Paura e desolazione sull'altro versante del Vajont dove un intero paese è stato costretto alla fuga di Giampaolo Pansa

Paura e desolazione sull'altro versante del Vajont dove un intero paese è stato costretto alla fuga Paura e desolazione sull'altro versante del Vajont dove un intero paese è stato costretto alla fuga Il sindaco di Erto-Casso parla con angosciata freddezza : « C'erano qui 2100Vabitanti. | Gli altri sono rimasti senza tetto. C'è solo più il terrore» - I profughi sono sfollati a Barcis (un piccolissimo borgo bruciato dai tedeschi durante la guerra) e a Cimolais - Il triste ritorno di una.ragazza che lavora a Biella e di una giovane impiegata presso lo studio di un notaio a Torino sono morti, perii disastro, 220 o 230, non sappiamo bène. CDa uno dei nostri inviati; Erto (Udine), 15 ottobre. Sono sei giorni che scriviamo soltanto dei morti, delle migliaia di morti di Longarone, Faè, Pirago, Rivolta. E' ora di parlare dei vivi, dell'altro versante del Vajont, quello friulano: delle centinaia di vivi di Erto - Casso che il terrore di nuove frane dal monte Toc ha costretto a fuggire verso Cimolais, Claut, Barcis. La pietà per i morti sepolti sotto le macerie e il fango della valle del Piave non deve far dimenticare questa gente che non ha più paese, che non ha più casa, che ha perso tutto. Andiamo ad Erto. Sino a mercoledì scorso, si partiva da Longarone e si saliva in auto lungo una strada che costeg giava il Vajont. Superata la diga, apparivano le prime borgate: Casso, poi Erto affacciata sul bacino, con il campanile della chiesa che si specchiava nell'azzurro del lago. La sera del 9 ottobre, la muraglia di acqua ha cancellato la strada e le case, ha mutato il paesaggio. Ora il fango e la roccia sbarrano il passo persino ai buildozers. Per raggiungere Erto non c'è che una via: una via lunga 130 chilometri, da Belluno a Pordenone a Montereale, e poi su in vai Cellino, per una strada stretta e tortuosa, incassata in una gola profonda. All'altezza di Barcis incontriamo i primi blocchi della polizia. Nel paese — un paese di partigiani interamente bruciato dai tedeschi — ci sono piccoli gruppi di profughi di Erto - Casso. Altri stanno a Claut, ma la maggior parte nel comune immediatamente a valle della diga, Cimolais. Qui non ci sono macerie, non c'è il lezzo di morte che abbiamo trovato a Longarone, ma si respira ugualmente l'aria della catastrofe. Nei campi sorgono le tende del Genio pionieri del 3' reggimento; in paese si incrociano i camion dell'esercito e dei carabinieri che scaricano viveri, brande, materas¬ si, armadi, sedie; altri autocarri giungono da Erto con le masserizie degli sfollati. Nel municipio — affollato di profughi, di militari, di tmpiegati, di tecnici giunti da Roma — chiediamo del sindaco di Erio. E' Giovanni De Damiani, eletto nella lista democristiana: un uomo di cinquantaquattro anni, fabbricante di candele, alto, robusto, con il viso disfatto dalla fatica e dal tormento. Ci parla del suo paese. Il bilancio è presto fatto: c'erano 2100 abitanti; di essi, 220-230 sono morti, schiacciati dall'acqua della diga, gli altri 1870, per un complesso di circa quattrocento famiglie, l'hanno scampata, ma sono rimasti senza tetto. «L'ondata ha risparmiato il capoluogo di Erto — ci dice il sindaco —. qui si è sentito soltanto un gigantesco scossone, e la gente è fuggita dalle case pazza di paura: un caos indescrivibile nel buio, con urla, pianti, e il rombo dell'acqua che abbatteva le altre fra- zioni. Della borgata di Casso è scomparsa tutta la parte bassa; di Pineda sono in piedi soltanto gli edifici sulle alture; a San Martino sono sprofondate le case che stavano sotto la strada, compresa la chiesa; nella frazione di Le. Spesse c'erano una trentina di abitazioni, ora ce ne sono due; Prada e Marzana sono state tutte distrutte ». Gli sfollati sono stati raccolti a Cimolais, a Claut, a Barcis, in una colonia, negli alberghi, presso famiglie. < Di cosa ha bisogno questa gente? » chiediamo al sindaco. «Da mangiare c'è per tutti — risponde — anche in abbondanza; e per ora sono al coperto. Ma bisogna subito provvedere per tutto il resto. A Longarone non c'è un problema immediato, perché i più sono morti. Qui invece ci sono quattrocento famiglie che non potranno più tornare a casa e a cui bisogna provvedere subito. L'ho detto anche a Segni, a Leone, a Rumor: non possiamo dividere questa gente, gli abitanti vogliono stare uniti, non possiamo far sparire un paese, smembrare un gruppo etnico che ha una tradizione di secoli. Quindi per prima cosa bisogna ricostruire il comune: noi lo vorremmo in basso, nella brughiera, fra Magnago e Pordenone, vicino ai campi e alle fabbriche, dove ci sia lavoro per tutti. Poi ci sono circa quattrocento fra scolari delle elementari e studenti che debbono riprendere la scuola, e i genitori non vogliono dividersi da loro. Bisogna far presto, perché questa gente non abbia l'impressione di essere isolata, e non sìa costretta a vivere di carità per mesi e mesi >. Ricostruire Erto: un problema complesso, che non può essere risolto in pochi giorni. Ma c'è qualcosa che può e deve essere fatto subito. «Abbiamo bisogno di soldi per