La vita leggendaria dell'«uomo del petrolio» dalla povera infanzia al prestigio mondiale

La vita leggendaria dell'«uomo del petrolio» dalla povera infanzia al prestigio mondiale La vita leggendaria dell'«uomo del petrolio» dalla povera infanzia al prestigio mondiale Roma, 27 ottobre. Lo divorava la febbre dell'azione, ostacoli e nemici lo eccitavano, non metteva limiti alle sue ambizioni. Soprattutto non si accordava distrazioni o piaceri, ma stava sempre tutto concentrato sui problemi che lo assediavano anche nel sonno, era prontissimo a cogliere errori e debolezze nei concorrenti, avversari, nemici. Ne aveva da per tutto, in Italia e fuori. E il suo ardire sgomentava quanti lo circondavano. Anche quando non aveva carte buone in mano, con la sua immensa audacia riusciva a convincere gli avversari che era lui, Enrico Mattei, ad avere l'asso vincitore nella manica. Un personaggio simile non si era forse mai visto sulla scena italiana. S'era fatto da solo, dal niente. Quando lui nacque, nel 1906, suo padre era un brigadiere dei carabinieri: lo stesso che nel 1901 in una campagna di Pesaro, nel territorio di Acqualagna, aveva catturato Giuseppe Musolino, il bandito più famoso di allora. Successivamente il brigadiere era stato promosso maresciallo, aveva preso moglie e avuto cinque figli, nel 1919 era andato in pensione. Poco era il danaro in casa Mattei, e a quindici anni Enrico andò a lavorare in una piccola fabbrica di letti metallici a Matelica, presso Camerino: poiché era sveglio e volenteroso, dopo pochi mesi di apprendistato gli diedero la qualifica di verniciatore e un salario fisso. Un anno dopo, stanco di letti e vernici, Enrico Mattei riuscì a farsi assumere come fattorino in una industria dolciaria. Fu una decisione ottima: nel giro di nemmeno tre anni divenne via via impiegato, tecnico, vice-direttore, direttore. A diciannove anni si trovò a dirigere una azienda di centocinquanta operai, con un ottimo stipendio e davanti a sé le più vantaggiose prospettive. Eppure il ragazzo non era contento: si sentiva languire in quel piccolo paese, Matelica. Lo immalinconiva l'idea di essere al vertice della carriera, di poter a vent'anni anticipare con molta verosimiglianza quale sarebbe stato il futuro corso della sua esistenza. In casa con il padre cominciò a parlare di Milano; una metropoli industriale e commerciale con le più diverse e sorprendenti possibilità aperte ài' giovani di buona volontà. I genitori gli saltarono addosso: era una pazzia lasciare l'eccellente posto nell'industria dolciaria per correre alla ventura verso l'ignoto. Il ragazzo diceva di sì, che era senz'altro una pazzia, ma non per questo la sua malinconia per il monotono avvenire, la sua impazienza per nuove prove e cieli diversi scemavano. Infine, a 23 anni, nel 1929, Enrico Mattei raggiunse Milano attratto da una ditta tedesca specializzata nella produzione di macchine per l'industria conciaria. Le prime settimane furono poco meno che angosciose: il giovane e incolto provinciale venne a trovarsi davanti a una stenodattilografa scarsamente comprensiva e a un catalogo scritto in tedesco, lingua di cui non conosceva nemmeno una parola. Era una situazione insostenibile e tale rimase fino al giorno in cui il giovanotto non lasciò la spinosa poltrona dell'ufficio e si mise a viaggiare per l'Italia. Divenne un ottimo piazzista; sincero, onesto, convinto, si rendeva conto degli impianti esistenti presso le varie fabbriche e proponeva solo l'acquisto di macchine che effettivamente potessero migliorare i sistemi di produzione. In breve si formò una buona clientela ed erano gli stessi industriali che lo chiamavano quando si proponevano di ammodernare i loro impianti. Sembrava che ormai la sua vita, quella di piazzare merci, fosse segnata; e per il ragioniere Mattei fu del tutto naturale alcuni anni dopo lasciare l'industria della concia e accettare la rappresentanza di un'importante società chimica. Tuttavia un anno e mezzo dopo smise di correre l'Italia e iniziò per conto proprio una piccola fabbrica di prodotti chimici destinati alla industria conciaria e tessile. Aveva 30 anni, un buon bagaglio di nozioni, inesauribili capacità di lavoro, la volontà sempre tesa all'avvenire. Ed ecco la guerra, il crollo, l'occupazione