C'è ancora una presenza viva dell'Italia in Tripoli aperta a tanti influssi nuovi

C'è ancora una presenza viva dell'Italia in Tripoli aperta a tanti influssi nuovi I^A LIBIA, VENT'ANNI DOPO C'è ancora una presenza viva dell'Italia in Tripoli aperta a tanti influssi nuovi Non è solo una conseguenza del dominio passato: la bella capitale conserva un'impronta, d'architettura e d'atmosfera, simile a tante nostre città di mare - Ancor oggi i nostri connazionali svolgono, una larga attività economica, anche nelle terre bonificate; i prodotti italiani sono i più venduti; l'Italia attrae i dirigènti saliti al potere con l'indipendenza - Ma americani e spagnoli, egiziani ed inglesi portano fermenti diversi al paese in piena trasformazione - Ora il giovane Stato, forse il più tranquillo e «ragionevole» del mondo arabo, è investito dal soffio sconvolgente del «boom» petrolifero monumentale, che fra le due 11 ■ Il 111.1111111 Illllll flirilllllll (Dai nostro inviato speciale) Tripoli, febbraio. L'italiano ohe giunge oggi a Tripoli, vi respira ancora aria di casa. Sul sereno lungomare che si distende come un arco bianco fra il Castello ed il molo estremo del porto, magari un cammello avanza pigro nel flusso rapido delle auto: non importa, lo stile e la luce sono di una nostra città del Mezzogiorno. Le grandi case, i palazzi ufficiali del centro ripetono gli schemi di un'architettura insieme provinciale e guerre abbiamo visto dominare in patria e dà un certo volto € di ieri* a tante nostre citta/line costiere. Le palme coprano i giardini dei quartieri - residenziali, la periferia quasi.si confonde con lei oasi; ma le villette sono copie fedeli di quelle che vent'anni fa crescevano a Viareggio od a Riccione, modeste e tutte eguali, spesso con un vago gusto di dopolavoro. H? piacevole ritrovare l'impronta italiana nel volto della città: anche i meno nazionalisti fra noi conservano un tegame sentimentale con la terra Ubica, conoscono per tradizione familiare gli entusiasmi suscitati da « Tripoli.bel suoi ÒVamore > e dalla guerra dell' '11. Ha non sorprende:'si sa che Tripoli moderna . è creazione italiana; quando sbarcarono nel paese ■addormentato dal lungo dominio turco, in quel lontano ottóbre, i bersaglieri misero il Campo,tra tè dune del deserto, dove ora sorgono il palazzo di re Idris e la cattedrale cattolica. Quel che ci colpisce e ci interessa di più, ventanni dopo la fine del nostro dominio (le truppe dell'Asse sgombrarono la città il SS gennaio 1943), è la vivacità di un'operosa e libera presenza italiana. Che è legata al passato, ma anche ad attività ed iniziative nuove. Sono di italiani botteghe grandi e piccole, uffici, imprese, caffè, librerie, studi medici: le targhe portano anche la traduzione in arabo, come prescrive la legge; ma i nomi di casa nostra, da Ferrari a Esposito, predominano nel centro commerciale. L'italiano è sempre la seconda lingua: capito e parlato praticamente da tutti, senza riguardo al colore della pelle. Le nostre merci occupano il primo posto nelle vetrine: l'Italia supera Inghilterra e Stati Uniti nei rapporti commerciali con il regno senussita; dopo gli svizzeri, i libici danno il massimo consumo individuap-lk-bi*prodotti italiani* W± stri film dominano sui cartelloni, e non solo perché i 2Jf mila italiani superano di cinque volte l'intera colonia straniera: Sordi, Manfredi, Chiari hanno dei fans entusiasti fra i giovani arabi. I risultati del nostro campionato di calcio fanno notizia sui quotidiani locali, la Juventus ha dei tifosi fedeli che forse non la vedranno mai; ed è nota la passione di quell'altissimo funzionario della polizia federale, che si sobbarca a lunghi voli per seguire le partite dell'Inter. Non la sola passione sportiva spinge la nuova, giovane classe dirigente ad interessarsi di cose italiane. IIIItltllllllllllllllllllllllItlllllllllllUIIIIUIIItlHia € Montecatini è la quarta capitale della Libia», si dice qui; quarta dopo Tripoli, Bengasi e Beida «la bianca», scomodo centro governativo che re Idris (mistico capo religioso oltreché sovrano costituzionale) ha voluto istituire in un villaggio del Gebel cirenaico: lassù il suo pio nonno fondò, centovent'anni fa, la prima « loggia» senussita. Il viaggio in Italia è di rigore per i libici « bene », ed una consuetudine il soggiorno nella nostra città termale: così, all'inizio del secolo, i potenti dell'impero ottomano € passavano le acque» a Vìchy od a BadenBaden. La polemica anticolonialista pub suggerire qualche asprezza, spesso più di forma che di sostanza, nelle manifestazioni ufficiali e sulla stampa; né vent'anni hanno cancellato tutti i rancori nazionalistici, sopito ogni sospetto per gli ex-padroni. Ma abbiamo molti amici sinceri tra i nuovi governanti; fieri della loro cultura italiana, sensibili al fascino di Roma. •Mandano i figli nei collegi sul Gianicolo, tengono una seconda casa sulle pendici di Monte Mario, vestono nelle nostre boutiques le loro compaone; e il poeta Ubico Fuad Cabasi ha commemorato d'Annunzio sotto gli auspici della « Dante». Più emozionante che nella grande città, così naturalmente aperta sul Mediterraneo, è ritrovare il segno di una costruttiva presenza italiana ben oltre le dune e le bibliche oasi costiere, dove incomincia la nuda desolazione del deserto,, dietro le rocce orride del Gebel. I più dei nostri connazionali nanna lasciato