I frati di Mazzarino restano al centro di dubbi e perplessità di A. Galante Garrone

I frati di Mazzarino restano al centro di dubbi e perplessità Sarà discussa in Appello la sentenza di Messina I frati di Mazzarino restano al centro di dubbi e perplessità I giuristi si chiedono entro quali limiti debba valere lo «stato di necessità»: può coprire una così lunga vicenda criminosa? - La mafia è un fenomeno grave e reale ; non basta per giustificare dei reati, né per sospendere la legge dello Stato L'assoluzione dei frati di Mazzarino non Ma dissìr^l. quell'atmosfera di perplessità e di inquietudine che sin da.1l'Iniaio ha pesato sul processo; anzi, in un certo senso, l'ha aggravata. Del resto, la vicenda giudiziaria non è finita. Il P. M. ha interposto appello. Òggi come oggi, l'opinione pubblica non può che porsi alcuni ansiosi interrogatici. I primi dubbi sorgono dalla formula dello « stato di necessità», adottata per tre dei quattro frati. La legge paria chiaro: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». E la Cassazione, a dissipare ogni dubbio, ci ha ricordato che può parlarsi di stato di necessità solo quando il pericolo sovrasti grave e Inevitabile, nella sua immediatezza, non quando esso sia solo temuto e atteso, oppure sia trascorso. Se c'è, e fin che c'è, obiettivamente, uno scampo, qualche modo di sottrarsi alla morsa inesorabile della tenaglia, non c'è ancora o non c'è più stato di necessità. Ora è noto che i cappuccini del convento nisseno andarono avanti per quasi tre anni ad assecondare tutta una serie di ben congegnate estorsioni — perftn dopo la morte del povero Cannada —, spiegando", in questa loro decisiva azione di < esattori », uno zelo,_ un'accortezza, una vis sottilmente e insistentemente persuasiva, che proprio non si vede come potessero conciliarsi con la disperata impotenza dell'uomo necessitato ad agire in un certo modo. Vien fatto di pensare che per tutti quei mesi e quegli anni, se veramente avessero voluto ribellarsi alle sollecitazioni e imposizioni dei mafiosi anziché darvi man forte, essi avrebbero avuto non una, ma più vie da scegliere: rifiutarsi, denunciare i fatti ai loro superiori, o alle autorità, farsi trasferire in altri conventi; magari tentare la via difficile, ma non impossibile, della cristiana persuasione o della intrepida minaccia. Ci sarà pure stata, per tutto quel tempo, qualche sosta o allentamento nella pretesa costrizione, qualche spiraglio di libertà. Così ragiona l'uomo della strada; e ci pare assai significativo che uno stesso dei difensori, e il più illustre, nella sua arringa praticamente abbandonasse al suo incerto destino questa così fragile tesi dello stato di necessità, tentando di afferrarsi a più solidi appigli. Ma anche le altre impostazioni difensive lasciano perplessi. Frate Agrippino, al presidente che gli contestava d! essersi volontariamente prestato a un'estorsione, rispose: < Ho creduto di salvare una famiglia, e pensavo di scegliere il male minore... Fra le rappresaglie e l'estorsione, ho pensato fosse meglio l'estorsione>. Sulla scia di questa sconcertante giustificazione, un difensore ha sostenuto che il fine ultimo dei frati non era di estorcere denaro alle vittime, ma solo di aiutarle in un frangente pericoloso, mortale. Un altro ha sciolto un inno al loro spirito soccorrevole, alla loro francescana misericordia. Ma le giustificazioni finalistiche, la « scelta del minor male », la cristiana pietà per le vittime, tutto appare come sfuocato di ■'•onte al fatto semplice e nu do cne una legge penale, la legge dello Stato, prevede come reato l'estorsione, e punisce chiunque concorra a porla in essere. Addurre i fini ultimi della propria azione, i propositi di pietosa salvezza del prossimo, potrà, sul terreno giuridico, giustificare la concessione di attenuanti specifiche e generiche, ma non mai cancellare l'esistenza di un reato. Quali