nazista. Mattei entrò nelle file partigiane e poiché era suo destino che dappertutto dovesse primeggiare, in poco tempo anche qui, anche nella lotta partigiana, finì ai primissimi gradi. Un certo momento lo vediamo al comando del movimento della Resistenza dell'Italia settentrionale: dei .suoi colleghi, tre erano stati fucilati e il quarto stava, in carcere in attesa di ricevere la sua razione di pallottole. Mattei fu fatto due volte prigioniero e due volte riuscì ad evadere. La più drammatica, ma anche quella che più dà la misura del carattere retto e deciso dell'uomo, fu l'evasione dalla prigione di Como. Egli in quel tempo si faceva chiamare Monti nei rapporti che intratteneva come capo della democrazia cristiana e Marconi come capo delle forze partigiane: il commissario politico Saletta aveva arrestato Monti, ma ne ritardava l'esecuzione capitale nella speranza che il prigioniero si decidesse a svelare in quale posto si celava Marconi. In attesa di morire, Mattei preparava la fuga. Fuggì una sera tardi, durante il cambio della guardia e approfittando di un corto circuito che aveva immerso nella oscurità la prigione. Riuscì a scavalcare muriccioli e cancelli secondo un piano studiato in ogni particolare e attuato con estrema precisione. Si trovò infine davanti all'alto muro di cinta, coperto di aculei e punteruoli; Mattei, che era alto e atletico, servendosi del cappotto come d'un cuscino riuscì a scavalcarlo. Trascorse alcune ore rannicchiato in un cuneo d'ombra a due passi dalla ronda di notte; e solo alle cinque del mattino potè fuggir via. La città di Como, che Mattei non conosceva, stava come morta nell'oscurità del tempo di guerra e nel silenzio del coprifuoco. Ad un certo momento, strisciando lungo i muri, l'evaso arrivò di fronte alla caserma dei brigati¬ sti neri e fu visto dalla sentinella. Allora uscì francamente nella strada, camminò con passo sicuro fine alla caserma, domandò alla sentinella da che parte fosse la stazione. Vi arrivò che non c'era nessuno; o meglio, c'era solo un brigatista nero col suo cane lupo. Mattei era stato trattenuto un paio di settimane nella questura di Como, dove i militi fascisti tenevano una squadra di cani lupi per dare la caccia ai partigiani e agli evasi. Avvenne perciò quella mattina che, non appena il cane sentì un odore familiare, si attaccò alle costole del fuggiasco; più il brigatista lo richiamava indietro e più il cane si ostinava a girare intorno a Mattei. Di lì a qualche giorno riprese il suo posto alla testa delle formazioni « Di Dio » e «Fiamme verdi >, e quando arrivò il giorno dell'insurrezione nell'Italia Settentrionale Mattei si trovò a comandare centomila uomini. Subito dopo cominciò la vera, la grande avventura di Mattei. Nella seconda metà del 1945. al tempo del governo Farri, Mattei era stato nominato commissario straordinario dell'Agip per l'Alta Italia con l'incarico categorico di liquidare tutta l'attrezzatura mineraria di quella azienda statale. Al tempo del fascismo, nonostante le notevoli somme spese per trovare petrolio o metano, l'Agip aveva raccolto magri frutti: un filo di metano per un modesto numero di autoveicoli. A parte questo, le continue speranze di trovare idrocarburi italiani, gonfiate oltre misura dalla propaI ganda fascista, si erano sempre risolte in altrettante delusioni. In definitiva l'opinione generale era che in questo campo gli italiani non avessero niente da aspettarsi e che la cosa più sag¬ gia fosse svendere ogni cosa. Il ministro delle Finanze era allora Marcello Soleri, e le disposizioni ch'egli inviava a Mattei perché si affrettasse a smobilitare l'attrezzatura mineraria ricavandone una sessantina di milioni di lire (preziosi anch'essi in quel momento), col passare delle settimane si facevano sempre più pressanti,-diventarono ordini inderogabili, furono infine scritte nell'inchiostro della collera. Mattei, inserendosi nella diffusa indisciplina di quell'epoca di scarsa autorità governativa, si mise sul piede dell'aperta ribellione. Come mai, lui così disciplinato, il figlio del maresciallo dei carabinieri, non aveva ora nessuna esitazione nel dir di no agli ordini del ministro? La spiegazione dobbiamo cercarla a Lodi, nel Centro studi dell'Agip. In quel fortilizio della più moderna scienza mineraria