Tra gli Stati Uniti e la Francia gollista rapporti sempre più tesi, e anche dispetti di Vittorio Gorresio

Tra gli Stati Uniti e la Francia gollista rapporti sempre più tesi, e anche dispetti ORGOGLIO E SOLITUDINE DI PARIGI DAVANTI AGLI ALLEATI Tra gli Stati Uniti e la Francia gollista rapporti sempre più tesi, e anche dispetti De Gaulle non interverrà a fianco di Eisenhower alla celebrazione dello sbarco in Normandia, e non manderà neppure il suo primo ministro - E' l'ultimo gesto di una lunga polemica: da due anni le truppe americane sono escluse dalla rivista del 14 luglio, e le divisioni francesi sono sottratte al comando della Nato - II governo nega di seguire una politica anti-americana: esso segue soltanto (si afferma) una linea indipendente - Ma la passione nazionalistica porta molto lontano (Dal nostro inviato speciale) Parigi, maggio. Alle celebrazioni che si terranno i primi di giugno, nel ventesimo anniversario dello sbarco degli alleati in Normandia, sarà presente Eisenhoicer, e probabilmente anche Churchill. De. Canile invece non interverrà e Pompidou nemmeno, dato che non ci saranno da ricevere capi di Stato o di governo. Questa giustificazione è stata fornita ufficialmente da un portavoce qualificato, e naturalmente non ha convinto né soddisfatto perché a tutto c'è un limite, anche al feticismo per il protocollo. Alcuni giornali hanno protestato dignitosamente — Le Figaro, ad esempio — contro una sconvenienza che si condanna da sé non tanto come ingratitudine nei confronti dei liberatori della Francia, quanto come goffaggine. Tuttavia proprio la goffaggine ha provocato un'immediata rappresaglia americana della stessa natura; e quasi in gara a misconoscersi a vicenda, ì se la Francia non vuole rin- graziare Eisenhower, ora gli Stali Uniti affettano di aver dimenticato La Fayettc. Mercoledì scorso, riferendo sul Vietnam alla Commissione per te forze armate della Camera dei Rappresentanti, il segretario di Stato americano alla Difesa, Robert McNamara, una delle teste forti dell'amministrazione attuale e probabile candidato democratico alla vicepresidenza nelle prossime elezioni, ha trovato modo di elencare i grandi soldati stranieri che un giorno contribuirono all'indipendenza degli Stati Uniti: sarebbero stati due polacchi, Tadeusz Kosciuszko e Kazimier Pulaski, e un barone prussiano, Friedrich Wilhelm von Steuben. Di La Fayette, nessun cenno da parte di McNamara. L'omissione è stata poi spiegata dal portavoce del Pentagono con motivi equivalenti a quelli cercati dal suo collega di Parigi. Protocollari i motivi francesi, gerarchicodisciplinari gli americani: « Il marchese di La Fayette non è stato ricordato perché egli guidava truppe che erano poste sotto il comando di George Washington ». Ma anche i tre altri, naturalmente, i due polacchi ed il prussiano, obbedivano a Washington. In più, von Steuben dovette cedere il passo proprio a La Fayette nel comando della Virginia, e sempre mai Kosciuszko agì in sottordine quale comandante del Genio, ed infine Pulaski fu un modesto — anche se eroico — colonnello di cavalleria morto a Savannah giovanissimo. Storicamente infondato il pretesto, ne è stata resa più grave la sgarberia polemica che forse non a caso mercoledì scorso veniva a coincidere con il 130" anniversario della morte di La Fayette (20 maggio 1H3.',J celebrato a Parigi con una degna cerimonia, alla quale era presente anche l'ambasciatore degli Stati U7iiti in Francia, Charles B. Bohlen. L'omaggio implicito nell'intervento di Bohlen veniva così annullato dal contemporaneo affronto di McNamara, e l'affronto comunque era accresciuto dalla motivazione specifica, quella subordinazione di La Fayette a Washington che era superfluo ricordare e che pertanto veniva ricordata per malizia pura, una malizia intesa a richiamare un'altra passata subordinazione di francesi ad americani: di De Gaulle, ovviamente, ad Eisenhower; e questa volta in territorio francese. Battaglie simili a punture di spillo non sono nuove tra francesi ed americani. Un clamoroso precedente simbolico era stata la decisione presa da De Gaulle nel 1962 di escludere le truppe americane di stanza in Francia dalle sfilate del H luglio, alle quali esse avevano sempre partecipato in tutti gli anni del dopoguerra. Tanto più grave, la decisione, perché teneva dietro a certe altre parale che nel mese di giugno di quell'anno avevano sancito la novissima fratellanza d'armi franco-tedesca. Nella campagna di Mourmclon, una cittadina presso Reims, nella zona di Francia che per tre volte in settanl'anni ha conosciuto l'invasione (prima degli « Unni » di Guglielmo I, quindi dei Boches di Guglielmo II e finalmente dei Nazis della Reichsicehr) formazioni miste di Paras francesi e di Panzergrenadieren, fanti, artiglieri, carri armati, autoblindo, missili c sr;uadriolie di reattori dei due paesi avevano manovrato insieme alla presenza del cancelliere federale e del generale presidente della Quinta Repubblica. I comandanti dei reparti in esercitazione, il generale tedesco Jordan e il colonnello francese Buttner, si erano poi abbracciati, e finalmente, fatta insieme colazione a Reims, De Gaulle e Adenauer avevano pronunciato brindisi ciascuno nella