I siciliani non si appassionano alle elezioni tanto [dicono] la mafia resta il vero padrone di Vittorio Gorresio

I siciliani non si appassionano alle elezioni tanto [dicono] la mafia resta il vero padrone NEL DIALETTO DELL'ISOLA NON SI USANO I VERBI AL FUTURO I siciliani non si appassionano alle elezioni tanto [dicono] la mafia resta il vero padrone L'esperienza del passato scoraggia anche i più ottimisti - In un secolo e mezzo tante volte sono cambiati uomini e regimi; la mafia ha saputo adattarsi a tutti per mantenere la sua forza: di cliente ed insieme dominatrice dei potenti del giorno - Sono ormai finiti i tempi del feudalesimo agrario; la sua organizzazione ha lasciato i nobili per i borghesi, è entrata negli enti economici e nell'organizzazione dei partiti Roma, aprile. Di ritorno dalla Sicilia, al termine di quello che avrebbe dovuto essere un viaggio elettorale — e vale a dire di ricerca, indagine ed esame del comportamento di una delle maggiori regioni d'Italia alla vigilia delle elezioni — nel ripensare le esperienze fatte e nel ricapitolare gli episodi vissuti, trovo nel mio taccuino degli appunti ben poche note di interesse elettorale. Innanzi tutto manca qualsiasi dato relativo alle possibili previsioni sui risultati del 28 aprile in Sicilia; e ciò perché il mio viaggio non doveva servire a tracciare un oroscopo in materia di scrutini. Gli stessi siciliani cercati od incontrati, alle prime domande che si sentivano rivolgere, allegramente ribattevano: « Non vorrà, immagino, tentare le mie qualità di indovino ». Se in tutta Italia un'arte simile è in questi giorni prudentemente disattesa e sco¬ raggiata, in Sicilia è del tutto bandita e forse ritenuta sconveniente. Non solo a causa di diffidenza o del timore di compromettersi, ma per motivi più seri se non più degni. I siciliani evitano di impegnarsi sul futuro, come se fosse cosa futile. L'avv. Antonino Sorgi, presidente dell'Irfls (Istituto regionale per il finanziamento alle industrie in Sicilia), un socialista attivo e intelligente, intraprendente e generoso, mi diceva a Palermo, ricevendomi nell'ufficio che egli occupa in cima a un grattacielo di recente costruzione: < Ho fatto l'altro giorno una scoperta di carattere amaro. Ho visto Denis Mach Smith, l'inglese autore della Storia d'Italia 1861-1958, che mi ha fatto notare come il dialetto siciliano manchi del tutto, nelle sue forme verbali, del tempo futuro ». Un siciliano, per esempio, non dice infatti « quando andrò in Italia»; usa il presente: € quando vado ». E Sorgi commentava di essere rimasto colpito dalla constatazione suggeritagli dallo straniero, anche se amico: « Mi sono trovato di fronte, per la prima volta, ad una verità deprimente, pregna di gravi significati che si riallacciano a secoli e secoli di amarissima storia ». Non sarà il caso di abusare delle già troppo frequenti citazioni dal Gattopardo («siamo vecchi, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi... Da duemilacinquecento anni siamo colonia... Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odìeranno sempre chi li vorrà svegliare»); ma nulla vieta di annotare, a integrazione della scoperta di Macie Smith, che d'altra parte nelle forme verbali del dialetto siciliano il solo tempo che si usa per il passato è il passato remoto: io venni — di- cono — io andai; feci; rimasi. « Ora — continua Sorgi — vorrei riuscire a offrire agli imprenditori e ai prestatori d'opera concrete prospettive di benessere, distribuite equamente. Ho l'idea di un progresso generale, civile ed economico; che è una cosa dell'avvenire». Ma si può fare qualche cosa, quando manca, in Sicilia, l'idea, la concezione dell'avvenire? Manca, probabilmente, perché il presente stesso è incerto, e in Sicilia le cose hanno valore solo in quanto passate, e quindi rese degne di ricordi e memorie. Quello che è stato, anzi che fu, continua ad essere, e condiziona l'attualità, come se tutti camminando avessero la testa rovesciata all'indietro, al modo dei dannati della quarta bolgia (« perché '1 veder dinnanzi era loro tolto»). Che cosa tenga i siciliani in questa deprimente condizione, è la paralizzante continuità di uno stato di fatto antico quanto la loro storia conosciuta, e che sembra immutabile. La mafia, per esempio, che già esisteva al tempo degli inglesi occupanti la Sicilia durante gli anni di Napoleone, e che fu attiva nell'ultima età borbonica; che rifiorì nella fase del Risorgimento; si protrasse nell'epoca liberale da Crispi a Orlando; resistette al fascismo sopravvivendo alla campagna di sterminio condotta dal prefetto di Palermo, Cesare Mori; fu riattivata nei giorni della Liberazióne per iniziativa degli stessi americani in cerca di alleati servizievoli all'indomani dello sbarco; fu associata alla causa dell'ordinamento regionale; e finalmente adesso prospera inserita nelle nuove strutture economiche create a preordinate dai programmi dell'industrializzazione dell'isola, in questi nostri giorni di miracolo economico nazionale. Non è avviata al tramonto, non sembra denunciare il logorio degli anni, indifferente alPuvvicendafrsi dei periodi d¥.fBcessiofieÌe di progresso;-tirannide è libertà, dittatura e democrazia, destra e sinistra. Agraria quando agricola era in prevalenza l'economica della Sicilia, oggi essa appare pronta ad adeguarsi ad ogni nuovo ordine sociale, ed interviene a far sentire il proprio peso nei consigli di amministrazione, come un tempo dettava la sua legge nel governo dei latifondi. Sostenitrice del partito liberale come