italiana, Mattei venne a trovarsi in presenza non già di burocrati istupiditi dagli ideali dell'autarchia, o resi fiacchi dal lungo possesso di poltrone direttoriali; ma di scienziati, uno più giovane dell'altro, uno meglio preparato del suo vicino di stanza, per la maggior parte gente decisa a pagare di persona e da poco tornata alla vita civile dopo gli anni di guerriglia partigiana. Il commissario liquidatore si lasciò catturare dai fervidi alacri giovanotti di Lodi e quando uscì da quel fortilizio portava con sé la bandiera degli idrocarburi italiani. Era disposto a difenderla con la tenacia quasi feroce che egli metteva in tutte le sue faccende. Da Roma, assediata da ben altri problemi, non arrivava una lira, ma solo aspri rimproveri per la disobbedienza; le banche non erano disposte a concedere il più piccolo prestito; i capitali¬ sti privati scuotevano il ca po pieni di scetticismo. Si parlava della fissazione di Mattei con l'ironia che si accompagna al discorsi dei matti, con un facile gioco di parole. Avvenne invece nel 1949, dalle viscere della terra un'immensa nube di metano irruppe nel cielo di Caviaga. Passò del tempo e lo stesso accadde a Ripalta; e poi a Cortemaggiore, insieme col metano, fu visto zampillare il petrolio. Fu solo un caso se al momento di quel primo zampillare era presente il ministro delle Finanze Ezio Vanoni e se una squadra di fotografi si trovava lì pronta per ritrarre il ministro mentre immergeva le mani nel liquido grasso e nero? Pochi sono disposti a crederlo. E' più verosimile che Mattei abbia giocato in quel momento la carta della disperazione; o, se preferiamo parlare senza eufemismi, che egli si sia comportato come quei giocatori di poker, quando hanno brutte carte e danno ad intendere di averle bellissime. Se bluff ci fu, l'altissima posta in gioco lo rendeva assolutamente necessario. Infatti, una volta accertato che la Valle Padana era una delle zone più ricche d'Europa di idrocarburi, la lotta per chi dovesse diventare il padrone aveva scatenato l'abituale furibonda battaglia; senza esclusione di colpi, senza badare ai mezzi leciti o illeciti. Nel giro di pochi mesi le richieste al ministero per autorizzare le ricerche di petrolio nella Valle Padana erano salite a tremila; i rappresentanti delle più grosse compagnie petrolifere dell'America e dell'Inghilterra andavano a battere i pugni fin nello studio dei ministri italiani, coprivano la stampa quotidiana e periodica di avvisi in cui era dimostrata la scarsa convenienza per l'economia italiana di gettarsi nella costosa e pericolosa avventura del petrolio. La confusione delle idee arrivò a tal punto che i ministri socialisti sostenevano l'opportunità di lasciare questo campo inesplorato ali iniziativa privata, e viceversa ministri di indirizzo liberale appoggiavano la tesi opposta, quella del monopolio statale. Ad un certo punto i concorrenti stranieri misero somme cospicue nelle mani di investigatori privati perché esplorassero giorno per giorno la vita di Mattei fin dagli anni dell infanzia, per vedere se fosse possibile colpirlo con qualche scandalo. Si passò poi alle minacce di violenza e Mattei rimobilitò una parte dei suoi partigiani per organizzare una triplice barriera di sorveglianza e di difesa intorno ai giacimenti già in efficienza. Se un improvviso incendio, una terrificante esplosione avesse distrutto i pozzi, non sarebbe stata questa ia dimostrazione migliore che lo Stato era un inetto custode dei suoi beni industriali? A un certo punto di questa battaglia senza soste, gli avversari di Mattei cominciarono a prendere il sopravvento sospinti da un vento robusto, impetuoso e per alcuni aspetti anche misterioso. Quando la partita sembrava ormai decidersi a loro favore avvenne il miracolo o, se volete, il bluff di Cortemaggiore. Ci fu il rovesciamento completo delle posizioni: il Parlamento decretò il monopolio dell'Azienda di Stato degli idrocarburi della Valle Padana. Ancora una volta Mattei aveva vinto. Chiunque altro al suo posto si sarebbe accontentato di fare il presidente di una delle più importanti aziende statali. Per Mattei quella vittoria fu solo una premessa. Così era fatto l'uomo. Vincere per lui significava proporsi una metà più alta e più difficile. La sua prossima mèta fu