lingua dell'altro. A conclusione di tutto questo, come si è detto, di ritorno a Parigi De Gaulle aveva messo al bando le truppe americane per il li luglio. La continuità delle punture di spillo corrisponde del resto ad un costante progressivo peggioramento della sostanza dei rapporti. Come oggi l'astensione di De Gaulle dalle celebrazioni ventennali dello sbarco alleato in Normandia è un riflesso del graduale sganciamento delle forze francesi dall'Alleanza atlantica (confermato nell'ultima riunione della Nato all'Aia), così la triste storia delle parate con i tedeschi e senza gli americani aveva coinciso due anni fa con il rifiuto di De Gaulle a «restituire » al comandante atlantico, generale Norstad, le divisioni francesi di spettanza della Nato. Erano divisioni di citi la Nato aveva cortesemente consentito lo sblocco ancora durante, la Quarta Repubblica, quando era al governo Guy Mollet, per lasciarle impiegare in Algeria, con l'intesa che venissero restituite alla fine della guerra. Terminata la guerra, invece, De Gaulle proibì al suo ministro della Difesa, Pierre Messner, di mettere anche un solo soldato francese agli ordini di Norstad. Ce general américain qui me gène, come De Gaulle usava indicare il comandante atlantico, senza neppure farne mai il nome. Norstad allora diede le dimissioni e un mese dopo, nell'agosto, si dimise anche un altro generale americano in Francia, James M. Gavin, ambasciatore degli Stati Uniti a Parigi. Ma non si deve immagii nare che a De Gaulle fac! ciano impressione le dimissioni altrui, che egli non riesce nemmeno a considerare come un atto di protesta e che vede piuttosto come il più ovvio e naturale comportamento di chi finalmente riconosca di avere persa una partita intentata contro De Gaulle. Per altro verso, ma nello stesso senso, quando si va a dire che la politica francese segue una linea antiamericana, viene in risposta una smentita meravigliata e abbastanza sdegnosa. Dice ad esempio Couve de Murville, ministro degli Esteri: « E' un'impressione errata. E' un errore che nasce dalla vostra idea che noi non possiamo avere una politica o una posizione se non in funzione di quella degli Stati Uniti. La nostra politica è invece fondata su quelli che noi pensiamo siano i nostri interessi e gli interessi de! mondo cui apparteniamo, il mondo libero. Può darsi, come è accaduto che la nostra politica non segua le stesse linee di quel- la americana Ma questo non perché noi vogliamo che sia diversa. Semplicemente è perché diverso è il nostro giudizio sui fatti ». E' una diversità, comunque, probabilmente insanabile, poiché al concetto pratico dell'interdipendenza quale in genere c inteso in Occidente, De Gaulle oppone il principio, quasi la mistica, dell'indipendenza assoluta della Francia: «Bisogna che la difesa della Francia sia francese. Un paese come la Francia, se gli capita di dover fare una guerra, bisogna che veramente sia sua la guerra che fa. Bisogna che la Francia si difenda da sé; per sé; ed a suo modo. Se ammettessimo che la difesa della Francia può esulare dal quadro nazionale per confondersi o fondersi con altra roba, ci sarebbe impossibile far sopravvivere lo Stato». Per chiamare le cose con il loro nome, questo è nazionalismo; ma lo difende Pompidou, bonariamente: «Proprio non vedo — dice il primo ministro di De Gaulle — perché dovremmo intendere il termine nel suo senso peggiorativo, poiché si tratta semplicemente, per la Francia e per il governo francese, di conservare l'originalità e, per quanto possibile, l'indipendenza del paese». Il più- franco è Malraux, che teorizza, rivendicando una specie di diritto-dovere della Francia ad essere nazionalista: «I nazionalismi sono superati? Non ci credo affatto. Questo fa parte di un grande equivoco storico desolante. Il secolo XIX supponeva che i nazionalismi fossero delle ipotesi provvisorie e che il XX sarebbe stato internazionalista. Ebbene, il XX secolo è stato finora internazionale, o non piuttosto il secolo delle guerre nazionali? Andiamo! Il fatto vero è che il nostro secolo vive in pieno il suo dramma, che è il dramma nazionale. E' il secolo delle Nazioni, e il nostro problema capitale, inderogabile, che dobbiamo riconoscere sotto pena di non sapere nemmeno più di che cosa si sta parlando, è conciliare la realtà fondamentale della Nazione con il nostro desiderio, non trascurabile anche se piccolo piccolo, di sperare nella felicità del mondo ». Malraux si eccita, si scalda. E' alla fine di un pranzo che i rappresentanti della stampa americana e inglese gli hanno offerto nella sede del « Cercle Interalié », rue du Faubourg Saint-Honoré: «Ma quelli che facevano i commissari sovietici del popolo in giubbotto di cuoio, trasformati come sono in marescialloni russi dorati su tutte le cuciture, sono espressione di internazionalismo? E quello che era il paese più internazionale del mondo, e si chiamava la Cina, è proprio molto internazionalista oggi? E' internazionalista l'Italia? E' internazionalista la Germania? Andiamo, signori, siamo seri...». L'invito è fatto onestamente, ma in nome della serietà quanti delitti; e quante stupidaggini, quante punture di spillo, quanti pericoli soprattutto. Vittorio Gorresio