la campagna (fonti inglesi dicono che ce n'erano 19 mila alla fine del conflitto). Mólti villaggi, così simili a quelli dell'Ente Maremma, sono vuoti, con le casette sventrate ed i poderi sommersi dalla srrhbia; o impoveriti da un negligente abbandono. Ma parecchio è. [rimasto,- della.còtoniazuzione-. condotta con spese immense ed a ritmo quasi affannoso fra il '34 e la guerra. Sulle colline di Tarhuna, sull'altopiano di Garian fioriscono ora i peschi ed i mandorli; umidi campi si stendono al riparo delle cortine di cipressi, innalzate contro il vento; orti di un verde pingue e fresco e densi frutteti appaiono oltre cancelli da fattoria toscana, su cui si leggono ancora nomi di agricoltori italiani. La fine del mondo coloniale non li Ita allontanati dalla terra' ohe avevano risvegliato, e che amano. Lo osserviamo con gioia, ma senza nostalgie nazionalistiche e senza chiudere gli occhi ad un'altra realtà diversa, non meno positiva: la Libia d'oggi è un paese nuovo, investito da molti venti, aperto ad influssi non solo italiani. I bruni comandanti della polizia, in uniforme britannica, hanno imparato a portare il frustino sotto il braccio come gli ufficiali dei reggimenti scozzesi acquartierati alla periferia. Tecnici americani — cappellaccio alla cow boy, camicie a quadri, stivali texani — si muovono tra gli alberghi e gli uffici. Negli ospedali, anche della provincia, lavorano medici spagnoli e jugoslavi. Nell'Institute of Advanced Technology, la facoltà scientifica dell'Università di Stato, insegnano professori tedeschi ed egiziani. Banche londinesi e compagnie californiane costruiscono, tra i palazzi ■ piacentiniani, sedi funzionali in cristallo e alluminio; moschee e minareti in cemento armato sorgono accanto agli alberghi freschi di vernice. Cacciabombardieri Usa si inseguono in acrobazie fulminee tra il mare ed il vecchio autodromo della «lotteria di Tripoli», partendo dall'immenso Wheelus Field. I giapponesi hanno tenuto in porto per qualche tempo una loro nave-esposieione; tutti gli Stati comunisti sono presenti alla II Fiera Intemazionale, che si aprirà fra una settimana. Fuad Cubasi, che si dichiara pittore e non solo poeta, ha disegnato per l'inaugurazione un francobollo simbolico, dove la Libia appare come la porta dell'Africa. Auspicio ambizioso di un futuro ancora lontano. Per il momento la Libia è un piccolo paese, forse il più tranquillo e discreto del mondo arabo, che sta cercando la sua strada e preparando un avvenire ancora indecifrabile. Il bilancio di undici anni d'indipendenza è tutt'altro che negativo. Non aveva tradizioni unitarie; la Tripolitania diffidava del covrano senussita e di una dinastia venuta dal deserto cirenaico; nel Fezzan i signori feudali si agitavano in velleità separatistiche, sostenuti da antiche ambizioni francesi. Ora il monarca è rispettato anche a Tripoli, ed il ritratto di re idris appare in tante case e botteghe (talvolta accanto a quello di Nasser); il decreto improvviso del governo, che nello scorso dicembre annullò la struttura federale del regno ed impose lo Stato unitario, ha suscitato qualche inquietudine ma nes¬ sun incidente. Per un decennio solo i sussidi inglesi e l'affitto pagato dagli americani per Wheelus Field (una dozzina di miliardi all'anno) sostennero le gracili finanze libiche; ora le royalties del petrolio aprono un periodo di gestione più libera e di più facile progresso. Cresce la ricchezza (e si moltiplicano le facili ricchezze), si allarga il proletariato urbano, incomincia la fuga dai magri pascoli del deserto. E' una scossa utile, per un paese ancora legato dalle tradizioni musulmane, dove non c'è donna libica che osi deporre il velo, e l'estenuante digiuno del Ramadan, rispettato con rigore puritano, rallenta per un mese l'intero ritmo di vita. Ma suscita problemi ardui per una classe dirigente che si è improvvisata nel fervore dell'indipendenza; per i quadri amministrativi troppo esigui, spesso legati al mondo tribale, dispersi fra tre capitali. E pone delle gravi incognite: come l'apparire di una tensione sociale finora sconosciuta. Il futuro è nelle'mani di Allah;-tuttavia non mancano motivi d'ottimismo. La Libia non soffre, come altri paesi arabi, per un'atroce miseria e per un rapido crescere della gente da sfamare: anzi, ha pochi abitanti (non molto più d'un milióne) dispersi in centri troppo lontani, su un territorio troppo vasto. Ha superato con senso d'equilibrio i primi anni difficili; pur nella fedeltà all'arabismo, dimostra moderazione ed ignora l'intolleranza xenofoba. Forse il suo avvenire dipende anzitutto da come sarà impiegato — e distribuito — il fiume d'oro delle royalties. Stanno per aprirsi le bocche dei primi oleodotti. Il 1963, anno 10 dalla fine dell'occupazione italiana e anno 11 dell'indipendenza, è Tanno 1 nell'era del petrolio. Quella decisiva. Carlo Casalegno La Libia è grande quasi sei volte l'Italia, ma aoltanto la stretta fascia costiera è coltivabile e abitata da un milione e duecentomila persone. La terra produce cereali, viti, olivi, tabacco. Ricchezza quasi unica è il petrolio, di cui sono stati scoperti vasti giacimenti niiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiutiiiiiiiiiiiiiiiuiiiiiiiiiiiiiniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiu

Persone citate: Carlo Casalegno, Esposito, Field, Fuad Cubasi, Nasser, Sordi