Venticinque milioni di contadini miserabili si risvegliano nell'arcaico Brasile dei Tropici

Venticinque milioni di contadini miserabili si risvegliano nell'arcaico Brasile dei Tropici LE TERRE DELLO ZUCCHERO, PEL CACAO E DELLA FAME Venticinque milioni di contadini miserabili si risvegliano nell'arcaico Brasile dei Tropici Il Norcleste, grande come mezza Europa, non ha nulla di comune con le province industrializzate del Sud - E' il paese del latifondo, con pochi feudatari ricchissimi e infiniti braccianti sensibili al richiamo castrista - Ora, dopo il colpo di Stato, la situazione è di nuovo tranquilla: Francisco Juliao, il capo delle Leghe contadine, è scomparso in qualche inaccessibile rifugio - Ma le inquietudini rivoluzionarie continuano a fermentare attorno a Recife: la «sognante Venezia tropicale», carica di sensualità e di fanatismo (Dal nostro inviato speciale) Recife, maggio. Affacciata alla fangosa vastità dei canali in etti s'impaluda l'immensa foce tiri Rio Gapibaribc, Recife culla l'antico sogno di terza capitale del Srasile; in realtà c la capitale di una regione casta come un continente, il Nordeste e l'estremo Nord, cingile milioni di chilometri Quadrati, che di brasiliano hanno soltanto la lingua, un portoghese addolcito dulie morbide cadenze negre e dal cantante SQulttìo indio. Il tipo umano che popola Recife e tutto il Nordeste è la risultante di mescolanze com- plesso; il bianco colono europeo, il nero schiavo africano e il rossastro indio che abitava ila sempre le foreste, si sono fusi naturalmente, generando i « nordestini » attuali, gente di aspetto e temperamento diversissimi dagli altri brasiliani. Di statura minuta, con un'ingannevole soavità negli occhi obliqui, rivelano la prevalenza del sangue indio, e sotto l'apparente mitezza celano la congenita inclinazione a esprimere in forme violente l'esuberanza tropicale che gli gonfia il sangue. Recife è una città contraddittoria; ricca e miserabile, pigra e febbrile, voluttuosa e ascetica, esprime compiutamente il Nordeste ed i suoi problemi. Accanto ai pochi Cresi che, annegano nella dolciastra ricchezza dello zucchero, midolli di «nordestini» non hanno il necessario per vivere. Di costumi liberissimi, si accende il fanatismo religioso ad ogni solennità; svigorita dal caldo tropicale, Recife formicola fin dall'alba come una grande città industriale, e la sua sola industria è il ripiego che ognuno dei suoi abitanti escogita per campare almeno quel giorno. Definita « la sognante Venezia dei tropici », Recife è un immenso crogiolo in cui ribollono angoscianti bisogni e ribelli insofferenze. Quando si dice che il Brasile, e l'intero continente sudamericano, potrebbero essere « cubanizzati », se lo volessero i venticinque milioni di uomini che conducono un'esistenza disperata nell' immenso triangolo della fame, non si dice una frase ad effetto; bisogna aver conosciuto i «nordestini » nel loro ambiente per rendersi conto di che cosa sarebbero capaci il giorno in cui un Caudillo nordestino sapesse convogliare l'iraconda forza che li agita, già arrivata a saturazione esplosiva. Questo caudino era apparso all'orizzonte, ma la rivoluzione dei generali lo ha ricacciato nell'ombra della clandestinità. Visionari fino al fanatismo, imbevuti di magia e superstizione, i « nordestini » attendono che Francisco Juliao, il loro Caudillo fondatore delle «Leghe contadine*, torni per guidarli alla vittoria. Juliao non i parlava di riforma agraria; convinceva i contadini del loro diritto ad occupare le terre su cui lavorano come schiavi. Piccolo, asciutto, dallo sguardo insondabile, egli sapeva parlare alle masse, di cui conosceva l'irrazionale passionalità usando il linguaggio elementare della violenza e, come mi disse mons. Helder Camara, l'audace arcivescovo di Recife e Otinda, riuscì a destare una coscienza sindacale nelle moltitudini amorfe dei braccianti agricoli. Tutto il Nordeste era già sufficientemente cubanizzato, ed è sintomatico che la rivoluzione dei generali abbia incontrato resistenza soltanto in queste regioni. Ufficialmente si parla di numerosi arresti, ma viaggiando attraverso le piantagioni di canna e. conversando con i contadini; le. notizie, erano assai differenti; molti organizzatori delle « Leghe contadine» sarebbero stati uccisi durante i giorni torbidi della rivoluzione. Ora tutto sembra finito, Juliao è fuggito chi sa dove, forse nell'impenetrabile Mato dell'altopiano dove si dice stia organizzando la guerriglia, e Recife ha ripreso il consueto volto di città tropicale, stordita dalla calda atmosfera estenuante che scende col fiato rovente dal vicino Equatore. apparentemente rassegnata alla sconfitta. Passeggiare la sera lungo i canali, sfiorare la. folla, promiscua seduta sui bassi argini di pietra, si scopre il volto autentico di questa città che cova quasi voluttuosamente il suo rancore. Mi dissero poi che quei luoghi, pure centralissimi, sono poco raccomandabili, le molte ragazze sedute con aria distratta e dall'aspetto perhenino, in realtà attendono l'invito del passante occasionale. Quem me quer, chi mi vuole, sembrano dire i loro grandi occhi di smalto bianco dilatati sul bruno faccino, un'offerta di se stesse che quasi sempre è il ripiego per sopravvivere. Il lungofiume sì chiama ormai Quem me quer, un'esposteione che il turista potrebbe scambiare per color