Merito delle attenuanti se ho dichiarato alla tv che la moglie deve portare le pantofole al marito di Nicola Adelfi

Merito delle attenuanti se ho dichiarato alla tv che la moglie deve portare le pantofole al marito Neanche i grandi attori vincono la paura del teleobbiettivo Merito delle attenuanti se ho dichiarato alla tv che la moglie deve portare le pantofole al marito Forse ho detto quella frase infelice, che non risponde affatto al mio pensiero, solo perché inconsciamente anelavo alla,pace domestica - E' una tremenda esperienza parlare davanti a tante macchine complicate, in un'atmosfera irreale, e «sentire» che alcuni milioni di spettatori sono; pronti a ridere di noi - Tribuni abituati ai comizi, ministri che brillano nelle conferenze internazionali, tutti diventano timidi come scolaretti • Leggere un testo con qualche naturalezza, è già difficile; ma improvvisare dà il panico - Non esiste cancellatura se sfugge uno sproposito (come il mio) (Nostro servizio particolare) Roma, aprile. Mi mordo ancora la lingua per una frase che mi scappò detta davanti a una decina di milioni di italiani la sera di mercoledì scorso, durante la trasmissione della tv intitolata « Vivere insieme ». « Schiavista », mi scrive indignata una signora di Trie¬ ste: e me lo sono meritato. « Non la vorrei per marito nemmeno se fosse l'ultimo uomo sulla faccia della terra», incalza una insegnante dalla 8icilia. In altre lettere trovo espressioni come queste: « Lei dovrebbe andare a vivere tra i mammalucchi»; *Non si vergognat Io al suo posto andrei a nascon- dermi ». Ed ecco il breve messaggio di una romana che si è dimenticata dì mettere la firma: < Io, a lei, le pantofole, gliele darei sulla testa ». Già, le pantofole. Non ricordo le parole esatte che quella sera mi sfuggirono alla televisione, ma dissi approssimativamente che quando un marito rincasa stanco dal lavoro vorrebbe trovare la moglie col sorriso sulle labbra, affettuosa: e (ahimè, è qui che mi mordo tuttora la lingua) sollecita nel porgergli le pantofole. Lo capisco da me, fu un errore, uno sproposito. E tanto pia mi irrita quanto più penso che a me nessuno ha mai portato le pantofole, non ci ho mai pensato, forse neppure lo desidererei. Ma allora, come fu che quella frase sciagurata mi uscì d'impeto dalle labbrat Non lo so proprio. Mi scruto dentro con sincerità e ne emergono risposte confuse, forse un po' ipocrite; e che perciò non mi acquietano. Forse la verità è che quando uno sta davanti alle luci, alle macchine da presa, alle « giraffe» e a tutte le altre _ diavolerie che corredano uno studio televisivo, viene a trovarsi a dir poco dimezzato. Addirittura un pizzico mi sentivo la prima volta che Gianni Granzotto mi trascinò in una trasmissione politica. Io non volevo andarci. La mia reazione immediata fu un tno» secco quando uno dei più alti dirigenti della tv, Leone Piccioni, mi telefonò invitandomi a un dibattito sull'incontro di Vienna fra Kennedy e Kruscev. Più tardi sul telefono arrivò, incalzante e suadente, il moderatore numero uno della nostra tv, Gianni Granzotto. Siamo vecchi amici. Riprese l'argomento di lontano, è io subito a dire di no. E lui: * Stammi a sentire, Nicolino. Stammi a sentire*. Io rimasi ad ascoltarlo sospettoso e ogni tanto ripetevo: « No ... no... no ». * Ma ■ stammi a sentire: sei l'unico giornalista italiano invitato alla trasmissione». E poi: * Stammi a sentire: ci saranno il corrispondente della Tass, quello del Times, quello del Figaro, quello del Washington Post. E io sempre a rispondere di no: proprio non me la sentivo. E Granzotto: * Senti, facciamo una registrazione, una semplice prova. Tu la rivedi e sé non ti piace, non se ne fa niente ». Fu l'argomento che mi vinse. E. vi dirò che all'inizio le cose si misero bene. In via Teulada, esperti in camice bianco mi fecero sedere su una poltrona in uno sgabuzzino pieno di specchi e stesero un velo di cerone, una pasta umida e color ocra, sulla mia faccia. Mi guardai allo specchio, compiaciuto: un lavorino fatto proprio bene. Sotto il cerone, scomparse erano le rughe, mi vedevo più giovane, abbronzato, insomma assai meglio di come sono al naturale. Uscii dunque ringalluzzito dalle mani dei truccatori. Ma fu l'unico momento buono. Quando mi fecero accomodare in un finto salotto e vidi tutt'intorno l'incombente assedio delle macchine, mi sentii subito perso. Il cuore prese a . battermi furiosamente: ma a tormentarmi era specialmente l'aridità della bocca e della gola. Bevevo un bicchiere dietro l'altro di acqua minerale, Gianni Granzotto mi dava da masticare pasticche inglesi: ma non c'era niente da fare. Ero ridotto un pizzico, un cencio. Vedevo tutte quelle macchine e luci puntate contro di me, intravedevo gli occhi di una folla di tecnici in camice bianco, soprattutto € sentivo » milioni di cervelli- critici