Una storia siciliana: «Morte dell'inquisitore» di Carlo Casalegno
Una storia siciliana: «Morte dell'inquisitore» Una storia siciliana: «Morte dell'inquisitore» Leonardo Sciascia vede nell'enigmatica figura di fra Diego, morto sul rogo nel Seicento, un eroe della libertà di pensiero - E ricerca, nel tragico passato dell'isola, la spiegazione dei drammi d'oggi Morte dell'inquisitore, appena edito da Laterza, è il libro più breve, disadorno e scopertamente impegnato di Leonardo Sciascia. Non è un racconto, ma una biografia condotta sui documenti d'archivio, senza nulla concedere alla fantasia narrativa. Ricostruisce un pietoso e feroce episodio della Sicilia spagnola: l'esistenza tormentata, il delitto e la morte sul rogo dell'Inquisizione, nel marzo 1658, d'un antico compaesano dell'autore, fra Diego La Matina da Racalmuto. Con quest'opera, lo scrittore sembra allontanarsi ancor più dal mondo dei suoi primi racconti, dolente ritratto della soffocata e tragica provincia siciliana d'oggi; e portare alle estreme conseguenze la svolta segnata lo scorso anno da II Consiglio d'Egitto, quasi fosse risoluto ad abbandonare il romanzo per il saggio storico. Indubbiamente, da qualche tempo Sciascia dimostra un interesse sempre più vivo per la storia della Sicilia; fa rivivere, attraverso scoperte originali o ristampe di vecchi libri, epi sodi fraintesi o dimenticati di rivolte illuminate, di prir itive vendette contro la tirannia e l'ingiustizia: l'insurrezione contadina di Bronte all'arrivo dei Mille, come la sfortunata congiura giacobina dell'avvocato Di Blasi o la morte dell'in quisitore nel carcere del Sant'Uffizio per mano di fra Diego. Ma l'ispirazione è la stessa che sosteneva i rac conti sulla malìa, sulla vita di paese: un rigoroso impegno morale e civile, una fe de illuministica nella ragio ne e nelle idee. L'animo è immutato, cambia il terreno della ricerca, Ora Sciascia indaga, nel lungo passato d'oppressione e di miseria che pesò sul l'isola, i mali del difficile presente; rievoca con sim patia pietosa le prove anti che dei sicilir i, per farci capire meglio le loro reazio ni d'oggi; vuol trarre dal l'ombra dei secoli la memoria dei ribelli: che sono testimonianze d'onore per l'i sola (e qui c'è forse una se greta polemica regionalistica), ma anche protagonisti d'una lotta che impegna gli uomini in ogni tempo. Perciò Sciascia rimane uno scrittore tutto proteso sull'attualità rievocando un processo del Seicento; e sta conquistando in Italia e fuori una crescente fortuna, pur traendo sempre dal suo mondo provinciale, dalla sua esperienza isolana — ma con un severo rifiuto del « pittoresco » — la materia ed il clima dei suoi racconti. Non c'è dubbio: sono le memorie infantili, le storie favolose ascoltate da barn bino, che hanno avvicinato Sciascia all'inquietante figu ra di-fra Diego. A Racalmu to si ricordava ancora, do po quasi trecent'anni, il fra te ribelle: trasfigurato da taluni in « santo martire » ; dai più identificato con uno di quegli « scorridori di campagna », in cui la fan tasia popolare vedeva (e il caso s'è ripetuto ancora per Giuliano) i giustizieri di un'insostenibile oppressione Interpolazioni romanzesche lo facevano protagonista e vittima di un delitto d'ono re, per aver vendicato le insidie di un campiere alla sorella; e si indicava la grotta dove, vivendo alla rr.ac chia, il monaco-bandito aveva nascosto un inaccessibile tesoro. La storia autentica di fra Diego, quale Sciascia ha potuto ricostruire negli archivi, è meno pittoresca; ma non meno tragica, e 1 assai più nobile. Il frate infelice nacque mentre era signore di Racalmuto il conte Girolamo II del Carretto, esoso feudatario che il nriore degli agostiniani fece uccidere per vendetta d'un abuso, forse non senza il consenso della giovanissima vedova. Novizio in quel convento, due volte comparve davanti al¬ l'Inquisizione per sospetto d'eresia, e due volte fu assolto. La terza, « convinto d'essersi dato al demonio con una polizza », è condannato al remo; sulle navi del re seduce « alcuni forzati di galera alli soi errori » e viene « murato in perpetuo in una stanza ». Indomabile e di prodigiosa forza fisica, dopo sette anni evade, si dà alla macchia; ancora imprigionato, curante una «visita di carità » (cioè un interrogatorio con tortura), colpisce a morte con le manette l'inquisitore Lopez de Cisneros. Tradotto a Palermo, tenne dinanzi ai giudici « aspetto ribaldo e ostinato, sfacciata fronte » ; nove dotti teologi non lo piegarono alla ritrattazione. Condannato al rogo come eretico, apostata e parricida, fu arso vivo in un Atto di Fede splendido per fastoso cerimoniale, elegante concorso di dame, vivace presenza di popolo; legato alla catasta mortale « non s'alterò, non sbigottì, non mostrò segni di spavento » ; morì ripetendo le sue bestemmie, ed un nero volo di corvi scese a prendere la sua nera anima. Nel rievocare questa fosca vicenda di superstizione e di morte, l'autore ha tenuto presente (e ammette il debito) la manzoniana Storia della colonna infame sul processo agli untori. Nei due libri avvertiamo la stessa moralità severa e pietosa, l'angoscia dinanzi alla feroce stoltezza umana; non a caso Sciascia già aveva tratto qualche suggestione dai Promessi sposi per rappresentare con amara ironia la società presuntuosa e iniqua del Consiglio d'Egitto. Eppure Morte dell'inquisitore ha ura schietta originalità, fra D.':go è l'eroe di una tragedia tutta siciliana. Sullo sfondo, appena delineato, dell'isola soffocata dalla triplice tirannide della Spagna, del feudalesimo e dell'Inquisizione, in mezzo ad un popolo inerte e superstizioso, la figura del frate ribelle si distacca generosa, violenta ed enigmatica. Non possiamo precisare quale fosse la sua eresia: l'Inquisizione temeva, rivelando la natura degli « errori », di estenderne il contagio. Forse fu soltanto un amico degli oppressi, insorto contro una società fondata sull'ingiustizia, predicatore d'un messaggio tanto sem¬ plice da attrarre i galeotti. Comunque, Sciascia vede in lui « un uomo che tenne alta la dignità dell'uomo»; nel delitto commesso con le catene stesse, il gesto di un vendicatore; neila fermezza fin sul rogo, il coraggio ra ro di saper morire per le proprie idee. Così lo trasfi. gura in eroe della libertà contro il fanatismo; in martire dell'intolleranza che vorrebbe spegnere il pen siero. Allora il fanatismo aveva il simbolo nell'Inquisizione; ma l'Inquisizione non è finita con l'editto vicereale del 1782, con il rogo che di strusse le carte processuali di fra Diego. Narrando la morte dell'antico frate di Racalmuto, Sciascia ricorda l'ordine di Mussolini contro Piero Gobetti : « Il cervello di quest'uomo non deve più funzionare». E' — dice — « un dramma che si ripete, che forse si ripeterà ancora ». Carlo Casalegno
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