locale, ed è invece l'aspetto dolente di Recife nascosto sotto l'orpello del gaudio notturno. C'è da stupirsi se Francisco Juliao ha avuto tanto successo, se il castrismo ha fatto tanti proseliti! Domandavo ad un contadino t/uanto guadagna al giorno, mi rispondeva: « Dipendi', qualche volta sessanta, qualche volta trecento cruzeiros. Tradotti in moneta italiana, sono quaranta lire, oppure duecento. Esiste un contratto di lavoro che impone 31 pitia, cruzeiros al mese, ma soltanto per i tagliatori ili canna, e per circa quattro mesi l'anno. I fazenderos Io hanno accettato soltanto sei mesi addietro sotto la .spili- j ta violenta delle «leghe» ili Juliao e dei sindacati rurali cattolici, ma hanno approfittato della rivoluzione per abolirlo immediatamente. Discorrevo di questi drammatici aspetti ilei Nordeste con Gilberto Freyre, il noto sociologo i cui libri sono tradotti in molte, lingue; Einaudi pubblicherà Padroni e schiavi, l'epopea del periodo schiavista nel Nordeste che conserva una terribile validità. Nella sua bellissima casa ili Apipuco, quartiere periferico di Recife, una dimora coloniale del secolo XVI con le pareti adorne di preziosi azulejos e le stanze raccolte attorno al patio jollo di piante tropicali, egli presenta il Nordeste filtrato attraverso l'arte e la scienza, ma senza privarlo dei suoi aspetti dolorosi. Con rigore di studioso e risonanza internazionale, egli ha localizzato le cause delle, condizioni tragiche in cui riiotio nel Nordeste 25 milioni di uomini, un terzo della popolazione brasiliana. Il latifondo, la mentalità ! feudale dei fazenderos dello zucchero, il disinteresse delle autorità centrali, larghe di concessioni soltanto agli Stati che per tradizione imponevano alternativamente il loro presidente della Repubblica (cioè San Paolo e Minas Gerais), hanno favorito una caotica industrializzazione in pochi centri meridionali e spinto il Nordeste ai margini della vita nazionale, riducendo all'indigenza regioni che per secoli fornirono la ricchezza al Brasile con lo zucchero, il cacao, il cotone, il tabacco. Mentre San Paolo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte esplodevano con rabbiosa energia creando il volto del nuovo Brasile temerario e senza scrupoli, Recife e Bahia continuavano l'arcaica esistenza coloniale tra la piantagione di canna e il decrepito mulino per lo zucchero, girato a braccia dagli ex schiavi. La conversatone di Gil¬ berto Freyre, come la sua scrittura, ha toni crepuscolari, la memoria rivive lontane esperienze colorandole ili fantasia. Abbandonato nell'ampio seggiolone di palissandro, mi raccontava episodi curiosi della vita nordestina, questo angolo di mondo in cui sono confluite tre razze, l'africana, l'europea e l'india, che hanno trovato un perfetto punto di fusione. Dalla sua narrazione emergeva un'esistenza pacificata se non felice, un sistema di vita patriarcale in cui anche lo schiavo aveva una riconosciuta dignità umana. Mentre discorreva accarezzandosi sovente i candidi capelli con le lunghe mani aristocratiche, vedevo sorgere dal fondo del tempo il vecchio Brasile coloniale, le lotte che il Portogallo dovette sostenere contro le altre potenze, l'arrivo degli olandesi e la fondazione di Olindo, il germe lontano di Recife. Ero appena tornato da una visita, all'antica cittadina, che ha conservato intatta la, sua fisionomia di città coloniale, con le chiese d'aspetto severo, un greve barocco in cui il grigio della decorazione prevale sul bianco e sull'oro, e le cosine affacciate ai canali ed alla spiaggia con una architettura estranea a queste latitudini. Sostando in un villaggio distante sessanta chilometri da Recife, andai a cercare padre Melo, il combattivo parroco di Cubo che la polizia considera pericoloso quanto Francisco Juliao per la sua esplosiva attività sindacale. Il sacerdote non c'era, un vecchio sacrestano che guardava la casa parrocchiale invasa da galline mi disse che difficilmente lo avrei trovato, perché padre Melo preferiva non impegnarsi in dichiarazioni dopo quanto era accaduto 'la rivoluzione dei generali). Continuai il viaggio per arrivare puntuale alla casa di Gilberto Freyre, e, nonostante le modeste testimonianze del progresso tecnologico, avevo la sensazione di viaggiare attraverso un mondo immobile da secoli. La donna india vestita di nero, la lunga treccia nerissima e lucente, la pipa tra i denti canrlieli, accoccolata ai margini della strada in attesa di un autobus che sarebbe passato dieci ore dopo, poteva essere l'immagine di questo Brasile rassegnato e fatalista. I negri che camminavano fra i campi reggendosi alla coda dell'asino, sembravano figure inanimate, esseri «sottoumani» come li aveva definiti mons. Helder Camara. Ma appena si avviava il discorso, gli si domandava quanto guadagnano, che cosa desiderano, i loro occhi bianchi si dilatavano, le parole sibilavano come frustate, nell'impeto impugnavano il facon, il lungo coltellaccio col quale tagliano la canna, e, lo agitavano come una scure vendicatrice, il nome di Francisco Juliao li faceva fremere. Qualcosa, dunque, è mutato anche nel Nordeste; si è formata una coscienza umana in questi esseri che fino a ieri parevano rassegnati all'esistenza opaca, di una larvata, schiavitù. Sarà assai difficile ripiombarli nelle condizioni primitive cui sembravano condannati per sempre. Francesco Rossa