l'assalto al monopolio internazionale del petrolio. Sembrava una pazzia, un suicidio sfidare le famose « sette sorelle », con tutta la loro potenza finanziaria e politica. E sul principio, quando l'oscuro Mattei si affacciò nell'agone internazionale e lanciò il suo cartello di sfida, le « sette sorelle » si misero a ridere. Peraltro non lo fecero a lungo. Presto dovettero accorgersi che l'uomo era una specie di istrice, spinoso e inafferrabile. Cercarono di ammansirlo dandogli alcune briciole, e fu peggio. Ad un certo punto le «sette sorelle» vennero a trovarsi con la Persia in fiamme, come morta quella immensa metropoli di raffinerie e di depositi di petrolio che è Abadan, e l'astuto Mossadeq che trattava con Enrico Mattei. Ma anche la vittoria nell'Iran, ma anche il tremendo scossone dato al monopolio internazionale del petrolio non rappresentarono che altre piste di lancio per Mattei. Non passò molto e sostituì gli inglesi in Egitto. A poco a poco estese i suoi rapporti in tutto il bacino del Mediterraneo, andò persino a trattare con Kruscev. E intanto in Italia la holding rappresentata dall'Eni andava acquistando proporzioni sempre più grandiose, con giacimenti di metano o di petrolio in molte regioni, con fabbriche ed officine in quasi tutte le regioni, con imprese disparatissime in molti campi. Coniugato ma senza figli, non sapeva che vuol dire riposarsi. Correva sempre, era capace di stare sul lavoro quarantotto ore di seguito con poco cibo e molto caffè. Gli si conosceva un solo vizio, se tale si può chiamare: l'attivismo, la febbre divorante di sentirsi vivere fra idee vive, progetti vivi, imprese vive. Dei nemici non si curava se non per capire i loro lati deboli e colpirli senza esitare, però senza mai soffermarsi a infierire inutilmente. Gli attentati alla sua vita non lo sgomentavano. Era solito dire che la. sua superiorità sui nemici consisteva nel fatto che lui era sempre caricato al massimo di energie e sempre pronto, sempre rapido nell'azione: gli avversari invece badavano ai loro affetti familiari, ad accrescere i loro capitali, a godersi talora la ricchezza. Diceva: « Io mi sposto col reattore, in un'ora posso uscire dal mio ufficio, raggiungere Ravenna o Gela. Gli altri invece viaggiano ancoraf col vagone letto». A Roma continuava a vivere, come quindici anni fa, in un albergo piuttosto piccolo di via Ludovisi. Gli agi non Io interessavano, dei lussi si rideva. Fisicamente, alto e asciutto com'era, poteva dirsi anche elegante; però si capiva subito che non perdeva tempo né dal sarto né dal camiciaio. Una volta, molti anni fa, quando egli era all'inizio della sua vertiginosa carriera e solevamo incontrarci spesso e lui stava sempre a riempirmi il capo di cifre coma se fosse un ripetitore automatico o una macchina calcolatrice, senza mai distrarsi, senza un aneddoto, senza un attimo di tregua e per me era difficile, sempre più difficile, quasi impossibile seguirlo nei suoi calcoli e ragionamenti; una volta dunque, tanti anni fa, io gli dissi: «In lei, onorevole, c'è qualche cosa di estraneo agli uomini comuni ». « Forse un po', di. esaltazione. Forse un pizzico di pazzia. Che so? ». Mattei anche nei rapporti quotidiani era abituato alla disciplina pronta e schietta dei partigiani. Stette a guardarmi sorpreso, sorrise, m'incoraggiò a dire fino in fondo quel che pensavo. Ed io: « Ecco. Ora capisco perché gli avversari la chiamano la Santa Giovanna italiana degli idrocarburi ». Anche Mattei sapeva sorridere, seppure raramente. Lo fece quella volta ed aggiunse: « Sì, effettivamente io non ho paura del rogo ». Ed è morto in un rogo. Per quanti lo hanno conosciuto di persona è difficile accettare l'idea della sua morte. Erano almeno vent'anni che la morte gli camminava a lato. Minacce e pericoli di ogni genere erano, si può dire, il suo pane quotidiano. Si trovava spesso al centro di roventi polej miche, di grandi odi e di I passioni infiammate. Ne sortiva sempre indenne. Né mai scemava quella sua eccezionale, quasi rabbiosa e inesauribile vitalità. Sì, è difficile persuadersi che Enrico Mattei sta ora fermo e mai più potrà alzarsi. Nicola Aclelfi resti del bireattore a bordo del quale era l'ingegner Enrico Mattei, L'aereo è precipitato, ieri sera nella campagna di Pavia (Telefoto)