che alano state le assolutorie morali in altra sede, le leggi dello Stato vanno rispettate. Si dice ancora: i frati di Mazzarino non sono che le vittime dì una società guasta, di una situazione storica determinata, la mafia. Lo « stato di necessità » è nell'aria stessa che si respira in certe province d'Italia, dove non ha sen La- sentenza di Messina non ha fatto altro che sigillare questa amara realtà. Sarebbe fatuo negare le tenaci e profonde ramificazioni social: della mafia siciliana (e chi volesse ragguagliarsi, non ha che da leggere il libro di Michele Pantaleone, Mafia e politica, pubblicato in questi giorni da Einaudi, con una prefazione di Carlo Levi che è un capolavoro). E possiamo aggiungere che il peso di questo tetro ambiente mafioso si è vagamente percepito nell'aula stessa della Corte d'Assise, dal principio alla fine (e per questo sarebbe stato forse saggio scegliere una sede più distante, come si fece per gif assassini di Salvatore Carnevale), come qualcosa di am- mortjanjg^p di paralizzante. utètìrbo, surdu e taci campa centu anni 'n paci*: questa sembra essere, in certe aule di giustizia, l'invisibile scritta. Ma non mettiamo tutto sulle spalle della società mafiosa, quasi che si trattasse di una potenza arcana che stronca e annulla in ogni caso le volontà e le responsabilità individuali: è troppo facile e troppo comodo. La mafia potrà costringere a subire inerti una catena di delitti (ed è già cosa gravissima) ; ma non può costringere a commetterli. Come ha detto Piovene, non dobbiamo smarrire il senso delle distinzioni precise, del dovere che a ciascuno incombe di non prestarsi al soprusi. E se possiamo capire la particolare distorsione mentale e morale di chi, come i quattro frati, è nato e vissuto in un mondo di antiche e vergognose sopraffazioni, non possiamo ammettere che vada impunita — o addirittura esaltata con ditirambici voli — la violazione della legge penale. Ai dubbiosi interrogativi dell'opinione, questi sono, a nostro avviso, i punti fermi che possono essere dati come risposta (indipendentemente dall'esito che avrà il processo d'appello), e che In sostanza sì riducono a uno solo: il doveroso rispetto della legge dello Stato. Il problema è tutto qui. Non tiriamo in ballo la religione, o l'umile, incontaminato saio di San Francesco; non mescoliamo il sacro al profano. Ai familiari del Cannada che sgomenti invocavano Iddio, fra Carmelo un giorno rispose: «Lasciate stare Dio, dobbiamo pensarci noi. Che Diu e Diu, ciamu a pinzari nuantri ». La religione, messa in disparte e dimenticata nei crudi, prosaici maneggi delle estorsioni, non può essere più tare?! invocata come un rifugio, o uno scudo. Dal recentissimo libro di Fausto Nicolini su Benedetto Croce (ed. Utet) apprendiamo che nel 1837 il nonno di Croce, alto magistrato del regno di Napoli, chiese e ottenne la pena di morte per alcuni frati cappuccini che si erano associati a una banda di criminali: « un'associazione di colpevoli (scriveva 11 nonno di Croce al bisnonno" di Nicolini, anch'esso magistrato) che si era formata ne' cenobi di alcune pmvincie, nella quale avevano la parte principale alcuni religiosi; un'associazione che aveva scambiato la sagrestia del tempio del Signore in un quartiere d'uomini tristi». Il carteggio dei due magistrati ci rivela che nell'animo loro il rigido senso del dovere era prevalso su ogni altro scrupolo; che i cappuccini erano stati considerati e trattati alla stregua di tutti gli altri imputati. Oggi, come e più di un secolo fa, la tonaca non può essere di schermo alla giustizia Lo aveva scritto Jemolo in marzo, su queste colonne; lo ha ripetuto, con ammirevole vigore, il P. M. alle Assise di Messina. A. Galante Garrone

Persone citate: Agrippino, Benedetto Croce, Carlo Levi, Einaudi, Michele Pantaleone, Nicolini, Piovene, Salvatore Carnevale

Luoghi citati: Italia, Mazzarino, Messina, Napoli