Confermato in appello il fallimento di Giuffrè

Confermato in appello il fallimento di Giuffrè Confermato in appello il fallimento di Giuffrè Quindici creditori avevano richiesto il procedimento Il commendatore avrebbe incamerato oltre due miliardi I suoi debiti ammonterebbero a 3 miliardi e 497 milioni (Dal nostro corrispondente) Bologna, 14 giugno. La prima sezione civile della Corte d'Appello ha respinto l'appello interposto dal cornm. Giambattista Giuffrè, « il banchiere di Dio », avverso la sentenza che confermava la dichiarazione del suo fallimento. La sentenza, di cui è stato estensore il consigliere dott. Sebastiano Di Marco, consta dVottanta cartelle dattiloscritte e motiva le ragioni della ripulsa delle richieste dell'opponente. Ferruccio Nasci ed altri quattordici creditori, con ricorso del 15 settembre 1958, chiedevano al presidente del Tribunale di Bologna il fallimento del Giuffrè. Il Tribunale, l'8 aprile '59, dichiarò il fallimento ma alla dichiarazione si opposero sia il fallito sia uno dei suoi creditori, il colono Antonio Taglioli. I due procedimenti vennero pertanto riuniti. Il Giuffrè negò di aver esercitato l'attività di imprenditore commerciale, specificando di essersi limitato, nella veste di « amministratore e sindaco apostolico », a raccogliere contributi volontari impiegandoli in opere di carattere assistenziale, sociale e religioso, secondo la volontà dei donatori e senza fini di lucro. Nel corso del giudizio il Giuffrè chiedeva di provare con testimonianza che negli anni precedenti al fallimento egli era stato «sindaco apostolico» per la provincia di Bologna dei frati minori cappuccini nonché di altre confraternite. Il Taglioli chiedeva cose analoghe, aggiungendo che gli constava che il Giuffrè, prima del dissesto, era in possesso di ingentisslmi capitali depositati, in parte, presso banche estere. Il giudice istruttore ritenne che queste circostanze non fossero rilevanti ai fini della decisione, non potendosi fra l'altro escludere che il Giuffrè avesse svolto, oltre agli incarichi ecclesiastici, una vera e propria attività economica. La sentenza accenna poi all'inchiesta parlamentare, ricordando che la Commissione appositamente istituita per indagare sul dissesto del «banchiere di Dio » accertò in linea indicativa che i capitali incamerati dal Giuffrè assommassero a due miliardi e 382 milioni, mentre il Giuffrè era rimasto debitore di tre miliardi e 497 milioni nei riguardi dei suoi finanziatori. < L'attività del Giuffrè — dice fra l'altro la sentenza — non può essere inquadrata nell'ambito della beneficenza anche a voler riconoscere, con aderenza alle risultanze di causa, che i finanziamenti per la costruzione di varie opere siano stati sempre concessi gratuitamente agli enti interessati. Troppo superficialmente si è spesso posto l'accento su codesto aspetto religioso dell'attività del Giuffrè senza avvertire il profondo e sostanziale contrasto tra l'asserita generosità del benefattore e la fredda e calcolata spregiudicatezza del medesimo nella raccolta del denaro, che avrebbe dovuto servire appunto per 1 supposti fini benefici». Dopo avere esaminato in dettaglio il complesso meccanismo dell'attività del banchiere, la sentenza prosegue affermando che « invero l'appellante ha" contratto mutui per somme veramente cospicue e ad altissimo interesse, camuffati come depositi in amministrazione, benché fosse convinto, e non avrebbe potuto non es¬ serlo, che il sistema praticato non avrebbe potuto durare all'infinito né dare alcun utile risultato e che i mutuanti, soprattutto gli ultimi, sarebbero stati defraudati di ogni loro diritto per effetto dell'inevitabile e prevedibile dissesto dell'impresa ». c- c# ■

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