dietro 'milioni di schermi ' in tutta Italia. Un vero incubo in un'atmosfera irreale. Quando arrivò il mio primo turno, avevo già bell'e dimenticato le cose mandate a memoria, mi mangiai le^parole, ■parlai con le labbrd'~sirette. Vìi vero disastro, insomma. Più tardi, Von. Sàragat fece in via Veneto questo commento: « Trasmissione interessante. Però, c'era sproporzione: quattro italiani contro un solo straniero ». Lo straniero sarei stato io: e, a dire di Saragat, italiani, tenuto conto del mio pessimo accento, apparivano invece t quattro colleghi della stampa estera. Quella sera, guanti bocconi amari. Per esempio, vennero a dirmi che il mio povero esordio aveva fatto ballare dalla contentezza una coppia famosa, Dino De Laurentiis e Silvana Mangano, in una villa sull'Appia Antica. Alcuni giorni prima avevo scritto su. queste colonne un articolo in cui descrivevo i modi, le abitudini, soprattutto l'accento fortemente napoletano del produttore cinematografico. De Laurentiis aveva letto l'articolo e poi Io aveva fatto leggere anche al suo giardiniere. La sera di quella mia prima trasmissione alla tv, Dino Le Laurentiis stava giocando e rotolandosi' sui tappeti con i figli quando sentì battere forte, a precipizio, all'uscio della villa. Era il giardiniere, affannato. Gli disse: « Dottore, aprite subito la televisione. Quello che vi ha sfottuto sul giornale parla peggio, ma molto peggio, di voi ». Mi ripromisi di non mettere, più piede alla televisione. Ma, vedete, quelli della tv hanno molte e sottili arti per vincere le riluttanze più ostinate. Una volta mi dissero: ,« .Ma comet Ci sarà Giovanni Ansaldo e tu ti tiri indietro t ». Già, le idee politiche di Ansaldo non coincidono neppure di lontano con le mie, e tirarmi indietro mi sembrò una diserzione. Ci ritornai. Trovai che anche Ansaldo era riluttante, più volte in precedenza aveva detto di no. Mi disse a via Teulada: <Che vuole, non ho saputo resistere alla grande maliarda ». E' proprio così: la tv è la grande maliarda dei nostri tempi. Affascina. Eppure, ancora oggi, dopo diverse esperienze, ricomincia il batticuore, gola e bocca mi si inaridiscono. Avviene a me, ma più o meno capita a quasi tutti: attori rotti a ogni astuzia, oratori consumati, persino persone che appaiono frequentemente sullo chermo e che sembrano tranquille, lucide: per esempio, Gianni Granzotto. < Il callo non si fa mai», mi disse una volta. Non parliamo poi degli uomini politici. E' tutta gente abituata ai dibattiti parlamentari, ai comizi in piazza, ai convegni internazionali. Tuttavia, anche loro, non appena si trovano sotto i riflettori della tv non si fidano più delle loro capacità, intelligenza, abitudine a controllare il sistema nervoso. E allora vediamo fior di ministri cavare di tasca un foglietto e mettersi a leggere magari solo quattro righe con l'aria di scolaretti. Vediamo alla < Tribuna elettorale » capi- partito noti a tutti gli italiani per le loro doti intellettuali e per la loro oratoria che non si vergognano di mettersi a leggere, anche loro come scolaretti. E' così. Tuttavia, perché è così, non si sa bene. Saranno le macchine, le luci, la atmosfera chiusa e ferma degli studi televisivi; sarà la paura di quel che stanno pensando in quel momento milioni di giudici, gli spettatori. Vi contribuiranno anche altri elementi. Resta il fatto che un dibattito alla tv è sempre una fatica logorante. Il momento migliore di una trasrhissione — un sollievo . immenso — è quando il tecnico dà it segnale ch'è finita. E ogni volta molti si dicono: < Questa è l'ultima volta. Ma chi me lo fa fare a farmi cattivo sangue t ». Tuttavia, non state a credergli: basterà poi un cenno della maliarda per disperdere ogni più fermo proposito. Ma torniamo alle mie <pantofole». Forse fu il subcosciente a cacciarmi sulle labbra quella frase irritante. Le pantofole per un inviato speciale sono importantissime: sono il simbolo della casa, della famiglia, rappresentano nella memoria il momento soèpirato del ritorno fra la moglie e i figli. Un inviato speciale va di qua e di là per il mondo, a volte capita in mezzo a rivoluzioni o terremoti, e non sente mai stanchezza perché lo sostiene l'eccitazione del lavoro. Ma poi, quando l'eccitazione cade, ecco il miraggio delle pantofole: si sogna la casa come un tiepido rifugio, un paradiso. E io penso che mercoledì scorso, mentre mi trovavo sulla graticola della tv, e il cuore mi batteva forte, e la gola cominciava a farsi arida, il miraggio delle pantofole si sia insinuato a tradimento nel mio discorso, abbia preso la mano al mio giudizio critico. Mi lasciai andare. E sapete bene qual è la legge inesorabile di una trasmissione: uno non può tornare indietro. Non può cancellare. Quel ch'è detto è detto, e'peggio per lui.' Nicola Adelfi

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