aiutare 1 profughi — dice De Damiani —. Ci sono gli agricoltori che non potranno più lavorare i loro campi; gli artigiani che hanno perso le botteghe; i negozianti che sono sul lastrico se non c'è un paese che alimenti il commercio. E poi sono necessari anche i sussidi per le piccole necessità di ogni nucleo familiare: comperarsi un vestito, pagarsi il viaggio sino a Longarone per trovare i parenti superstiti, avere il denaro per il treno e l'albergo per chi scende in pianura a cercare lavoro. E' vero che qui c'è da mangiare e da dormire: ma questa gente non può vi/ere in eterno in una specie di campo di concentramento ». Andiamo a vedere questo < campo di concentramento ». E' situato alla periferia di Cir moluis, nel grande edificio della colonia del Salvatore. Qui è raccolto il nucleo più numeroso degli sfollati: circa seicento persone. Il cortile è ingombro di camion militari che scaricano coperte e latte in polvere. Molte donne, vecchi e bambini: gli uomini sono saliti nelle frazioni deserte per recuperare le masserizie. Un altoparlante ripete ad intervalli regolari un ammonimento delle autorità: «Non vendete il bestiame, perché in giro ci sono degli speculatori. Saranno allestite delle stalle e verrà procurato il foraggio per gli animali». Il postino di Erto-Casso, Cipriano Cappa, di trentasei anni, passa da un crocchio all'altro, sale e scende nelle camerate per cercare i destinatari delle lettere: molte sono di emigranti, alcune vengono dal Sudan, dall'Australia, dal Ghana. In una tasca, Cipriano Cappa tiene la posta indirizzata a quelli che non ci sono più. E' l'ora del pranzo. Ad un tavolo c'è il più vecchio abitante di Erto, Eugenio Zan Corona, di novantasette anni. Non ha perso la speranza e dice in dialetto: «Uala da laorà i gnon. Se faron un entra ' sciasa pi in zo » (< Voglia di lavorare ne abbiamo. Ci faremo un'altra casa più in gi* ■>)■ Incontriamo una ragazza ancora sconvolta, Bruna Corona. Era emigrata nel Biellese, e lavorava alla manifattura di Lessona. Si era licenziata una settimana fa perché aveva trovato un posto da capo reparto nel cotonificio di Longarone. Giovedì era il suo ultimo giorno di lavoro, e quando è entrata in fabbrica ha saputo dalle compagne dell'ondata del Vajont e delle migliaia di morti. Ha perso nove parenti; il suo fidanzato quella sera era sceso a Longarone, e non si sa che fine abbia fatto. Per di più è senza lavoro, perché il cotonificio di Longarone è andato distrutto. Ci sono anche quei personaggi commoventi, quasi assurili, che si incontrano nei luoghi delle catastrofi: come un ragazzo austriaco di diciassette anni, Franz Helmut, un tornitore piccolo e lentig¬ ginoso; è venuto in bicicletta da Linz ed ora aiuta a scaricare sacchi di pane. Tutta questa gente non potrà più tornare, almeno per molti mesi, ad Erto-Casso. Non c'è pericolo immediato di frane, ma da giovedì scorso la prefettura di Udine ha ordinato lo sgombero del paese. Nella parte da cui ai è etaccata l'enorme massa di roccia, il monte Toc presenta delle fenditure, delle crepe che per ora pare non siano preoccupanti, ma che impongono cautela. Per entrare in paese occorre un lasciapassare, i funzionari della prefettura di Udine avvertono che chi si avventura in Erto-Casso lo fa a suo rischio e pericolo. Passiamo il blocco della polizia, stabilito alla periferia di Cimolais, e saliamo verso il paese deserto. Ci accompagna una giovane di Erto, Caterina Martinelli: è impiegata a Torino nello studio del notaio Boccasini,' ed è venuta qui subito dopo la catastrofe. Non ha più trovato i due zìi e la nipotino, di quattro anni. Ora l'acqua è ferma, perché il lago non ha sbocco. Sulla destra c'è la frana che mercoledì sera si è staccata dal Toc: un immenso braccio di roccia che si protende da una riva all'altra, con i suoi prati, i suoi boschi, i suoi abeti inclinati in posizioni assurde. Nelle anse, il lago è limaccioso, pieno di legname marcio. Lontano c'è un canotto dei pompieri, che va ancora in cerca di salme. In alto, un elicottero esplora il monte. Ad una svolta ci appare Erto. E' una visione irreale. Molte case di recentissima costruzione, il municipio, la scuola elementare, l'asilo inaugurato • un anno fa, l'ufficio postale, la chiesa, la caserma dei carabinieri appena rimessa a nuovo: dappertutto un silenzio di morte. Nelle strade incontriamo qualche abitante che, aiutato dai militari, carica su un camion ciò che'può. Ecco il negozio di alimentari di Osvaldo .De Damiani, con gli scaffali vuoti; la privativa, con la porta c le finestre sbarrate; il bar di Maria Sartor, con il bancone nuovissimo e una macchina ultimo modello per il caffè espresso; vuoto anche il forno di Donato Martinelli, vuota la casa che il carpentiere Domenico De Filippo s'era finito di costruire pochi mesi fa, dopo anni di lavoro. Un gruppo di giovani è seduto su un muricciolo: «Ci faccia una foto per ricordo, è l'ultima volta che stiamo qui ». Tra poco andranno via anche loro. Stasera nel paese non ci sarà più nessuno. Giampaolo Pansa Bruna Corona era emigrata a Biella. Il giorno successivo alla sciagura avrebbe dovuto tornare a Longarone per lavorare ne! cotonificio (Telefoto Moisio)