Nino Bixio a Bronte

Nino Bixio a Bronte LA RIVOLTA DEI CONTADINI SICILIANI Nino Bixio a Bronte Lo scrittore Leonardo Sciascia ha riesumato una monografìa di cinquant'anni fa (Nino Bixio a Bronte), pubblicata nell't Archivio storico per la Sicilia Orientale > da Benedetto Radice, uno di quegli studiosi di storia locale ricchi di amor patrio e di pazienza erudita: nel nostro caso, un cittadino di Bronte di molto acume, che sapeva ricercare e vagliare documenti a stampa e testimonianze orali, avendo a cuore un convincimento, questo che la famosa repressione operata nel suo paese da Nino Bixio, nell'agosto del 1860, era stata una necessità feroce oltre il giusto, fuori del legale e cieca di vera comprensione sociale e umana. Oltre il giusto, perché le vittime erano accusate di borbo nismo, il che era falso e provo cato da inimicizia politica; fuori del legale, perché il brevissimo processo fu di una formalità irriguardosa delle possibilità di difesa degli imputati; cieca- di comprensione umana, perché fu giustiziato anche un povero scemo, riconosciuto scemo da tutti, e di comprensione umana e sociale a un tempo, perché la bestialità certamente efferata dei popolani rivoltosi era sostanziai mente lo sfogo vendicativo di oppressioni e delusioni antichissime e recenti, che tutte insie me costituivano un prepotente caso di ingiustizia. Anche il governatore di Catania dove ammettere che i fatti di Bronte erano l'effetto di essersi negata al popolo la divisione delle terre del demanio comunale. Lo stesso Nino Bixio, ricordandosi di quei fatti in un discorso al' Parlamento nel '62, e anche più tardi in privato, dimostrò di sentirne rimorso; ma per la spietatezza cui pensava in coscienza di essere stato costretto, forse anche per i suoi errori di credulità, non già, a quel che pare, perché riconoscesse qualche giustificazione alle vere cause degli eccessi altrui, di cui non aveva manifestato di avere li per li nemmeno il sospetto. E' vero che subito dopo la repressione egli avvisò la provincia di Catania che avrebbe fatta « studiare la quistione della ripartizione dei beni comunali», ma, sul momento, non vide che ribelli e iene, e agì di conseguenza. Le cose sono note, anzi famose. Garibaldi passando vittorioso' per la Sicilia, amato e raffigurato come un arcangelo non solo di libertà, ma anche di giustizia, aveva deciso molti provvedimenti sotto ogni riguardo opportuni: fra i suoi decreti, vi fu quello del 2 giugno che disponeva per l'appunto la spartizione delle terre dei demani comunali con privilegio per coloro che si fossero battuti per la patria. Era un'antica sete dei contadini, e una giustizia elementare; in ogni caso, era un atto di ovvia accortezza politica quello di associare interessi personali e sentimenti di patria, libertà civili e riscatto economico. Ognuno ama quel che spera, e viceversa: paesi di tutta la Sicilia si erano sollevati, e non solamente nel '60, mossi dall'una e dall'altra speranza confuse insieme. Ma in tutti quei paesi era successo quel che succede nelle rivoluzioni che sono appena dei falò, che si afflosciano e svuotano perché immature Il caso di Bronte è, fra i tanti analoghi, un caso che ha del particolare. Da tre secoli il comune si era battuto i..vano contro i taglieggiamenti, che l'avevano ridotto in miseria nera. E a Bronte c'era in più (c'è, e ne abbiamo sentito parlare anche ai nostri giorni) la Ducea Nelson, cioè un feudo generosamente donato al famoso ammiraglio da Ferdinando IV di Napoli: la duchessa erede in quel 1860 stava in Inghilterra e gli affari suoi erano fatti da occhiuti amministratori coi metodi molte volte documentati in tutte le storie, le cronache, i romanzi, gli studi sociali che trattano della « questione meri dionale ». La Ducea era un enorme benefìcio, un privilegio da -on toccare, tanto più che apparteneva a una famiglia inglese, e l'Inghilterra si mostrava amica dei garibaldini, e Garibaldi pensava alla guerra e non poteva tollerare focolai di rivolta alle sue spalle, qualunque ne fosse il motivo non bellico. Si erano rivoltati più di venti paesi del circondario etneo, e un po' dappertutto in Sicilia, e sempre per quelle ragioni di giustizia sperata, promessa e insoddisfatta,- anzi delusa dai « galantuomini » che erano al potere con la fiducia dei nuovi potenti, col beneplacito della stessa rivoluzione. Si mescolavano a queste passioni altre . di altra natura, anche bassissime, tutte da attizzare un fuoco velo. « La libertà irruppe come una vendetta », così scrive con potenza epigrafìe:, il nostro Radice. Irruppe in quel modo perché, come aveva protestato frate Carmelo con l'Abba, la libertà non era pane. A Bronte la rivolta dei « berretti » (i contadini) contro iavupcpverivtggsi i «cappelli» (i civili) fu di una atrocità belluina. Ma. Bixio arrivò di furia che le cose erano già un po' calmate per la venuta del più umano colonnello Poulet, un catanese; voleva dare un esempio, e lo si può accettare per doveroso, ma condannò d'impeto e senza prove. La letteratura garibaldina non fece che colorire violentemente le colpe dei brontesi e additare in quelle le ragioni dello sdegno eccitato del generale, del < secondo dei Mille ». Ma è proprio vero che la storia è giustiziera: Io è perché, indagata, dice la verità. Ci si mise, come suo interprete, Benedetto Radice, imparzialissimo, tanto più se si tenga conto della circostanza che suo padre e lui stesso bambino e i suoi fratelli ancora più piccoli corsero il pericolo di essere trucidati come altri della c classe civile» giudicati «sfruttatori ed oppositori ai diritti della plebe consacrati dalla rivoluzione ». Così sappiamo, da una cronaca di terribile efficacia per la sua nudezza, la sua severità irreprensibile, degli errori commessi dal Bixio: primo fra tutti quello di credere indiscriminatamente e più del vero colpevo¬ li di « lesa umanità » i cittadini di Bronte; secondo, quello di aver fatto fucilare senza lasciargli agio alla difesa, l'avvocato Nicolò Lombardo, capo sì degli insorti per giusta insofferenza degli abusi, ma tutt'altro che reo di stragi e nemmeno istigatore. Della cui morte il Radice fa una descrizione moralmente pietosa e solenne, che sembra quella di un cronista del Trecento. La conclusione del Radice è questa, naturalissima di equità, « che qualunque diritto alla vita sociale si acquista solo per mezzo di una costante e lunga preparazione; che la violenza raramente lo assicura, e che le rivolte, anche mosse da giusta causa, tornano quasi sempre a danno ' di chi le fa». C'è, in quel «rivolte, anche mosse da giusta causa » che tornano a danno di chi le fa, una chiara nota di amarezza. La stessa che ispirò, come è noto, una tragica novella « rusticana » del Verga, La libertà. Ma anche nel Verga è palese un ritegno a cercar troppo addentro nelle illusioni deluse dei contadini: non dimenticava di essere anche lui un « galantuomo ». Franco Antonicelli

Luoghi citati: Bronte, Catania, Inghilterra, Napoli, Sicilia