Pavese ha raccontato nei suoi versi la lunga tragedia della solitudine

Pavese ha raccontato nei suoi versi la lunga tragedia della solitudine LE «POESIE EDITE ED INEDITE» RACCOLTE DALL'AMICO CALVINO Pavese ha raccontato nei suoi versi la lunga tragedia della solitudine Tutte le immagini cosi varie e concrete di città e di campagna, sono variazioni su un unico tema: il male di vivere - Rileggere ora questo ampio poema, è scoprire che la poesia non era per lo scrittore qualcosa di secondario a confronto dei racconti: è forse la parte migliore della sua opera La prima raccolta poetica di Pavese, Lavorare stanca, comparve nel 1936, e fu ristampata sette anni dopo con qualche taglio e numerose aggiunte. La seconda, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, usci postuma nel 'SI, quand'era ancor viva la commozione provocata l'anno avanti dal suicidio dello scrittore: comprendeva un poemetto, < La terra e la morte » e dieci poesie ispirate da quell'amoredisàmore - per un'attrice americana che — appunto — aveva! definitivamente spinto il quarantaduenne scrittore ad appagar» un'antica e radicatissima tentazione di togliersi la vita. Diverse liriche, poi, erano rimaste inedite: molto notevole, tra le altre, un gruppo di' undici « Poesie del disamore ». . Tutte quèìte rime, che rappresentano al completo l'opera in Versi del PUvcse- dopo i mai diffusi esperimenti giovanili, formano ora il volume delle Poesie edite e inedite (ed. Einaudi) curato da Italo Calvino. Qui le liriche son disposte in un unico ordine cronologico; un'appendice informa minutamente sulle precedenti eàizioni parziali e sui manoscritti; le ultime trenta pagine, con una puntuale serie di note, ricordano l'origine e l'occasione di ogni singolo pezzo, documentando — per quelli di più laboriosa stesura — le diverse fasi dal primo abbozzo all'intricato succedersi delle prove, dei pentimenti, delle varianti ecc. ecc. E bisogna ester grati al Calvino di questa fatica: non, semplicemente, per l'esattezza del lavoro compiuto ma più ancora per la discrezione con la quale ha evitato i due pericoli così facili in imprese del genere, dove troppo spesso lo scrupolo editoriale si perde fra vane minuzie e puntigliose esibizioni filologiche, e — altrettanto spesso — l'occasione diventa celebrativa. Il curatore, insomma, mirando al sodo e senza ombra di solennità, ha reso all'autore il migliore omaggio possibile: si è messo al servizio dei lettori, per aiutarli a comprendere un mondo di fantasie, di ideali, di passioni e di rovelli molto più ricco e complesso di come sembra. E ce n'era bisogno. Perché Pavese è poeta difficile: tanto più difficile quanto più sembra facile e si direbbe che bastino le prime impressioni a mostrarcene la natura vera. I suoi stati d'animo, infatti, non sono molti: sfiducia nella realtà presente, vagheggiamento di serenità così remote da luccicare di fiabeschi brillìi, ribellione — inutile e sorda — al male di vivere. E molte, invece, sono le immagini predilette, che tornano nell'immaginazione commossa a sfondo delle ispirazioni più vive: ma la loro varietà non tarda, a rivelarsi apparente. Osterie, manifesti sui muri, vicoli, campagne, vie cittadine, case in costruzione ecc. ecc. sono scenarli di una sola tragedia: perché le confidenze del bevitore di grappa hanno la stessa disperazione di chi si ribella all'assurda gaiezza del * divi » sorridenti dai manifesti; perché le campagne verdeggiano molli solo nella memoria dell'espatriato, ad avvelenarlo di nostalgia, con la stessa crudeltà che dì notte fa sibilare il vento sugli asfalti deserti e lungo le impalcature dei muratori: quella, e non altra, è la sua voce. Tutte immagini, dunque, misteriosamente simili: da far pensare alle espressioni che si succedono su un volto, e sono tante, ma il volto non muta. Di qui, allora, l'idea che questo sia un poeta facile, senza sorprese. Facile, poi, anche per il linguaggio: così piano, narrativo, che si distingue dalla prosa solo per l'armonia mai cantante del verso lungo. Ma c'è ben altro. Cè qualcosa che ribolle inquieto, e piglia la gola, e non basterebbero le variazioni di pochi motivi a dargli la forza che ne sentiamo. Sfuggiva, perché ci si era convinti che la poesia di Cesare Pavese fosse qualcosa di occasionale, di secondario a confronto della sua prosa. E non era bastato che l'autore stesso, anche quando ormai i suoi romaniti lo avevan messo in prima fila tra i nostri scrittori, avesse indicato nelle rime la parte migliore, del suo lavoro: confessioni del genere, anzi, son destinate a lasciare il tempo che trovano, essendoci pronta la risposta (* gli artisti son pessimi giudici della loro opera ■») che le fa cadere nel vuoto. E così abbiamo perso tempo.. Ci voleva un canzoniere ordinato e completo, ci volevano queste indicazioni misurate e precise forniteci da Calvino, per leggere bene dove si era letto male e poco. Così, leggiamo non i frammenti di una sensibilità /generosa ma- acerba, in cerco- di quegli sbocchi che — secondo l'opinione corrente — Pavese avrebbe trovato nei romanzi: leggiamo un lungo, ininierroito, poema della solitudine. Né sarebbe, ora, il caso di inventare classifiche sul metro della grandezza, per vedere quanto in meno o quanto in più contenga questo libro rispetto ai libri degli altri poeti contemporanei. Basterà una sola indicazione: < solitario » come tutti i lirici del nostro tempo, Pavese non cantò la solitudine dell'artista che geme inascoltato: cantò — con una specie di cristiano eroismo — la solitudine di ogni creatura. E aprite il libro a caso, come si fa coi libri che van custoditi a portata di mano: I mattini trascorrono chiari e deserti sulle rive del fiume, che all'alba s'annebbia e incupisce il suo verde, in attesa del sole. L'aria, cruda di nebbia, si beve a sorsate come grappa, ogni cosa esala un sapore... A quest'ora ciascuno dovrebbe fermarsi per la strada e guardare come tutto maturi. Uno spunto, uno spunto a caso, e tutto il resto vien dietro. Ferdinando Giannessi