partito di governo nell'età giolittiana, oggi è rimasta fedele ai notabili superstiti di quel partito, senza perciò che possa riconoscersi alcuna identità di vedute politiche tra mafia e pli. Si tratta piuttosto del permanere di un'antica abitudine di affiatamento con certi uomini del passato, tuttora circondati di autorevole prestigio: ma già si nota un più fattivo orientamento dei mafiosi nuovi in direzione dei potenti del giorno, oggi al governo e quindi in condizione di disporre delle risorse del sottogoverno politico ed economico. Liberale con i liberali, democristiana con i democristiani, la mafia non ha in proprio ideali politici, né mai li ha avuti probabilmente, in quanto la sua azione è sempre stata un surrogato della politica, esercitante ai margini della politica in funzione parassitaria, per trarre dalla politica solo e tutti i profitti possibili. La mafia infatti sfrutta il ricco, il forte ed il potente, ma non per questo -ta col povero e col derelitto. Anzi, nel gioco dei contrasti sociali, è sempre contro questi ultimi perché con essi ha tutto da perdere e. niente da guadagnare, ed in secondo luogo (questa è la tesi dei sindacalisti, che della mafia sono stati in questi anni il principale bersaglio politico e sociale) perché in Sicilia quasi sempre la povertà è sinonimo di nobile onestà, e con gli onesti per la mafia è difficile intendersi. Comunque, in questa sua meravigliosa capacità d'adattamento che garantisce la sua durata nel passare dei secoli e nel succedersi dei regimi, la mafia resta una realtà che ancora pesa più sulla Sicilia di quanto possano i partiti, che si avvicendano al governo della regione e che combattono le loro campagne elettorali per conquistare seggi nel Parlamento nazionale. Quali ohe siano i risultati (giunte di vario orientamento nel palazzo dei Normanni dove siede l'Assemblea della Regione, rappresentanze in varia percentuale dei diversi collegi siciliani a afontecitorfo e a Palazzo Madama), che la Sicilia vada a volta a volta un po' più a destra o un poco più a sinistra, quello che importa è che la mafia re. sta, conservando inalterati i suoi rapporti di cliente-padrona nei riguardi degli uomini al potere. Otto anni fa, nel 1955, quando in Sicilia la de vinse trionfalmente una battaglia elettorale per il governo della regione, sgominando — pareva — le forti clientele dei notabili, essendo riuscito il tentativo di Fanfani di sostituire la organizzazione del partito alle cricche e alle « cosche » personali, fu detto con accento di retorica che finalmente anche la Sicilia era arrivata alla Rivoluzione francese. Era infatti salito al potere il ceto medio, l'antico < Terzo Stato ». Affrancatosi dalla soggezione ai due primi — dei nobili e del clero — esso aveva riempito la cosiddetta stanza dei bottoni dove sono le leve di comando, con la sua pletora di ragionieri e commendatori, avvocaticchi e professorini, sindacalisti ed affaristi, professionisti e mediatori. I duchi, i principi e i baroni (si contano in Sicilia, a quanto pare, 142 principi, 95 duchi, 788 marchesi, 95 conti, 1214 baroni, senza far calcolo degli abusivi) cessarono di avere voce in capitolo. Sconfitti alle elezioni, i più illustri rampolli delle grandi famiglie, portatori di nomi grandiosi, come il signor duca di Misterbianco, Benedetto Majorana della Nicchiara, Francesco Beneventano della Corte, il principe di Bisoari, il duca di Avarna, il duca di Corcaci, furono esclusi dalla partecipazione diretta alla vita pubblica. L'ultima loro presenza in forze da ricordare, risale quindi ai primi anni immediatamente successivi alla guerra, quando alcuni famosi aristocratici furono guida dell'ala destra del movimento separatista. Ciononostante, come adesso si vede, neppure quella tanto esaltata rivoluzione « alla francese » fu sufficiente a determinare un nuovo andamento della cosa pubblica in Sicilia. Tutta Za grande rivoluzione si ridusse in pochi anni a un passaggio i di'mario''tra-nobili e-borghesi'; ma quel modesto avvicendamento di ceti pur socialmente molto diversi, in Sicilia, non ha condotto a sostanziali novità. I nuovi sionori, sostenuti o ricattati come gli antichi dai sempre uguali clienti-padroni, hanno continuato a comportarsi come i loro predecessori, avendone ereditata quella specie di rassegnazione a considerare il proprio potere legalmente riconosciuto come una risorsa da esercitare e sfruttare secondo le regole di quella classica mezzadria, che in Sicilia da sempre è stabilita fra potere legittimo e usurpazione, codificata dal lungo uso. E' una forma di servitù politica che giuridicamente non trova chiara definizione in nessun trattato di diritto costituzionale pubblico o privato, ma che un'indubbia realtà rende operante e che un'abitudine immemorabile dissuade dal discutere. Perciò è abbastanza logico che anche una campagna elettorale — destinata, come le precedenti, a non cambiare in nulla le condizioni di fondo in cui vive la Sicilia — si stia svolgendo, come l'ho vista svolgersi, fra il generale disinteresse dei siciliani. Quando i più volonterosi candidati di ogni partito sembrano poco più che untorelli ai quali sia inibito di spiantare la mafia, è naturale che le loro parole cadano nel vuoto; ed è per questo che nel taccuino degli appunti, al termine di un viaggio € elettorale» in Sicicilia, oggi, tornato a Roma, trovo poco di elettorale. Vittorio Gorresio

Persone citate: Antonino Sorgi, Avarna, Benedetto Majorana, Cesare Mori, Crispi, Denis Mach Smith, Fanfani, Francesco Beneventano, Sorgi