anni di storia » di Attilio Tamaro che il 3 giugno Alexander lanciò per radio la parola d'ordine «Elefante» che significava < insorgere ». Forse nessuno captò il messaggio, forse fu subito evidente che i tedeschi non avevano alcuna intenzione di far brillare mine o tagliare le linee di comunicazione). All'alba del giorno seguente, il 5, i cittadini, finalmente persuasi che erano liberi vedendo affluire le fanterie alleate sciolte apparentemente da ogni disciplina Ci plinti carri armati giunti sulla mezzanotte erano subito ripartiti ad inseguire il nemico), un carosello di jeeps e di automobili con a bordo i più spavaldi e i più ridanciani soldati del mondo, disarmati, scamiciati, che si divertivano a lanciare pacchetti di sigarette e caramelle e scatole di carne, i cittadini esplosero in un tripudio esultante che fece arricciare il naso ai compassati inglesi, e fu definito < carnevalesco » dai disgustati francesi (dagli ufficiali, che i loro soldati erano tutti marocchini intenti solo a far bottinò e violenza). E dentro quel tumulto giubilante, di gente di ogni classe, e dame aristocratiche e pupe trionfali ben felici se da una jeep si protendevano due braccia a issarle a volo dentro la vettura, si agitavano giovinotti con fazzoletti rossi o azzurri al collo, con bracciali di ogni colore, la pistola alla cintura, o una collana di bombe a mano, o un mitra penzolo dalla spalla, che si davano tanto da fare, ed a vuoto. Ma ventiquattr'ore dopo il colonnello Pollock capo della polizia alleata ordinava, « basta con i bracciali, via le armi, tutti a casa ». illa bisogna dire che una giustificazione c'era a quel gaudio scatenato. Se gli alleati si stupivano di trovare una città intatta, (nessuno gli aveva avviati ai quartieri Tiburtìno, Prenestino, Tuscolano distrutti dai bombardamenti a tappeto, del 19 luglio e del 13 agosto del '1,3, alle macerie che testimoniavano migliaia di morti!, di sentirsi intorno il giolito di una cittadinanza che pareva non avesse più una cura al mondo (il giornale di guerra dei francesi sotto una fotografia rappresentante una scena di gente acclamante scrisse: « des vìvats pour des cigarettes »), non potevano immaginare quanti lutti, quante sofferenze segrete avevano preceduto la libe razione. Nove terribili mesi di attesa sconsolala, il quotidiano stillicidio di arresti, di sevizie, di razzie, di esecuzioni capitali, il rosario dei divieti irritanti e dei bandi che comminavano la morte per ogni sia pur lieve infrazione alla legge tedesca di guerra; e la lotta oscura contro la miseria e la borsa nera; e nei primi mesi del '44 una dozzina di attacchi dall'alto con centinaia di morti ogni volta. Mentre così la gente folleggiava e carolava, migliaia di cittadini accorsero a Piazza San Pietro chiamando fuori il Pontefice, agitando bandiere rosse e tricolori, e mischiati ad essi soldati britannici americani marocchini polacchi australiani canadesi indiani; e il Papa si affacciò la mattina presto a benedire, ed una seconda volta verso le dieci, che tutta la piazza era gremita, ed un gigantesco carro armato sostava lungo il colonnato. Il Papa lo vide, e subito si ritirò dalla finestra e fece telefonare alla segreteria di Stato perché lo facesse allontanare. L'ordine fu trasmesso, il carro se ne andò, ma subito ne sopraggiunse un altro. Il Pontefice non si affacciò più fino al tardo pomeriggio, quando fu certo che la piazza era sgombra d'ogni ordigno di guerra. < Questa — scrisse don Al- berta Giovannetti nel suo diario di quei giorni pubblicato sotto il titolo "Roma città aperta" — questa è la prima manifestazione dei fermi e perseveranti interventi della Santa Sede perché Roma conservasse il carattere di città aperta anche dopo l'arrivo delle truppe alleate ». La scalmana popolare durò fino a buio. Nel pomeriggio qualcuno forzò le porte del deserto Palazzo Venezia; dietro a quei collezionisti di cimeli si mise un soldato americano, trovò chissà come la sala del Mappamondo, v'entrò, spalancò la vetrata, e dallo storico balcone fece un eloquente e incomprensibile discorso alla folla, proprio da ciucco. Durò una quindicina di giorni l'euforia della cittadinanza: finché durò il pane bianco. La sussistenza alleata, avvertita che le scorte di farina per il pane erano esaurite, subito fece arrivare dal Sud una farina bianca lievissima, da ostie, con la quale i fornai confezionarono i più eterei panini del mondo. E i romani sgranocchiando quel pane d'ambrosia ne trassero argomento per credere che ormai si fosse fuori da tutte le angustie, all'inizio di un'era di cuccagna. Un r/uotidiano molto serio annunciò che era imminente la distribu¬ zione di un primo pacco viveri a ciascuno degli abitanti della città: 1600 gr. di farina bianca, 300 gr. di zucchero, una scatoletta di latte condensato e scatolame vario; specificando che sarebbe bastato un tagliando della tessera dei generi vari per ritirarlo il lunedi seguente. La notizia era falsa, naturalmente, e le autorità alleate s'arrabbiarono molto, e minacciarono di sopprimere il giornale; ma riecheggiava le fantasie ottimiste della gente. Nessuno avrebbe potuto immaginare, in quei quindici giorni, finché non tornarono le pagnotte nere e mollicce, che sarebbe ben presto ricominciata una eterna serie di giorni altrettanto squallidi e foschi come quelli della vigilia: ancora il coprifuoco, ancora la carestia, ed una borsa nera esosa e ricattatrice; e un inverno rigido, senza luce, senza fuoco; e la città tornata ad essere un ghetto miserabile, le vie principali invase da un brulicare di ragazzacci cenciosi, sudici, petulanti, formicolanti intorno ai soldati alleati, a cui lucidavano le scarpe e offrivano abbietti servizi. E scomparsi quegli amabili generosi soldatoni dei primi giorni, americani soprattutto tanti dei quali avevano nomi di casa e parlavano un nostro dialetto, e polacchi nostalgici, affettuosi, ansiosi di render servigio, ripartiti per il fronte del Nord. Gli dettero il cambio soldati mandati alla Capitale a passarci la licenza; ed essendo in licenza volevano fare baldoria e fracasso, whoopee, come dicevano nel loro gergo; e dopo aver bevuto mettevano tutto a sobbollo, spaccavano vetrine, sfasciavano il muso ai passanti, strappavano a un cittadino la donna che aveva sottobraccio, si facevano consegnare con la pistola in pugno l'automobile per rientrare all'accampamento. Erano diventati insomma il nostro pericolo numero due: essendo il numero uno i ladroni, grassatori, predoni, che in quel tristo tempo venivan su come i funghi. Paolo Monelli Le frecce indicano le nell'avanzata che li portò direttrici di marcia degli alleati alla liberazione di Roma