L'Ungheria si presenta a Cannes con una polemica anti-borghese

L'Ungheria si presenta a Cannes con una polemica anti-borghese GIORNATA m TONO MINORE ALLA RASSEGNA DEL CINEMA L'Ungheria si presenta a Cannes con una polemica anti-borghese «Allodola», del regista magiaro Ranody, è la storia di una ragazza brutta, che i genitori non riescono a far sposare • «La morta di Beverly Hills», della Germania Occidentale: un giallo erotico indegno di un Festival, con le gemelle Kessler (Dal. nostro incinto speciale) Cannes, 2 maggio. Dopo il brasiliano « Virlas secas > e il francese « 100.000 dolIeri al sole », di cui si è parlato ieri, abbiamo avuto alla ribalta Ungheria e Germania Occidentale, che insieme non hanno combinato molto, regalando al festival, un po' troppo presto, la prima giornata interlocutoria. Alle rassegne internazionali il cinema ungherese suole affacciare nobiltà di sentimenti e lindura di forme, ma non film che lascino il segno e non facciano pensare a un fondo di gratuità. Così è stato anche quest' anno con « Pacsirta » («Allodola»), diretto dal noto regista danubiano Laszlo Ranody, che s'è giovato d'un romanzo del suo illustre compatriota Dezso Kosztolanyi. Finora il deserto ha avuto gran parte in quest'inizio di festival e, come vedrete, continua ad averla. L'allodola del titolo è figurata (ma per maggior chiarezza le corrisponde nel film un volatile domestico che la fine muore in gabbia per incuria), e sottintende l'allusione al deserto della vita, negato ai voli e. ai trilli. Allo stesso tempo è un grazioso nomignolo, di quelli che i genitori danno alle beneamate figliuole e che invecchiano con queste, a rìschio e pericolo della proprietà. Nel nostro ca.<o, quel nomignolo si è addirittura ridotto a una presa in giro. Nata da un padre vecchio, archivista a riposo, Allodola è cresciuta brutta, vizza, massaia, e dolorosamente rassegnata al suo destino di nubile. Tutta denti, e nella quasi impossibilità di ritirarli, ha visto fuggire larve di fidanzati, e soltanto presso i genitori, nel chiuso della sua gabbia, sfaccendando con entusiasmo, prova un simulacro di felicità. Ma l'inizio del film la stacca, con molte lacrime, dal suo piccolo regno, per mandarla a stare qualche giorno in ca.sa. d'un parente, dove padre, e madre di lei sperano sia spuntata una estrema possibilità di matrimonio. Ma nessuno veramente ci erede, e tanto meno la ragazza, che dopo qualche giorno, dopo aver subito soltanto umiliazioni, s'affretta a. ritornare nel suo guscio. Su questo fondo naturalistico (la solitudine della zitella) il regista ha innestato frondosi simboli circa l'incomunicabilità delle pene umane, e insieme la denuncia d'una pusillanime borghesia «principio di secolo» (tale la data della vicenda), incapace di guardare la realtà altro che attraverso i pavidi schermi della menzogna e della ipocrisia. Come dire che il film è trasferito sui genitori, sulla pena che loro dà la condizione della loro infelice figliuola, pena che condiziona la loro vita, facendone una prigione di vergogna e di paura. Per modo che la povera Allodola finisce coll'essere la loro carceriera, e infatti, quando ritorna, quella poca vacanza che padre e madre si son presi (specialmente la seconda, piuttosto godereccia) cessa di colpo, e la famiglia torna a intombarsi come prima. Il padre, che ha più coscien za degli altri, è la figura più sviluppata; si è bene accorto ritornando per un poco in società, che tutti dal più al meno hanno chiusa nel petto una pena segreta, ma non ha trovato la forza di scagliare la sua in faccia al mondo, anzi se l'è sentita marcire dentro fino a toglierne l'orrendo so spetto di odiare ormai la figliuola, causa della loro infelicità. Ci sembra che il regista per amore della tesi, abbia portato troppo oltre la dimostrazione, esagerando sugli effetti che la bruttezza d'una figlia può avere sulla compagine familiare, caricando le tinte d'uno stato di cose che, vivaddio, anche cinquantanni fa, doveva e poteva essere sopportato con maggiore filosofia. Qui nulla s'allenta mai nella pena paterna, che rasenta l'ossessione e suggerisce scene melodrammatiche come quella in cui l'archivista, vinta una somma al gioco, si mette a comprare «fidanzati» per le prostitute. 1 denari non sono mai da gettare, perché, specie in una borghesia capitalistica, possono servire anche a collocare figlie brutte. Con queste sforzature d'una problematica comandata, il film ha un suo decoro narrativo e accuratezza d'ambientazione e d'interpretazione, spiccando su tutti, nella parte del genitore umiliato e offeso, l'attore Anlal Pager. In quanto al film tedesco, ci sembra che l'averlo ammesso fra i ventiquattro in gara attesti soltanto la generosità degli organizzatori del festival, perché non si può credere che le sue capricciosità cromatiche e un certo virtuosismo di fotografia e di montaggio siano bastati a convincerli del suo valore. « Die tote von Beverly Hills» («La morta di Beverly Hills ») sceneggiato e diretto per il grande schermo a colori da Michael Pfleghar, presume dì essere uno « scherzo » nel composito genere del * giallo-erotico ». Ma ci sono anche i cattivi scherzi, e raramente abbiamo visto il cinema alemanno, di natura sua pesantuccìo, simulare, con maggior goffaggine, leggerezza e fantasia. Nei dintorni di Hollywood si trova il corpo nudo d'una giovane e bella Lu, moglie di un vecchio archeologo, uccisa non si sa come né da chi. C'è il cadavere, c'è il poliziotto, c'è anche il presunto colpevole; ma da tali premesse, invece che un onesto giallo (e perché no? anche bello) esce un pasticcio dozzinalmente surreale con intervento finale e risolutivo delle gemelle Kessler (meno male) e non «censurate» come sogliono apparire sui nostri teleschermi. L'aggancio all'erotica, che è poi il vero approdo del film, ma un'erotica epidermica da rotocalco di lusso, è dato da un diario lasciato dalla vitti¬ ma, dove è registrato un vasto e concentrico movimento di amanti. Lu è morta di civetteria, una civetteria consapevole, calcolata e perversa che essa si era imposta di esercitare sugli uomini che le venissero a tiro (anche chierichetti) per vendicarsi di chi l'aveva orbata del suo primo e naturalmente unico amore. Conosciamo la mascherina. Il film sfoglia quel diario con industria di «flash back», rifritture surrealistiche alla maniera d'un Marienbad grottesco, alchimie coloristiche, e uscite libertine d'un cattivo gusto alquanto pesante. All'attrice Heidelinde Weis è affidata la gestione (forse superiore alle sue forze) dell'irresistibile protagonista che sgranocchia ì cuori di molte vittime, fra cui il biondo Horst Frank, mentre le nominate gemelle fungono da nemesi in un finale alla Ridolini: invenzioncella da «numero» di «night club» e ben degna d'esserci stata serbata da ultimo, come vertice del film. Leo Pestelli

Persone citate: Dezso Kosztolanyi, Horst Frank, Kessler, Laszlo, Leo Pestelli, Michael Pfleghar, Weis

Luoghi citati: Cannes, Germania Occidentale, Hollywood, Ungheria